Paziente si suicida: medici assolti perchè “il fatto non costituisce reato” (Cass. pen. n. 16975/2013)

Redazione 12/04/13
Scarica PDF Stampa

Ritenuto in fatto

P.S., costituito parte civile, ricorre in Cassazione avverso la sentenza, in epigrafe indicata, della Corte d’Appello di Trieste che, su gravame del medesimo, ha confermato la sentenza di assoluzione, con la formula “perché il fatto non sussiste”, di N.M., B.M.A. e C.M., emessa dal Tribunale di Udine il 21.11.2008 in ordine al delitto di cui agli artt. 113, 40, 589 co. 1 cod. pen..
Per una migliore intelligenza dei motivi del ricorso è opportuno riportare il fatto, ben descritto nel capo d’imputazione.
I predetti imputati erano stati rinviati a giudizio perché, cooperando colposamente tra loro, il N.M., nella qualità di Direttore Sanitario, C.M., in qualità di medico di riferimento, e B.M.A., nella qualità di dirigente dell’unità operativa del Centro di Salute Mentale di (omissis), cagionavano la morte di Co.Li. la quale, ricoverata presso la suddetta struttura per una grave forma di depressione bipolare, con manifeste tendenze suicidane e sottoposta a terapia farmacologia, in data (omissis) , dopo avere attraversato la recinzione in gran parte divelta, sita nel lato est del confine del medesimo cento con l’Azienda Universitaria (…), si suicidava, gettandosi nel torrente (…). I profili di colpa addebitati rispettivamente agli imputati erano individuati in condotte negligenti, imperite ed imprudenti, e, segnatamente, al fine di prevenire l’allontanamento e conseguentemente la realizzazione di atti autolesivi da parte della predetta paziente, omettevano, N.M., di dotare la struttura ospedaliera e le relative adiacenze di misure di sicurezza e di controllo, quale una recinzione del perimetro del Centro, C.M. e B.M.A. di valutare adeguatamente l’alto rischio suicidarlo, di prescrivere un’adeguata terapia farmacologia con stabilizzanti dell’umore e di dare le opportune prescrizioni di stretta sorveglianza al personale infermieristico del reparto psichiatrico.
Il ricorrente pone a base del ricorso i seguenti motivi:
a) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione: 1) la Corte d’Appello non prende in esame i motivi di gravame riguardanti la posizione del N. e, dunque, non spiega perché non debbano essere accolte le deduzioni svolte dalla parte civile in ordine alla posizione di garanzia cosiddetta di “controllo” dell’imputato. Erroneamente la Corte ha ritenuto che l’appello abbia avuto ad oggetto “una diversa valutazione della responsabilità medica nel trattamento terapeutico”, ma, se ciò è vero per quanto riguarda le posizioni processuali della B. e della C., non lo è per il N. che era chiamato a rispondere, non quale medico psichiatra, ma quale responsabile della struttura sanitaria, specifico oggetto del gravame di merito; 2) La Corte del merito ha affermato che “il ruolo di perito d’ufficio svolto dal Be. costituisce adeguata garanzia di equidistanza dalle parti”, il ricorrente evidenzia che si tratta di affermazione apodittica ed ininfluente quale criterio di valutazione della prova; 3) Con il gravame di merito era stato dedotto il pessimo trattamento terapeutico. Sul punto il perito Be. aveva affermato, nel suo elaborato, che erano individuabili profili di imperizia nella gestione del trattamento farmacologico e di insufficiente diligenza nella gestione delle acuzie durante il ricovero e, nel corso dell’esame dibattimentale, aveva affermato che il problema principale era state la sospensione dell’antidepressivo ed il ritardo (dopo dieci giorni )nella somministrazione del nuovo antidepressivo. Ebbene, rileva il ricorrente, la Corte, dopo aver qualificato il perito d’ufficio affidabile, considera in termini non negativi l’approccio terapeutico qualificando la scelta terapeutica dei sanitari come “non abnorme” che deporrebbe “a favore dell’impiego di una buona pratica clinica intesa come capacità media di uno psichiatra”. La conclusione è immotivata e contrastante con il parere del perito. Inoltre, incongrua ed illogica è la valutazione, in sentenza, di due ulteriori circostanze: l’assenza per ferie della C. nel periodo precedente il decesso della Co. e la mancanza di segnalazioni di rilievo dopo il colloquio delle ore 13.00 con il marito nella giornata del decesso. Si deduce che l’assenza del medico di riferimento avrebbe dovuto portare, secondo quanto riconosciuto dal perito, un innalzamento del livello di attenzione per affrontare e superare la criticità; la mancanza di segnalazioni va interpretato come conferma del fatto che nessun controllo o sorveglianza o attenzione erano stati riservati da parte del personale infermieristico alla paziente; 4) per quanto riguarda il trattamento non strettamente terapeutico da parte dei sanitari e del personale infermieristico, la Corte si distacca dalle conclusioni del perito e da quanto esposto dalla sentenza di primo grado, ritenendo che la presenza del personale è stata costante e che non vi era necessità di potenziare i controlli. Valutazione diametralmente opposta a quella fatta dal perito. Per altro, si evidenzia che del tutto congruo e contraddittorio è l’esame del resoconto infermieristico da cui emerge la gravissima latitanza dei medici (dal (omissis) , risulta in tale periodo effettuata una sola visita da parte della B. ) e la gravità delle condizioni cliniche della paziente; 5) in ordine al mancato trasferimento in reparto ospedaliero, soluzione ipotizzata dal perito (…la paziente o andava in S.P.D.C., o rimaneva lì, però con maggiore livello di attenzione…), la motivazione appare carente e contraddittoria laddove si è affermato che la soluzione non sarebbe risultata gradita alla paziente Co.. Affermazione irrilevante in quanto le scelte terapeutiche, soprattutto in relazione a paziente in condizioni molto gravi, non possono essere condizionate dal gradimento del paziente. Inoltre, errata, in quanto configgente con il materiale probatorio acquisito, è l’affermazione secondo la quale “in una struttura maggiormente presidiata, ma per nulla tollerata dalla Co., non si poteva scongiurare il rischio del suicidio”. Dalla dichiarazione del Dott. S., responsabile del reparto psichiatrico dell’ospedale emerge che in questa struttura si era verificata un unico caso di suicidio negli ultimi dieci anni su 4.000 pazienti ricoverati. Dunque, contrariamente a quanto affermato in sentenza se la Co. fosse stata ricoverata in quel reparto il suicidio non si sarebbe verificato; 6) Circa la prevedibilità dell’evento si censura l’assunto della Corte: il fatto che il suicida cerchi di occultare il proprio proposito non comporta affatto – come ritenuto in sentenza – che nel caso di specie non fosse percepibile una concreta avvisaglia di intenzionalità suicida. Erra la Corte nel non considerare la imponente e impressionante consistenza di manifestazioni dell’intento suicidiario, limitandosi a cercare di applicare al caso concreto regole comportamentali, peraltro non assolute, di carattere generale; 7). Circa la causa della morte il pensiero del perito di parte, prof. D.L., è stato non correttamente riportato in sentenza laddove si è ritenuto che l’ausiliario si sia espresso in termini di certezza in relazione alla qualificazione del fatto come suicidio; 8) Si deduce che la Corte del merito ha trascurato anche i motivi di doglianza esposti dalla parte civile nella memoria difensiva del 12.04.2011 con la quale si erano prodotte due sentenze della Corte di cassazione (sez. IV la n. 4187/2008 e la n. 48292/2008) relative a fattispecie analoghe a quella in esame, con particolare riferimento ai principi affermati in ordine alla posizione di garanzia del medico psichiatra.
b) Inosservanza della disposizione di cui all’art. 603 c.p.p. e contraddittorietà della motivazione relativamente al rigetto dell’istanza di rinnovazione dibattimentale mediante esame del perito in contraddittorio con i consulenti. Con memoria depositata in termini la C.M. eccepisce la inammissibilità del ricorso e, comunque, l’infondatezza nel merito. Anche il N.M. ha depositato memoria difensiva nei termini chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso o il rigetto.

 

Ritenuto in diritto

Ancorché i motivi esposti siano infondati in riferimento all’eccepito vizio di motivazione relativamente alla non ritenuta responsabilità degli imputati, con conseguente rigetto del ricorso sul punto, la sentenza va annullata, ai soli fini civili, limitatamente alla formula assolutoria adottata che riguarda tutte le posizioni processuali analizzate.
In effetti, concernendo il ricorso la esclusiva tutela degli interessi civili, appare evidente, in diritto, che questa Corte sia legittimata ad intervenire sulla modifica della formula assolutoria adottata dai giudici del merito, benché essa non sia stato oggetto specifico delle richieste dalla costituita parte civile con il proposto ricorso, in quanto tale modifica ha inevitabilmente una ricaduta sostanziale per quanto riguarda, appunto, il profilo civilistico (V. da ultimo Sez. 4, Sentenza n. 46849 del 03/11/2011, Rv. 252150), mentre alcuna rilevanza assume sotto quello penale, ivi compreso il pericolo di reformatio in peius. E, dunque, la richiesta della ricorrente parte civile di annullamento della sentenza per vizio di motivazione circa la valutazione della responsabilità degli imputati, con riferimento alle condotte colpose contestate, in ordine agli aspetti della tutela civile, non può non comprendere, rappresentando essa un minus, la modifica della formula assolutoria, ancorché questa non sia stata oggetto di una specifica richiesta formulata con i motivi del gravame di legittimità.
Come si esporrà in avanti sia la sentenza di primo che di secondo grado in ordine alla analisi delle condotte colpose contestate, a parte il dubbio prospettato circa la causa della morte della Co., ma poi in effetti risolto a favore della tesi più probabile del suicidio, si muovono nell’ambito dell’elemento psicologico del reato con la conseguenza che la formula assolutoria corretta è quella del “fatto non costituisce reato”. Ritiene il collegio che l’adozione della formula “il fatto non sussiste” sia stata adottata dai giudici del merito per la insufficienza o la contraddittorietà della prova della sussistenza del fatto con riferimento al dubbio circa la causa della morte se sia stata accidentale o dovuta al suicidio della paziente, dimenticando, però, che anche se si fosse rimasta accertata l’accidentalità della caduta della Co. nel torrente, pur sempre essa poteva essere addebitata ad un comportamento colposo di chi l’aveva in custodia, trattandosi, comunque, di persona sottoposta a farmaci antidepressivi che non assicurano la perfetta capacità a colui che li assume di badare a se stesso.
È da premettere che la motivazione della sentenza della Corte d’Appello, sovrapponendosi pienamente in punto di nesso causale e colpa, a quella della decisione del Tribunale di Udine, da ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata a plurimi elementi di prova, già vagliati dal primo giudice, essa accoglie e vaglia il percorso logico argomentativo della sentenza di primo grado, rispondendo punto per punto alle censure mosse dalla costituita parte civile, essenzialmente riproposte in questa sede. Analizzando le censure con riferimento alle singole posizioni processuali, con riguardo a quella del N.M. si evidenzia che non sono state ascritte all’imputato, quanto alla integrazione di una condotta colposa, violazioni di legge, atteso che la verifica di un’adeguata chiusura perimetrica del Centro di Salute Mentale di Udine Sud non era imposta da alcuna disposizione normativa, trattandosi di una struttura sanitaria “aperta”, non assimilabile ad una struttura ospedaliera per malattie mentali.
Correttamente, quindi, la condotta del N. è stata inquadrata sotto il profilo della colpa generica ed, in risposta a quanto assume il ricorrente (V. parte narrativa), la Corte d’appello ha fatto proprio il percorso argomentativo (implicita motivazione per relationem) del giudice di primo grado, laddove questi, dopo aver evidenziato, che, pur non sussistendo un obbligo giuridico a carico del direttore sanitario di garantire la sicurezza dei pazienti ricoverati mediante la recinzione della struttura, egli era comunque titolare di una posizione di garanzia volta ad assicurare ai degenti, mediante l’esercizio del potere di impartire ordini e disposizioni in materia di vigilanza e controllo a lui senz’alcun dubbio attribuito, l’eliminazione di fonti di pericolo, concludendo che non è rimasta acquisita la prova certa di una condotta, negligente, imperita o imprudente in tal senso con riguardo alla omessa riparazione della rete di recinzione.
Pertanto, per quanto già esposto, l’adozione della formula assolutoria del “perché il fatto non sussiste” non è corretta essendo la verifica del comportamento dell’imputato racchiusa nell’ambito della valutazione dell’elemento psicologico.
Quanto alle censure rivolte alla sentenza impugnata che riguardano le posizioni processuali della B. e della C., sanitari che avevano in cura la Co., cui sono state contestate condotte colpose del tutto diverse da quella ascritta al primo imputato, ancorché poste in nesso di cooperazione, esse possono essere trattate insieme atteso che il principale motivo riguarda la eccepita erronea e contraddittoria valutazione dei risultati della perizia di ufficio.
Al riguardo, la giurisprudenza costante di questa Corte ammette, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove la possibilità del giudice di scegliere fra varie tesi, prospettate da differenti periti, di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermate sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di Cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Cass. sez. IV 20 maggio 1989 n.7591 rv. 181382).
Orbene, la Corte territoriale, rifacendosi “per relationem” alle argomentazioni svolte dal perito d’Ufficio prof. Be., ivi compresa la parte riguardante i rilievi mossi dai consulenti di parte, ritiene che non sia stato possibile individuare in termini di assoluta evidenza la causa della morte e che, comunque, non v’è certezza che l’ipotetica azione suicidaria sia addebitabile ad una mancata tempestiva somministrazione di altro medicinale antidepressivo, o ad una omessa sorveglianza della paziente da parte dei sanitari che l’avevano in cura.
Si legge nella sentenza di primo grado quanto illustrato dal ********.: “non si può dire che una certa terapia x o y avrebbe avuto l’esito di portare a guarigione la paziente il quel momento….non è oggettivamente possibile prevederlo…non è possibile stabilire in termini di certezza un nesso di causalità tra la sospensione dell’antidepressivo e l’ulteriore peggioramento”, ed, ancora, la Corte distrettuale ritiene, tenendo conto della differente opinione dei C.T. di parte, tra cui il ********** “di poter affermare che il parere medico citato metta in primo piano la censura tra l’evidenza scientifica di indubbio pregio che suggeriva un diverso trattamento farmacologico e l’ineliminabile necessità di adeguare la formula farmacologia ad un dato sperimentale, testato più volte ed inutilmente sulla paziente Co. dai medici che l’avevano in cura e che suggeriva, se non imponeva, la continua modulazione del trattamento terapeutico, tenendo ben presenti i pericoli dell’assuefazione e del rigetto dei farmaci stessi”.
Le critiche di carente o contraddittoria motivazione vengono, dunque, meno di fronte alla chiara affermazione della sentenza impugnata, sintomatica di una valutazione approfondita e critica delle evenienze processuali :”non vi sono evidenze scientifiche per ritenere con apprezzabile certezza che un adeguata trattamento farmacologico e una più assidua presenza terapeutica avrebbero impedito il compimento di atti autoaggressivi da parte di Li.Co. “, fino a scendere in particolari terapeutici (con specifico riferimento alla relazione Be. ) laddove ha affermato che non risulta provato che “una tempestiva cura con il Litio avrebbe avuto maggiore efficacia antisuicidaria rispetto a quella con la olonzapina, stabilizzatore dell’umore in concreto somministrato a Li.Co., in quanto gli effetti degli stabilizzatori non sono acuti ma si esprimono nell’arco di mesi ed anni, di tal che una simile valutazione potrebbe essere parametrata soltanto in relazione all’intero percorso di cura e non limitatamente alle fasi dell’ultimo ricovero”. In conclusione, diversamente da come opina il ricorrente, la Corte territoriale ha ben evidenziato e supportato da congrua motivazione che sull’efficacia causale del trattamento adottato, o meglio sull’evitabilità dell’evento per il tramite di una diversa cura, non si perviene ad alcuna certezza. Ora, è pur vero che questa Corte ha affermato (V. sez. 4, sentenza n. 48292 del 27.11.2008, Rv. 242390, richiamata dal ricorrente) che il medico psichiatra è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto, ed ha, pertanto, l’obbligo – quando sussista il concreto rischio di condotte autolesive, anche suicidane – di apprestare specifiche cautele, ma, per il caso di specie, i giudici del merito hanno escluso la responsabilità della B. e della C. all’esito di una approfondita valutazione delle risultanze probatorie sia con riferimento, per quanto già argomentato, al profilo strettamente curativo che a quello della vigilanza.
Sul punto la Corte distrettuale fa rinvio alle considerazioni del C.T.U. laddove ha affermato che “la paziente è stata trattata non soltanto dal punto di vista medico, biologico, farmacologico, ma anche è stata seguita con buona intensità e buona qualità, anche dal punto di vista psicologico, sociale, relazionale. La dottoressa C. e gli altri sanitari dell’equipe hanno avuto molti rapporti con il marito, con i familiari, hanno cercato di indagare le difficoltà che la malattia comportava a questa paziente nello svolgimento del suo ruolo, nell’adempimento del suo ruolo appunto di madre, di donna, di essere umano”. Non appare poi illogica o contraddittoria, come opina la costituita parte civile, la parte della motivazione riguardante la eccepita necessità per la paziente del ricovero ospedaliero. A parte le considerazioni ampiamente svolte circa la impossibilità di scongiurare in termini di certezza il suicidio in una struttura ospedaliera, non è affatto illogica l’affermazione secondo cui il trasferimento presso una struttura ospedaliera “coatta”, in quanto non gradita alla paziente, avrebbe potuto avere effetti controproducenti sul suo stato antidepressivo compromettendo un esito favorevole delle cure cui era sottoposta. È vero che le scelte terapeutiche sono demandate ai sanitari, ma è altrettanto vero che costoro, specie quando trattasi di patologie afferenti la sfera neuropsichica, devono tener conto delle reazioni dei pazienti; per il,caso di specie, ai fini di un’efficacia della cura farmacologia cui era sottoposta la Co., è stato privilegiato anche l’aspetto psicologico evitandole quella sensazione di restrizione derivante da un ricovero “coatto”.
Infine, quanto alla censura riguardante il rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello avente ad oggetto un nuovo esame del consulente d’ufficio in contraddittorio con gli altri esperti, le ragioni esposte in sentenza relativamente alla adesione alle conclusioni del prof. Be., innanzi riportate danno contezza della giustezza del provvedimento. In merito si osserva che l’istituto della rinnovazione del dibattimento in appello costituisce istituto eccezionale che deroga al principio di completezza dell’istruzione dibattimentale di primo grado, per cui ad esso può e deve farsi ricorso soltanto quando il giudice lo ritenga assolutamente indispensabile ai fini del decidere (nel senso che non sia altrimenti in grado di farlo allo stato degli atti). La determinazione del giudice, in proposito, è incensurabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata (v. ex pluribus Cass. 4^, 10 giugno 2003, ********).E la Corte di merito – come si è detto – ha spiegato perché si sia convinta della superfluità della audizione del prof. Be., evidenziando la ricchezza dei dati dimostrativi acquisiti che hanno fatto propendere per l’assoluzione degli imputati, secondo un itinerario logico che non presenta smagliature o contraddizioni interne e che, in quanto tale, non può essere messo in discussione in questa sede.
A questo si aggiunga che il sindacato che la Corte di cassazione può esercitare in relazione alla correttezza della motivazione di un provvedimento pronunciato su una richiesta di rinnovazione del dibattimento non può mai essere esercitato sulla concreta rilevanza dell’atto o della testimonianza da acquisire, ma deve esaurirsi nell’ambito del contenuto esplicativo del provvedimento adottato (v. Cass. S.U. 23 novembre 1995, P.G. in c. *******). Ed in ogni caso va per completezza rivelato che il ricorrente, pur deducendo formalmente la mancata assunzione di prove decisive quale effetto di un immotivato diniego opposto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, nella sostanza prospetta una ricostruzione dei fatti diversa da quella accolta nella sentenza impugnata o, quanto meno, un’interpretazione alternativa dei medesimi, indugiando in considerazioni di merito incompatibili con il giudizio di legittimità.
Il ricorso, quindi, va rigettato nel resto e sussistono ragioni di equità a che le spese vengano interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio, ai fini civili, la sentenza impugnata limitatamente alla formula di assoluzione; formula che sostituisce con quella “il fatto non costituisce reato”.
Rigetta i ricorsi nel resto e compensa integralmente le spese tra le parti del presente giudizio.

Redazione