Patto di quota lite (Cass. n. 6519/2012)

Redazione 26/04/12
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Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato l’avv. M.L. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Crotone, il dr. G.S. per sentir dichiarare il proprio diritto a trattenere la somma di L. 47.347.495 ricevuta dal predetto convenuto a titolo di rimborso spese e palmario nonché per ottenere la condanna dello stesso convenuto al risarcimento dei danni morali provocatigli a seguito della condotta diffamatoria tenuta dal G. nei suoi confronti. Nella costituzione del convenuto ed a seguito dell’esperita istruzione probatoria, il Tribunale adito, con sentenza del febbraio 2002, rigettava la domanda del M. e compensava tra le parti le spese giudiziali. Interposto appello da parte dell’avv. M. , nella resistenza dell’appellato, la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza n. 883 del 2005, respingeva il gravame e, nel confermare la sentenza impugnata, condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado. A sostegno dell’adottata sentenza la Corte territoriale rilevava l’infondatezza della censura sull’omesso accertamento, da parte del giudice di primo grado, dei massimi tariffari che sarebbero stati violati, dal G. , con il versamento della somma di L. 47.347.495, evidenziando che sarebbe stato onere dell’appellante documentare l’attività svolta e, quindi, provare il postulato diritto a ritenere il suddetto importo, riscontro che non poteva dirsi emergente dalle prove acquisite. La stessa Corte catanzarese riteneva l’infondatezza della seconda doglianza, concernente la presunta responsabilità del G. per l’assunta diffamazione, difettandone gli inerenti presupposti.
Avverso la menzionata statuizione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione l’avv. L.M. basato su nove motivi, in ordine al quale l’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto il vizio di omessa motivazione della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), avuto riguardo alla mancata disamina e all’inerente valutazione dei documenti esibiti dallo stesso avv. M. a sostegno della propria domanda in primo grado.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per erronea applicazione dell’art. 167 c.p.c. (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), con riferimento alla non rilevata sussistenza della non contestazione, da parte del G. , con riferimento all’attività professionale svolta nel suo interesse dallo stesso ricorrente.
2.1. I primi due motivi – che possono essere esaminati congiuntamente siccome strettamente connessi – sono fondati e devono, pertanto, essere accolti. La Corte territoriale, nella sentenza impugnata, pur statuendo che, sui presupposto che l’avv. M. aveva dedotto che venisse dichiarato il suo diritto a trattenere la somma versatagli dal G. , allo stesso professionista incombeva l’onere di provare la sua attività professionale, ha completamente omesso di prendere in considerazione e di valutare al riguardo la documentazione (riferita ai plurimi procedimenti esperiti nell’interesse del G. ) posta a fondamento della pretesa creditoria del legale (come richiamata con la prima doglianza), limitandosi soltanto a verificare in base a quale titolo la suddetta somma fosse stata trattenuta dall’avv. M. . Peraltro, la Corte distrettuale ha anche violato il principio di “non contestazione” (secondo i criteri delineati da Cass., S.U., n. 761 del 2002) richiamato nel secondo motivo, dal momento che il G. , fin dal momento della sua originaria costituzione in giudizio (per come emerge dalla stessa sentenza in questa sede impugnata), non aveva confutato in modo specifico la circostanza relativa all’espletamento della complessiva attività professionale svolta nel suo interesse (come, del resto, desumibile anche dalle risultanze dell’interrogatorio formale), ma aveva contestato soltanto la misura del compenso dovuto, l’assunta violazione degli accordi intercorsi tra le parti in ordine alla determinazione dello stesso, anche con riferimento alla legittimità dell’avvenuta trattenuta della somma di L. 47.347.495 da parte dell’avv. M. .
3. Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia (ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), con particolare riferimento all’esternato convincimento, espresso nella sentenza impugnata, che tra le parti fosse stato concluso un “patto di quota lite” poiché l’appellante non aveva spiegato quale fosse la particolarità della prestazione.
4. Con il quarto motivo il ricorrente ha censurato la sentenza della Corte catanzarese ancora sotto il profilo dell’insufficienza della motivazione sul presupposto dell’inadeguatezza del convincimento richiamato nella terza doglianza poiché basato su una sola deposizione di un teste “de relato”, che aveva propalato ciò che sui fatti di causa gli aveva riferito una delle parti in giudizio.
4.1. Anche il terzo e quarto motivo – che possono essere considerati unitariamente siccome evidentemente connessi – sono meritevoli di pregio e devono, perciò, essere accolti.
La Corte territoriale, nella sentenza impugnata, per un verso sostiene che nessun rilievo poteva attribuirsi al dedotto versamento spontaneo operato dal G. (affermando, apoditticamente, che lo stesso avrebbe potuto essere conseguenza di un errore) e, per altro verso, asserisce che l’accordo tra il professionista ed il suo cliente poteva qualificarsi piuttosto quale “patto di quota lite” anziché quale palmario, evidenziando, al riguardo, le risultanze di una sola testimonianza assunta in primo grado (nella persona di P.G. ), secondo la quale l’accordo intervenuto tra le due parti era nel senso che, ove l’avv. M. fosse riuscito a recuperare una somma più sostanziosa di quella sperata, a quest’ultimo sarebbe stato riconosciuto un compenso maggiore.
La predetta motivazione appare inadeguata perché, oltre non considerare le ragioni svolte dalle parti nei rispettivi atti difensivi, si prospetta fondata su una risultanza di prova orale equivoca (e le relative perplessità sono, in effetti, manifestate dalla stessa Corte di appello: v. pag. 6 sentenza impugnata) e non corroborata da altri riscontri probatori.
Peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 8358 del 2007 e, da ultimo, Cass. n. 313 del 2011), in tema di rilevanza probatoria delle deposizioni di persone che hanno solo una conoscenza indiretta di un fatto controverso, occorre distinguere i testimoni “de relato partium” e quelli “de relato” in genere: i primi depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto medesimo che ha proposto il giudizio o ha resistito ad esso, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non sul fatto oggetto dell’accertamento, che costituisce il fondamento storico della pretesa; gli altri testi, quelli “de relato” in genere, depongono invece su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni si presenta attenuata, perché indiretta, e può assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice solo nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragano la credibilità (elementi che, nella fattispecie, non sono stati presi in considerazione dalla Corte territoriale).
5. Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 1367 c.c. (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), chiedendo a questa Corte di stabilire, avuto riguardo all’assunto accordo intercorso tra le parti in merito al compenso dovuto in favore dello stesso avv. M. , “se sia legittimo, per il giudice del merito, interpretare una clausola contrattuale nel senso di attribuirle un significato in base al quale viene ritenuta la sua nullità, senza prima avere tentato un’interpretazione conservativa, come imposto dall’art. 1367 c.c.”.
6. Con il sesto motivo il ricorrente ha denunciato la violazione dell’art. 2233 c.c. e dell’art. 5 della tariffa professionale vigente approvata con D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, rimettendo a questa Corte di chiarire “se la pattuizione di un compenso aggiuntivo all’onorario la cui corresponsione sia condizionata all’esito favorevole della lite sia nulla per violazione del divieto imposto dall’art. 2233 c.c.”.
7. Con il settimo motivo il ricorrente ha prospettato – in ordine all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, avuto riguardo all’apodittica irrilevanza ascritta all’elemento probatorio emerso sul piano processuale dell’avvenuto versamento spontaneo della somma dedotta in controversia da parte del G. senza approfondimenti del suo significato.
8. Con l’ottavo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1367, 1429 e 2697 c.c., nonché dell’art. 112 c.p.c., con riferimento alla circostanza che la Corte territoriale aveva illegittimamente ritenuto di ipotizzare in astratto l’esistenza di un errore (con riguardo al versamento della menzionata somma da parte del G. ) senza che questo fosse stato dedotto dal convenuto che avrebbe avuto l’interesse a sostenerne l’esistenza e senza che fosse stato acquisito alcun elemento processuale da cui desumerla.
8.1. Anche questi ulteriori quattro motivi – esaminabili congiuntamente perché tra loro correlati e che, oltretutto sono collegati ai precedenti – sono da qualificarsi fondati. Infatti, per quanto prima posto in risalto, la Corte ha adottato una motivazione assolutamente inidonea circa la ricostruzione del rapporto intercorso tra le parti, escludendo immotivatamente in radice (ovvero senza addurre alcuna logica argomentazione) l’attribuzione di ogni valenza probatoria al comportamento del G. in ordine alla sua condotta concretizzatasi nel versamento spontaneo della somma in questione, statuendo, altresì, d’ufficio e senza alcuna domanda della parte interessata, che tale comportamento avrebbe potuto essere il frutto di un errore, senza adottare alcuna ulteriore motivazione al riguardo e senza, peraltro, porre riferimento a riscontri probatori tali da asseverare tale supposizione (che avrebbero dovuti essere dedotti, per il principio stabilito dall’art. 2697 c.c., dalla parte avente interesse, ovvero, nella specie, dal convenuto).
In tal senso, pertanto, la Corte territoriale, oltre ad incorrere nei prospettati vizi motivazionali, ha violato anche il criterio ermeneutico previsto dall’art. 1367 c.c., il quale comporta che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto lecito, anziché in quello secondo cui non ne abbiano alcuno (o ne producano uno vietato dalla legge), omettendo, altresì, di verificare univocamente (rimanendo al riguardo, come detto, sostanzialmente irrilevanti gli esiti della testimonianza “de relato” precedentemente richiamata) se, nella specie, fosse stata o meno effettivamente conclusa tra le parti la pattuizione di un compenso aggiuntivo all’onorario la cui corresponsione era stata condizionata all’esito favorevole della lite (o delle liti, nel caso in esame). A tal proposito questo collegio – richiamandosi agli orientamenti giurisprudenziali precedenti più convincenti (cfr. Cass. 18 giugno 1986, n. 4078) – afferma che, sul piano generale, non sussiste il patto di quota lite, vietato dal terzo comma dell’art. 2233 c.c. (nella versione “ratione temporis” applicabile, antecedente alla sostituzione operata per effetto dell’art. 2, comma 2 bis, del d.l. n. 223 del 2006, conv., con modif., nella legge n. 248 del 2006), non solo nel caso di convenzione che preveda il pagamento al difensore, sia in caso di vittoria che di esito sfavorevole della causa, di una somma di denaro (anche se in percentuale all’importo, riconosciuto in giudizio alla parte) ma non in sostituzione, bensì in aggiunta all’onorario, a titolo di premio (cosiddetto palmario), o di compenso straordinario per l’importanza e difficoltà della prestazione professionale (da accertare in concreto – come nella fattispecie – sulla scorta di idonei riscontri probatori), ma anche quando la pattuizione del compenso al professionista – ancorché limitato agli acconti versati – sia sostanzialmente – anche se implicitamente – collegata all’importanza delle prestazioni professionali od al valore della controversia (presupposti questi, anch’essi, da verificare in concreto) e non in modo totale o prevalente all’esito della lite.
9. Con il nono ed ultimo motivo il ricorrente ha dedotto l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, avuto riguardo all’omesso esame delle risultanze processuali ai fini della rilevabilità della configurazione degli elementi integranti la condotta diffamatoria dedotta da esso avv. M. e, quindi, della verificazione del presupposto costitutivo della sua domanda risarcitoria riconducibile ad illecito aquiliano.
9.1. Quest’ultimo motivo è privo di fondamento e deve essere rigettato. Invero la Corte territoriale, all’esito di una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie scaturite dalla prova orale e dopo aver correttamente ravvisato l’irrilevanza della testimonianza “de relato” del teste Ma. (circa la sua avvenuta informazione da parte del G. che quest’ultimo intendeva riavere i soldi “fregati” dall’avv. M. ), sulla base degli stessi principi richiamati sub 4.1., ha escluso, in virtù di una motivazione essenzialmente sufficiente ed ispirata a criteri logici, che, nella fattispecie, fossero stati acquisiti (in mancanza di altri riscontri che avrebbe dovuto allegare l’avv. M. , quale attore che aveva agito per l’ottenimento del relativo risarcimento) gli elementi per la configurazione della condotta diffamatoria, dal momento che non era emersa (con riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 595 c.p.) la sussistenza del requisito della presenza di più persone all’atto della comunicazione dell’assunta affermazione offensiva nei confronti dell’avv. M. .
10. In definitiva, per le esposte ragioni, il ricorso deve essere accolto in relazione ai primi otto motivi, mentre deve essere rigettato con riguardo ai nono. Consegue, pertanto, la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti ed il rinvio della causa ad altra Sezione della Corte di appello di Catanzaro che si conformerà ai principi di diritto precedentemente enunciati (con riferimento alle dedotte violazioni di legge) e riprocederà alla rinnovazione della motivazione sulla scorta dei rilievi accolti in ordine alle prospettate carenze motivazionali. Il giudice di rinvio provvederà anche alla regolazione delle spese della presente fase di legittimità.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie i primi otto motivi del ricorso e rigetta il nono; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte di appello di Catanzaro.

Redazione