Per la Cassazione ora sono impugnabili gli avvisi bonari dell’Agenzia delle entrate (Cass. n. 7344/2012)

Redazione 11/05/12
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Svolgimento del processo

Con sentenze n. 20/18/2010, depositata il 8.4.2010, n. 11/21/2010, depositata il 15.1.2010, n. 86/14/2010, depositata il 17.11.2010, la Commissione Tributaria Regionale del Veneto, confermava le decisione delle rispettive Commissioni Tributarie Provinciali che avevano accolto il ricorso proposto dalla Veneto Banca Holding, soc. coop. p.a. avverso le cartelle di pagamento con la quale l’Agenzia delle Entrate, chiedeva il versamento della differenza per Irap relativa agli anni 2003-2005 La Commissione Tributaria Regionale riteneva corretta l’applicazione dell’aliquota, a titolo di Irap, del 4,25%, in luogo di quella maggiorata del 5,25%, avendo la L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, disposto la sospensione delle maggiorazioni delle aliquote Irap, non trovando applicazione la sanatoria di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 2, commi 22 e 23, sia con riferimento all’ambito temporale di applicazione, sia per non essere applicabile alla fattispecie in esame, avendo legittimamente la regione Veneto incrementato l’aliquota Irap, per il 2003, di un punto percentuale.

Veniva dichiarato inammissibile anche il secondo subordinato motivo di appello dell’Agenzia, diretto a richiedere l’applicazione dell’aliquota Iva del 4,75%, in quanto tale pretesa tributaria non era contenuta nell’atto originariamente impugnato, cioè l’iscrizione a ruolo notificata alla società. Proponeva ricorso per cassazione, con riferimento alle citate sentenze, l’Agenzia delle Entrate deducendo, i seguenti motivi comuni:

a) violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 16, comma 3, della L. Veneto n. 34 del 2002, art. 2, della L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a), della L. n. 350 del 2003, art. 2, commi 21 e 22, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ritenendo erronea la mancata applicazione della sanatoria, avendo la Regione Veneto illegittimamente disposto l’aumento percentuale di un punto dell’aliquota Irap per l’anno 2003, in mancanza di potere normativo in materia in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 381/2004;

b) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1 e 2, art. 112 c.p.c., D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 45, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ritenendo dovuta, in via subordinata, quanto meno l’aliquota del 4,75%, prevista per gli istituti bancari dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 45, comma 2.

La società intimata si costituiva nei giudizi di legittimità contestando perchè inammissibili e, comunque, infondati i motivi di ricorso formulando, formulando anche, con riferimento al ricorso n. 10 19729 (n.8) ricorso incidentale e deducendo, con riferimento al ricorso R.G. 11 17861 (11) anche violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e art, 18, lett. e), art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, lamentando il vizio di ultrapetizione in relazione alla affermata illegittimità della cartella esattoriale, non preceduta dalla notificazione di un avviso di accertamento trattandosi di questione non sollevata dalla banca ricorrente nel ricorso di primo grado. Con sentenza n. 64/18/2009, depositata il 5.11.2009 la Commissione Tributaria Regionale del Veneto, in riforma della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Treviso n. 55/3/2007, dichiarava inammissibile l’originario ricorso proposto dalla Veneto Banca Holding, soc. coop. p.a. avverso la comunicazione di irregolarità, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, comma 3, con la quale l’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale,chiedeva spiegazioni in merito al mancato versamento dell’importo di Euro 871. 282 a titolo di Irap per il periodo di imposta 2003, proponendone il recupero a tassazione con l’aggiunta degli interessi e delle sanzioni. La sentenza di primo grado aveva, invece, ritenuto l’impugnabilità del citato provvedimento, diretto ad accertare la sussistenza e l’entità di un debito tributario, accogliendo il ricorso della società contribuente, ritenendo non dovuta la maggiorazione di un punto, richiesta dall’ufficio, (dal 4,25% al 5,25%, con riferimento all’Irap 2003.

Rilevava la Commissione Tributaria Regionale l’inammissibilità del ricorso avverso la comunicazione di irregolarità, ritenuta priva di valenza impositiva che non conteneva alcuna intimazione e termine di pagamento, nè il termine per l’impugnativa.

La Veneto Banca Holding, soc. coop. p.a. impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, una prima volta con atto notificato all’Agenzia delle Entrate presso l’Avvocatura Generale dello Stato in Roma, e una seconda volta, ritenuta l’erroneità di tale prima notifica, in sostituzione del precedente ricorso, alla Agenzia delle Entrate, presso la sede di Roma. In entrambi i ricorsi deduceva i seguenti motivi:

a) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per avere ritenuto la non impugnabilità della comunicazione di irregolarità, non essendo tassativa l’elencazione degli atti impugnabili di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e contenendo il provvedimento una compiuta e non condizionata pretesa tributaria;

b) in via subordinata lamentava l’insufficiente motivazione della sentenza (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per aver dato rilevanza a aspetti formali, ininfluenti, tralasciando quelli sostanziali, gli unici ad essere determinanti, riproponendo i motivi di merito già formulati davanti alla Commissione Tributaria regionale dai quali si desume che l’aliquota Iva applicabili alle banche per il periodo di imposta 2003 era, per la Regione Veneto, pari al 4,25% per effetto della sospensione degli incrementi delle maggiorazioni delle aliquote *** disposte dalla L. n. 389 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a).

Si è costituita, in entrambi i giudizi, I’ Agenzia delle Entrate.

Con riferimento al primo ricorso, ha preso atto della rinuncia, chiedendo la declaratoria di estinzione del processo, con riferimento al secondo ricorso deduceva, in via gradata:

a) l’inammissibilità della seconda impugnazione, non essendo il primo ricorso affetto da un vizio di inammissibilità o improcedibilità, essendo la notifica eseguita presso l’Avvocatura Generale dello Stato solo nulla e, comunque, sanata dalla costituzione in giudizio dell1 Agenzia delle Entrate;

b) inammissibilità dell’impugnazione essendo stata emessa, nelle more, cartella di pagamento con riferimento alla medesima pretesa, anch’essa impugnata dalla società contribuente;

c) in ulteriore subordine rigetto del ricorso ritenendo corretta la decisione della Commissione Tributaria regionale. La società contribuente produceva memorie.

I ricorsi sono stati discussi alla pubblica udienza del 23.2.2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione

Preliminarmente occorre riunire tutti i ricorsi.

Quelli n.R.G. 10 3380 (n. 6) e R.G. 10 6264 (n.7) perchè proposti contro la stessa sentenza, in applicazione dell’art. 335 c.p.c., il quale prescrive che “tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite, anche d’ufficio, in uno solo processo” e, tutti, trattandosi di cause connesse che possono essere riunite ai sensi dell’art. 274 c.p.c., (stesse parti, stesse questioni di fatto e di diritto) e che vanno riunite al fine di prevenire il rischio di contrasto sostanziale di giudicati, posto che la riunione non comporta alcun ritardo nella trattazione.

1) Vanno, preliminarmente esaminate le questioni preliminari non assorbite.

Devono essere disattesi i motivi di ricorso della Banca avente ad oggetto genericità, mancanza o incompleta esposizione dei fatti e mancanza di autosufficienza dei ricorsi risultando una chiara e sufficiente esposizione da parte dell’Agenzia delle Entrate dei fatti anche con riferimento alle norme di legge asseritamente violate.

In relazione al ricorso R.G. 11 17861 (11) va osservato che la sentenza impugnata ha fondato il rigetto del ricorso su due ordini di motivi concorrenti e, quindi, autonomi e disgiunti l’uno dall’altro.

Il primo motivo concerne la illegittimità della cartella esattoriale per non essere stata l’iscrizione a ruolo della differenza di imposta Irap preceduta dalla notificazione di un avviso di accertamento, mentre l’altro motivo si incentra sull’infondatezza della pretesa sostanziale dell’Amministrazione.

La sentenza impugnata è affetta da ultra petizione con riferimento al primo motivo, trattandosi di questione mai sollevata dalla banca ricorrente nel ricorso di primo grado, con rilievo eccepito dalla Agenzia delle Entrate nei motivi di ricorso, ribadito nella successiva memoria.

Deve ritenersi, tuttavia, ammissibile la motivazione che si fonda su due autonome rationes decidendi, con distinte argomentazioni sufficienti a sorreggere la decisione del giudice di merito, il quale, dopo aver aderito ad una prima ragione di decisione, esamini ed accolga anche una seconda ragione, al fine di sostenere la decisione anche nel caso in cui la prima possa risultare erronea (Sez. 3, Sentenza n. 6045 del 12/03/2010 (Rv. 612032; Cass. 7.11.2005, n. 21490).

L’accoglimento del motivo di ricorso dell’Ufficio in ordine al vizio di ultrapetizione implica che la ritenuta infondatezza del ricorso in appello non può fondarsi su tale motivo, trattandosi di questione mai sollevata in giudizio ma non esime questa Corte dal valutare anche i motivi concernenti la rilevata infondatezza della pretesa sostanziale dell’Amministrazione, motivo ulteriore su cui la Commissione tributaria regionale ha, anche, fondato il rigetto del ricorso dell’d’Agenzia delle entrate.

Infatti la fondatezza del motivo dedotto con riferimento a una sola delle rationes decidendi non porta alla cassazione della sentenza ove la seconda argomentazione, oggetto anch’essa di impugnazione da parte dell’Ufficio, dovesse risultare sufficiente a mantenere ferma la sentenza.

2) In ordine logico vanno trattati i ricorsi n. R.G. 10 19729 (8); R.G. 11 4458 (9); R.G. 11 4922 (10), e R.G. 17861/11 (11).

E’ infondato il motivo di ricorso dell’Agenzia delle Entrate che ritiene la maggiorazione dell’aliquota Irap non conforme ai poteri attribuiti alle Regioni dalla normativa statale, con conseguente sanatoria della sospensione della maggiorazione prevista per l’anno 2003 e applicazione della maggiore aliquota Irap del 5,25%.

Ai sensi del D.Lgs. n. 446 del 2007, art. 16, comma 3, le Regioni hanno facoltà di variare l’aliquota Irap del 4,25% fino a un punto percentuale; tale facoltà è stata esercitata dalla regione Veneto con la L. 22 novembre 2002,n. 34, art. 2, che ha incrementato l’aliquota *** applicabile alle banche e società finanziarie per l’anno 2003 di un punto percentuale aumentando dal 4,25% al 5,25%.

L’efficacia di tale norma è stata sospesa, per effetto della L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a).

La regione Veneto ha impugnato alle normativa davanti alla Corte Costituzionale ritenendo che la sospensione citata fosse in contrasto con l’autonomia finanziaria riconosciuta alle Regioni.

La Consulta, con la sentenza n. 381/2004, ha dichiarare infondata la questione rilevando che “è vero che la norma impugnata dell’art. 3, comma 1, lett. a), sospende il potere delle Regioni di utilizzare uno spazio di autonomia nel prelievo tributario, che la legge statale loro riconosceva. Ma tale misura risulta giustificabile, sul piano della legittimità costituzionale, in base alla considerazione che essa si traduce in una temporanea e provvisoria sospensione dell’esercizio del potere regionale in attesa di un complessivo ridisegno dell’autonomia tributaria delle Regioni, nei quadro dell’attuazione del nuovo art. 119 Cost., nonchè di una manovra che investe la struttura di un tributo indubitabilmente statale, quale è l’IRPEF, destinato, nella prospettiva del legislatore statale, a modificazioni profonde, nonchè di un tributo, come l’IRAP, che resta un tributo istituito e tuttora disciplinato dalla legge dello Stato”.

Veniva, con tale sentenza, implicitamente ribadita la legittimità costituzionale della sospensione degli incrementi delle aliquote Irap per l’anno 2003, poi prorogata al 2004 (L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 21), sospensione non ritenuta illegittima dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 381/2004, e poi prorogata fino al 2006 con le successive leggi finanziarie. Non trova applicazione,alla fattispecie in esame, il successivo comma 22 della L. n. 350 del 2003, che prevede: “nelle regioni che hanno emanato disposizioni legislative in tema di tassa automobilistica e di Irap in modo non conforme ai poteri ad essi attribuiti in materia dalla normativa statale, l’applicazione della tassa opera, a decorrere dalla data di entrata in vigore di tali disposizioni legislative e fino al periodo d’imposta decorrente dal 1 gennaio 2010”.

Ancorchè tale comma appaia non chiara, citando nella prima parte le “disposizioni legislative in tema di tassa automobilistica e di Irap” e successivamente parlando di “applicazione della tassa”, non può ritenersi che l’ambito oggettivo di applicazione della sanatoria sia limitato solamente alla tassa automobilistica, non potendo considerarsi un mero refuso il riferimento anche all’Irap,contenuto nel primo alinea della norma, dovendosi invece ritenersi che il legislatore abbia usato il termine “tassa” in modo “atecnico”, come sinonimo di “tributo”.

La citata sentenza della Corte Costituzionale, ha ritenuto che la “sospensione”, proprio con riferimento al ricorso proposto dalla Regione Veneto, fosse efficace e legittimamente disposta non essendo contrastante con i poteri attribuiti alle Regioni dal legislatore statale, per gli anni 2003 e 2004, avendo, sia pure implicitamente, ritenuto ininfluente al riguardo, la citata “sanatoria” con riferimento alla sospensione degli incrementi dell’Irap. La L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 61, e la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 165, hanno ulteriormente prolungato la sospensione delle maggiorazioni delle aliquote Irap fino al 31 dicembre 2006, chiarendo, con norma ricognitiva, la L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 61, che la sanatoria cui alla L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 22, (salvo quanto disposto dal comma 175), non opera con riferimento alle maggiorazioni delle aliquote Irap. La deroga di cui al citato comma 175 opera, ma solo a decorrere dal 1 gennaio 2005, a favore delle Regioni che dovevano coprire i disavanzi finanziari, tra cui anche la Regione Veneto, ma non ha efficacia retroattiva e non concerne, quindi, l’anno 2003 in contestazione.

3) Infondato è anche il motivo di ricorso finalizzato a richiedere l’applicazione dell’aliquota Irap del 4,75%,prevista per gli istituti bancari dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 45, comma 2, pretesa non contenuta nell’atto impugnato e che, configura, quindi, domanda nuova.

Ancorchè il giudizio tributario sia un giudizio di “impugnazione – merito” e non già di “impugnazione-annullamento” e, pertanto, il giudice investito della cognizione, non solo dell’atto, ma anche del rapporto non viola la regola dell’art. 112 c.p.c., ove riconosca fondata la pretesa erariale in limiti minori, purchè sia comunque ricompresa e riconducibile nell’ambito di quella oggetto dell’atto impugnato.

Nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate ha fondato le cartelle di pagamento sulla L.R. Veneto n. 34 del 2002, art. 2, e sulla L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 22, mentre con la domanda subordinata chiede l’applicazione dell’aliquota minore del 4,75% in forza di leggi diverse (L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a), e D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 45) modificando il presupposto sostanziale, di fatto e di diritto della pretesa impositiva, sostituendo, in giudizio, peraltro in via subordinata, la stessa causale dell’atto impositivo.

Tale modifica deve ritenersi inammissibile in quanto i poteri di accertamento del rapporto tributario spettanti al giudice tributario sono circoscritti ai presupposti di fatto e diritto indicati nell’atto impositivo e alla verifica della legittimità della pretesa avanzata dall’ufficio nell’atto impugnato, essendo illegittimo l’ampliamento del thema decidendum della controversia rispetto al limite fissato dall’atto impositivo dell’Ufficio che non può richiedere giudizialmente l’accertamento di pretese diverse da quelle avanzate nell’atto impugnato, verificandosi altrimenti di una modifica surrettizia della motivazione dell’atto impositivo, comunque vietata, anche con riferimento al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 23, in tema di controdeduzioni della parte resistente, potendo ufficio solamente difendere la legittimità dell’atto impugnato, senza modificare, nel corso del giudizio, la pretesa impositiva originariamente azionata.

4) Con riferimento ai ricorsi riuniti n.R.G. 10 3380 (n. 6) e R.G. 10 6264 (n.7) 1) In ordine logico va esaminata la questione relativa alla inammissibilità del secondo ricorso per cassazione proposto dalla Veneto Banca Holding, soc. coop. p.a. in sostituzione del primo, asseritamente affetto da nullità della notifica.

Il motivo è infondato.

Soltanto il ricorso per cassazione dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge (art. 387 c.p.c.).

Non rileva, invece, ai fini della consumazione del diritto all’impugnazione la valutazione delle parti in ordine alla eventuale declaratoria di inammissibilità o improcedibilità, essendo rilevante la sola declaratoria emessa con provvedimento della Suprema Corte.

Il principio di consumazione dell’impugnazione è da interpretare in senso restrittivo, evitando formalismi rigoristici, in conformità ai criteri costituzionali del giusto processo, diretti a rimuovere gli ostacoli alla compiuta realizzazione del diritto di difesa, e quindi a ridurre le ipotesi d’inammissibilità, escludendola ogniqualvolta non sia comminata espressamente dalla legge, come non lo è nel caso del secondo ricorso proposto, in termini, contro un atto impositivo fiscale, o, comunque, ritenuto tale, dopo avere rinunziato esplicitamente al primo.

Il suddetto criterio rigoristico deve essere seguito nel processo tributario che, dovendo essere introdotto attraverso un meccanismo impugnatorio di determinati atti impositivi, da esercitarsi entro brevissimi termini di decadenza, già comporta, rispetto al modello classico del processo civile, una notevole compressione delle garanzie costituzionali.

Il principio di consumazione dell’impugnazione non esclude che, fino a quando non intervenga una declaratoria di inammissibilità, possa essere proposto un secondo ricorso per cassazione, immune dai vizi del precedente e destinato a sostituirlo, sempre che la seconda impugnazione risulti tempestiva, dovendo la tempestività valutarsi, anche in caso di mancata notificazione della sentenza di secondo grado, non in relazione al termine annuale, bensì in relazione al termine breve decorrente dalla data di proposizione della prima impugnazione, equivalendo essa alla conoscenza legale della sentenza da parte dell’impugnante (cfr Sez. 3, Sentenza n. 22957 del 12/11/2010 (Rv. 615533, Sez. 3, Sentenza n. 5053 del 03/03/2009 (Rv. 606865).

La validità del principio è implicitamente desumibile dall’art. 164 c.p.c., che prevede la possibilità, anche nell’ipotesi in cui l’attore si sia già costituito, di rinnovare la citazione nulla, previsione estensibile a qualunque atto “instaurativo” di giudizio e quindi anche al ricorso per cassazione nel giudizio tributario, dovendosi, pertanto, ritenere che la proposizione del ricorso non consuma il potere di ricorrere, purchè nei termini prescritti, non influendo sull’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, che non interviene in seguito alla proposizione del ricorso, ma solo in seguito alla scadenza del termine per ricorrere.

La parte, ove ancora nei termini della impugnazione, può, quindi, sostituire il primo ricorso per cassazione con un secondo ricorso, non solo non viziato, ma, eventualmente, anche più ricco sotto il profilo motivazionale, purchè, nelle more dell’impugnazione, non sua stato pronunciata inammissibilità o improcedibilità del primo ricorso.

Nel caso di specie i due ricorsi sono simili, proponendo le medesime questioni.

Va, quindi, dichiarata la validità del secondo ricorso in quanto al momento della notifica di tale ricorso non era stata emessa alcuna dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità del primo ricorso; il secondo ricorso è stato notificato entro il termine breve di 60 giorni, ex art. 325 c.p.c., comma 2, dalla notifica del primo ricorso, avvenuta in data 9 febbraio 2010 e, comunque, entro il termine lungo di impugnazione, ex art. 327 c.p.c., decorrente dalla data del deposito della sentenza impugnata, avvenuto in data 5 novembre 2009. 5) Il primo motivo di ricorso della Veneto Banca Holding, soc. coop. p.a. è fondato ed è assorbente degli altri.

L’elencazione degli atti impugnabili davanti al giudice tributario, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, non esclude l’impugnabilità di atti non compresi in tale novero ma contenenti la manifestazione di una compiuta e definita pretesa Tributaria (Cass. 8.10.2007, n. 21045). Va, al riguardo, operata una precisazione nel senso che l’elencazione degli “atti impugnabili”, contenuta nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, tenuto conto dell’allargamento della giurisdizione Tributaria operato con la legge n. 448 del 2001, deve essere interpretata alla luce delle norme costituzionali di buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.), riconoscendo la impugnabilità davanti al giudice tributario di tutti gli atti adottati dall’ente impositore che portino, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa Tributaria, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è “naturaliter” preordinato, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 citato.

L’”aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta… la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta la Amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (in assenza di simile manifestazione di volontà espressa o tacita non sussisterebbe l’interesse del ricorrente ad agire in giudizio ex art. 100 c.p.c.)” (Cass. SS.UU., 10.8. 2005, n. 16676).

Va, quindi, riconosciuta la possibilità di ricorrere alla tutela del giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa Tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinato, si vesta della forma autoritativa propria di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 cit. atteso l’indubbio sorgere in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione di quella notizia, dell’interesse (art. 100 c.p.c.) a chiarire, con pronuncia idonea ad acquistare effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale – ormai, allo stato, esclusiva del giudice tributario – comunque di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico (Cass., SS.UU., 27. 3.2007 n. 7388).

Si deve, quindi, riconoscere la ricorribilità di provvedimenti davanti al giudice tributario ogni qual volta vi sia un collegamento tra atti della Amministrazione e rapporto tributario, nel senso che tali provvedimenti devono essere idonei ad incidere sul rapporto tributario, dovendosi ritenere possibile una interpretazione non solo estensiva ed anche analogica della categoria degli atti impugnabili previsti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.

Costituisce, ormai, principio affermato” che con la L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma 2, (secondo cui “appartengono alla giurisdizione Tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie”) la giurisdizione Tributaria è divenuta – nell’ambito suo proprio – una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si controverta di uno specifico rapporto tributario, o di sanzioni inflitte da uffici tributari. Di conseguenza, è stato modificato il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, in quanto il contribuente può rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta abbia interesse a contestare (art. 100 c.p.c.) la convinzione espressa dall’Amministrazione in ordine alla disciplina del rapporto tributario.

Pertanto, nonostante l’elencazione tassativa degli atti impugnabili, contenuta nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, il contribuente può impugnare anche atti diversi da quelli contenuti in detto elenco, purchè espressione di una compiuta pretesa Tributaria.

La mancata ricorribilità di tali atti davanti al giudice tributario comporterebbe una lacuna di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 Cost., perchè “il carattere esclusivo della giurisdizione Tributaria non consente che atti non impugnabili in tale sede siano devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Cass., SS.UU., 27. 3.2007, n. 7388; Cass. SS.UU. ord. n. 13793/2004) Pertanto anche la comunicazione di irregolarità, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, comma 3, che ha tali caratteristiche, portando a conoscenza del contribuente una pretesa impositiva compiuta, è immediatamente impugnabile.

6) Nelle more del giudizio, è, tuttavia, stata emessa cartella di pagamento con riferimento alla medesima pretesa di cui alla comunicazione di irregolarità, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, comma 3, annullata dalle Commissioni tributarie provinciali e regionali chiamate a pronunciarsi al riguardo, con sentenze confermate da questa Corte nelle cause riunite n. R.G. 10 19729 (8) R.G. 11 4458 (9) R.G. 11 4922 (10) R.G. 11 17861 (11), oggetto del presente giudizio.

Le citate cartelle sostituiscono la precedente comunicazione di irregolarità e va, quindi, dichiarata la carenza di interesse delle parti relativamente al primo atto di natura impositivo impugnato (comunicazione di irregolarità), essendosi, peraltro, formato il giudicato, con la presente sentenza, in ordine alla medesima pretesa tributaria avanzata dalla Amministrazione finanziaria con le cartelle di pagamento impugnate, in sostituzione della comunicazione di irregolarità.

L’emissione della cartella di pagamento integra una pretesa Tributaria nuova rispetto a quella originaria che sostituisce l’atto precedente e ne provoca la caducazione d’ufficio, con la conseguenza carenza di interesse delle parti nel giudizio avente a oggetto il relativo rapporto sostanziale, venendo meno l’interesse a una decisione relativa a un atto – comunicazione di irregolarità – sulla cui base non possono essere più avanzate pretese tributarie di alcun genere, dovendosi avere riguardo unicamente alla cartella di pagamento che lo ha sostituito integralmente.

Le ulteriori questioni degli altri ricorsi riuniti rimangono assorbite. Stante la particolarità delle questioni principali vanno compensate le spese di lite dell’intero giudizio.

 

P.Q.M.

Riunito al presente ricorso i ricorsi n. R.G. 6264/2010, n. 19729/2010, n. 4458/2011, n. 4922/2011, n. 17861/2011, rigetta i ricorsi n. R.G. 19729/11 R.G. 4458/11, R.G. 4922/11 R.G. n. 17861/2011.

Accoglie i ricorsi R.G. 10 3380 (n. 6) e R.G. 10 6264 (n.7) e cassa senza rinvio l’impugnata sentenza.

Dichiara compensate le spese dell’intero giudizio.

Redazione