Patteggiamento della pena ad anni 1 e mesi 8 di reclusione per ricettazione e ricorso dell’imputato per questione di incompetenza funzionale del Tribunale che ha emesso la sentenza (Cass. pen. n. 2876/2013)

Redazione 16/01/13
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RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del giorno 8.3.2012 il Tribunale di Lecce, sez. distaccata di Gallipoli, in composizione monocratica, pronunciava sentenza ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. nei confronti di M.M., per i reati di cui alla L. n. 895 del 1967, artt. 2 e 7, L. n. 110 del 1975, art. 23 art. 648 cod. pen., con cui applicava la pena anni uno e mesi otto di reclusione ed Euro 500 di multa.
2. Avverso detta sentenza ha interposto ricorso per cassazione l’imputato per dedurre incompetenza funzionale, considerato che tra i reati contestati ricorreva quello di ricettazione di arma clandestina, di competenza del tribunale in composizione collegiale, nonchè per lamentare che la pena richiesta era di anni uno e mesi due di reclusione, quindi inferiore rispetto a quella che poi venne applicata dal giudice.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto con parere motivato di annullare la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Lecce.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.
Va preliminarmente rilevato che la misura della pena richiesta dalle parti deve intendersi non già quella che risulta dall’atto allegato dalla difesa (che rappresenta un’iniziale proposta dell’imputato), bensì quella riportata nel verbale di udienza, che costituisce il frutto di un accordo successivamente intervenuto con il pm (sulla base dell’iniziale proposta unilaterale del prevenuto), nei termini esattamente recepiti nella sentenza. Il secondo motivo dedotto è quindi manifestamente infondato, poichè non è rispettoso del dato inconfutabile che emerge dal verbale di udienza, decisivo per valutare la corrispondenza tra quanto richiesto e quanto recepito nella sentenza.
Sul secondo motivo, che riguarda il profilo dell’incompetenza funzionale del giudice, deve essere osservato che secondo l’orientamento seguito da questa Corte di legittimità, il patteggiamento costituisce impegno ad accettare ed eseguire la sanzione concordata con il pm e ritenuta equa dal giudice, con rinuncia ad ogni questione od obiezione di qualsiasi natura , con la conseguenza che non è possibile proporre al giudice dell’impugnazione eccezioni che sono state superate dall’applicazione della pena richiesta , nè devolvere allo stesso il potere di conoscerne, laddove peraltro lo stesso giudice su quelle rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo può pronunciarsi anche senza doglianza sul punto ai sensi dell’art. 609 cod. proc. pen., comma 2. Ciò detto, è stato aggiunto che la condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione deve essere correlata agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire una situazione immediata pratica più vantaggiosa rispetto a quella esistente. Il ricorrente ha quindi l’onere di evidenziare nei motivi di ricorso per cassazione l’interesse che giustifichi il suo gravame (Sez. Un. 25.1.2004, n. 4419, Gioia-*******). Orbene, nel caso di specie è totalmente assente la prospettazione dell’interesse che il ricorrente intende tutelare e dell’utilità che intende perseguire, laddove la sentenza, seppure emessa dal giudice funzionalmente incompetente, ha recepito l’accordo intervenuto tra le parti. Infatti, nell’arresto sopracitato si legge appunto che la valutazione dell’interesse a ricorrere non può essere disgiunta dallo speciale rito in cui è stata pronunciata la sentenza: nel caso dell’applicazione della pena su richiesta, la pronuncia corrisponde esattamente all’accordo delle parti; nella deduzione della parte manca l’indicazione di quale risultato più favorevole si intenda ottenere con il gravame, in seguito a nuovo giudizio davanti a giudice di merito funzionalmente competente. La mancanza di interesse non può non avere ricadute sulla corretta instaurazione del rapporto processuale di impugnazione, cosicchè in aderenza con l’insegnamento delle Sezione Unite nella sentenza succitata, deve essere dichiarata l’inammissibilità anche del secondo motivo.
Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; a tale declaratoria, riconducibile a colpa del ricorrente , consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro mille, a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’att. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2013.

Redazione