Parti comuni dell’edificio: il proprietario del piano superiore non può chiudere la scala con una porta (Cass. n. 4419/2013)

Redazione 21/02/13
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Svolgimento del processo

Pi.Ro. con atto di citazione in riassunzione del 20 giugno 1998 conveniva davanti al Pretore di Roma sezione distaccata di Subiaco, P.A. e G. per sentirli condannare alla rimozione immediata delle opere da questi avevano realizzato nelle parti comuni dell’edificio che comprendeva appartamenti di entrambi. L’attore specificava: di essere proprietario di un appartamento nel comune di (omissis) primo piano; che nello stesso stabile al piano superiore altro appartamento era di proprietà degli eredi di Pi.Ag.; e allo stesso primo piano, altro appartamento di proprietà di P.V.; che per accedere ai piani dello stabile i comproprietari si servivano di una scala ad uso comune in condominio tra di loro. Sennonchè, nel mese di settembre-ottobre del 1996, era stata collocata all’inizio della rampa di scale che dal pianerottolo del primo piano adduce al secondo piano, una porta in legno e una struttura in muratura, con ciò impedendo a chicchessia di accedere sulla stessa rampa, che in tal modo gli eredi di Pi.Ag. si erano appropriati della rampa di scala in via esclusiva impedendo il pacifico uso e il possesso della stessa agli altri comproprietari, per altro le dette opere poste a fianco dell’ingresso del proprio appartamento impedivano la circolazione di aria e di luce nel ballatoio rendendolo buio ed angusto.

Si costituivano i convenuti deducendo che il secondo piano dell’edificio di cui si dice era di loro esclusiva proprietà per essere loro pervenuta da ******, mentre P. R. era proprietario del solo primo piano, pervenutogli per successone dal suo genitore Gi.. Deducevano ancora che la rampa in questione dava esclusivo accesso all’appartamento di loro”proprietà e che nessun pregiudizio soffriva l’attore per il mancato utilizzo di detta porzione di scale e, inoltre, che la porta per cui è causa costituiva porta principale del detto appartamento in quanto altre porte sul pianerottolo superiore non vi erano nè vi erano mai state. Osservano ancora che non era vero che l’accesso alla rampa di cui si dice era libero, insistendo, invece, in loco da circa un trentennio un cancello in metallo che l’attore aveva deliberatamente distrutto obbligandogli, quindi, a collocare in luogo di esso la porta in legno.

Concludevano per il rigetto della domanda e proponevano domanda riconvenzionale di risarcimento danni.

Il Tribunale di Roma sezione staccata di Tivoli al quale in virtù di accorpamenti di uffici giudiziali era transitata la causa, con sentenza n. 202 del 2001, accoglieva la domanda attrice e ordinava ai convenuti di rimuovere la porta e la struttura muraria posti a chiusura della rampa di scale condominiali e li condannava al risarcimento dei danni in favore dell’attore e al pagamento delle spese del giudizio.

Avverso tale decisione proponeva appello P.A. e G., chiedendo la riforma della sentenza impugnata e il rigetto della domande proposte da Pi.Ro. e che questi fosse condannato alla restituzione della soma di cui all’atto di precetto oltre ad interessi e al risarcimento del danno.

Si costituiva l’appellato contestando l’appello e chiedendone il rigetto.

La Corte di appello”di Roma “accoglieva l’appello e in riforma” della sentenza impugnata rigettava ogni domanda avanzata in primo grado da Pi.Ro., condannava lo stesso al pagamento della somma di Euro 5741,71 per i titoli di cui in motivazione oltre interessi legali dal maggio 2002 al pagamento delle spese del doppio grado del giudizio. Secondo la Corte romana, nel caso in esame la presunzione di comunione ex art. 1117 c.c., relativa alla rampa di scala oggetto del giudizio sarebbe stata dall’indicazione contenuta nell’atto di donazione con il quale sono stati attribuiti ai condividenti le porzioni dei piani dell’edificio di cui si dice. D’altra parte, secondo la Corte romana la scala di cui si dice serve soltanto i cinque vani del secondo piano del fabbricato oggetto di causa e non serve nessun altra porzione di bene o opera (sia essa balcone, ballatoio terrazza tetti e altri possibili ambiti) che possa dirsi di proprietà comune. Posto, pertanto, che la scala deve ritenersi di proprietà esclusiva di Pi.Ag. e S., risultava del tutto legittima l’apposizione della porta da parte degli stessi.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dagli eredi di Pi.Ro. ( P.M.G. e P.R.) con ricorso affidato a quattro motivi. P.A. e P. G. hanno resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso gli eredi di Pi.Ro. lamentano la violazione dell’art. 346 c.p.c.. Secondo i ricorrenti nell’atto di appello non risulterebbe riproposto il rigetto dell’eccezione di proprietà esclusiva della rampa in contestazione, contenuto nella sentenza di primo grado. In altri termini, secondo i ricorrenti, P.A. e G. nel giudizio di appello avrebbero lungamente lamentato che il Giudice di primo grado non avesse considerato che il cancello di ferro rimosso dall’attore e poi la porta di legno ricollocata dai convenuti sarebbe in realtà la porta di ingresso della loro abitazione, ma in nessuna parte di tale appello si solleverebbe l’eccezione di proprietà della rampa di scala in questione. Sicchè, specificano i ricorrenti, la Corte avrebbe violato il principio di diritto portato dall’art. 346 c.p.c., secondo il quale le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado che non sono espressamente riproposte in appello si intendono rinunciate 1.1.- Il motivo è infondato.

Va qui, anzitutto, precisato che l’appello va ritenuto un gravame ad effetto devolutivo limitato dalle specifiche censure avanzate dalle parti nell’atto di appello o in via di riproposizione ex art. 346 c.p.c.. La giurisprudenza e la dottrina maggioritaria, richiamandosi al principio tantum devolutum quantum appellatum, ritengono che, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., sia preclusa la possibilità di riaprire la discussione su punti che, oggetto della decisione di primo grado, non siano espressamente sottoposti a riesame con l’atto di appello.

1.1.a).- Nel caso in esame questi principi sono stati rispettati P.A. e G. in primo grado avevano eccepito di essere proprietari dell’intero secondo piano del fabbricato di cui si dice e che di tale secondo piano-faceva parte integrante la rampa di scale di cui si controverte, in quanto la stessa doveva essere intesa come accesso al loro appartamento e la porta collocata all’inizio della stessa doveva essere considerata come quella di ingresso alla citata proprietà. In altri termini. P.A. e G. avevano contestato che la rampa di scala doveva ritenersi comune rivendicandone, indirettamente, la proprietà esclusiva. Tale eccezione non è stata accolta dal Giudice di primo grado, affermando che dal titolo non risultava che la rampa di scala di cui si dice fosse esplicitamente esclusa dal novero delle cose comuni, escludeva in altri termini, e sia pure indirettamente, la proprietà esclusiva a vantaggio di P.A. e G. proprietari del secondo piano.

Ora, con l’atto di appello P.A. e G. lamentavano che il giudice di primo grado nel ritenere la condominialità della rampa in questione non aveva tenuto presente – come riferiscono anche gli stessi ricorrenti, che la porta da rimuovere era quella di ingresso all’abitazione e che tale situazione si protraeva da oltre trent’anni. Non vi è dubbio, pertanto, che formalmente e sostanzialmente gli attuali resistenti, nonchè originari appellanti, avevano riproposto la stessa linea difensiva svolta in primo grado e sostanzialmente e formalmente rivendicavano la proprietà della rampa di scala di cui si dice cosi come avevano fatto in primo grado, specificando che la porta da rimuovere era quella di ingresso dall’abitazione, cioè alla porzione del fabbricato di esclusiva proprietà e la rampa di scalo restava al di dentro del cancello, cioè, nella porzione di fabbricato di esclusiva proprietà.

1.1.b).- La Corte romana, dunque, ha correttamente interpretato l’atto di appello e correttamente ha ritenuto riproposta la questione del regime giuridico della rampa di scala in questione, ponendosi il problema di stabilire se quella rampa di scala fosse comune ai tre proprietari o rientrasse nella proprietà esclusiva degli appellanti identificando la proprietà esclusiva degli appellanti a partire dal cancello che le parti hanno indicato esistente.

2.- Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 1117 c.c., Secondo i ricorrenti la Corte romana non avrebbe applicato correttamente l’art. 1117 c.c., considerato che ha ritenuto che la presunzione di condominialità di alcune parti di un identifico edificio potesse esser superata da semplici presunzioni e non dalla espressa ed univoca esclusione esposta nel titolo di provenienza.

2.1.- Il motivo è fondato.

Va osservato che è del tutto inconferente il richiamo alla giurisprudenza secondo la quale la cc.dd. presunzione legale di proprietà come sancita dall’art. 1117 c.c., viene meno, oltre che per effetto di un titolo contrario, allorquando si tratti di cose che servano al godimento esclusivo di una parte dell’edificio in condominio formante oggetto di un autonomo diritto di proprietà.

Tale principio, infatti, astrattamente valido nell’ipotesi, che la cosa presenti caratteristiche strutturali, oltre che funzionali, escludenti l’uso e il godimento comune, non può essere invocato con riferimento a quelle strutture essenziali, specificamente elencate al n. 1 del citato articolo, che condizionano l’esistenza stessa dell’edificio alla cui conservazione, quindi, tutti i condomini sono interessati indipendentemente dalla concreta utilizzazione che ciascuno ne possa fare. Così dicasi delle scale e, tanto più, dell’unica scala dell’edificio diviso per piani, poichè, come è evidente, il fatto che le parti di essa destinate a raggiungere i piani superiori non siano normalmente usate dai condomini dei piani inferiori non può assumere alcun significato per escludere la proprietà comune dell’intera unitaria struttura in capo a questi ultimi, il che rende priva di qualsiasi rilevanza anche l’asserita circostanza che nel caso di specie mancasse un varco di accesso al tetto dal ballatoio del secondo piano. La presunzione dell’art. 1117 c.c., può essere vinta solo dalla prova del titolo.

3.- Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Secondo i ricorrenti la Corte romana sarebbe incorsa in una evidente contraddizione, considerato che nella motivazione della sentenza dai un verso la corte romana evidenzia che Pi.Ag. a far data del possesso conseguito del vano di proprietà della P.S. ha acquistato oltre alla proprietà dei vani anche quella della scala che non poteva che costituire “gli accessori” descritti nella proprietà spettava sia alla P.S. che ad P. A., quindi inizialmente agli tessi andava attribuita in comproprietà tale scala, per altro la stessa Corte romana non sì da cura di rilevare che nell’atto con il quale Pi.Ag. acquistava il vano originariamente attribuito a P.S. non è contenuto alcun riferimento espressisi verbis alla alienazione della comproprietà della scala.

3.1.- Tale motivo è infondato.

E’ giusto il caso di osservare che quanto alla pretesa esistenza di un titolo contrario atto ad escludere, ex art. 1117 c.c., la proprietà comune della porzione di scala adducente all’appartamento del F., occorre ricordare che un titolo siffatto può essere rappresentato soltanto dal negozio posto in essere da colui o coloro che hanno costituito il condominio, oppure da un successivo atto negoziale intercorso tra tutti i condomini e, perciò, vincolante per ognuno di essi. In verità, la Corte romana ha affermato che un’ipotesi del genere ricorresse nel caso di specie, analizzando l’atto di alienazione del vano da P.S. agli odierni controricorrenti. L’errore di partenza sindacabile in questa sede attenendo non all’interpretazione di atti e quindi di volontà delle parti, ma all’identificazione di una nozione tecnica ovvero di un significato che può essere attribuito ad un determinato termine tecnico, nell’ipotesi al termine “accessori”. La Corte afferma infatti che la vendita agli odierni ricorrenti della rampa di scala era provata dal fatto che il vano della vicina fu venduto loro unitamente agli accessori termine con il quale si doveva identificare detta rampa di scala. Epperò i locali accessori sono quelle aree o locali a servizio dei locali o aree o vani principali, in modo diretto e tra questi si ricomprendono i ripostigli interni all’abitazione, i bagni, gli ingressi, i corridoi, o in modo indiretto vale a dire le cantine, le soffitte i terrazzi e i balconi.

Anche dal punto di vista catastale i locali accessori di un’abitazione sono appunto i servizi, i disimpegni, i magazzini. E’ escluso che tra gli accessori possono essere ricompresi le scale esterne che collegano due piani appartenenti a due diversi proprietari.

4.- Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano l’omessa, in sufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Avrebbe errato la Corte romana, secondo i ricorrenti, nell’aver accolto la domanda riconvenzionale svolta in primo grado dai convenuti ( P.A. e G.) ritenendo sufficientemente provato che Pi.Ro. si era fatto lecito di rimuovere forzosamente il cancello posto a chiusura della rampa di scale e di averlo scardinato del tutto danneggiandolo gravemente e rendendolo inservibile, perchè avrebbe travisato il senso della raccomandata del 27 febbraio 1996 inviata da Pi.Ro. ad P.A. e non avrebbe dato credito alla deposizione del teste C.F.. In particolare, sostengono i ricorrenti, se è vero che nella lettera in questione si afferma che il cancello è stato rimosso da Pi.Ro. al posto di P.A. che si era impegnato a farlo, non è vero che si afferma che tale atto sia stato compiuto “invito domino” e comunque senza autorizzazione ed addirittura con l’intento di danneggiare il bene rimosso.

4.1.- Questo motivo rimane assorbito dai precedenti.

In definitiva, va rigettato il primo motivo, accolti il secondo e il terzo motivo per quanto in motivazione, dichiarato assorbito il quarto. La sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo e terzo motivo, dichiara assorbito il quarto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di Appello di Roma anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.

Redazione