Palpeggiatore condannato grazie alle dichiarazioni e al riconoscimento effettuati dalla persona offesa (Cass. pen. n. 20387/2013)

Redazione 13/05/13
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 16/12/2011 la Corte di appello di Potenza ha confermato la sentenza dell’11/11/2010 del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Potenza, emessa ex art. 442 cod. proc. pen., che ha condannato il sig. M., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena condizionalmente sospesa di un anno e quattro mesi di reclusione per avere commesso il reato previsto dall’art. 609-bis, comma 3, cod. pen. “palpeggiando” il sedere della persona offesa in data (omissis).
La Corte di appello, evidenziato che il giudizio è stato celebrato con rito abbreviato, ha respinto le censure mosse dall’imputato alla utilizzabilità delle dichiarazioni che egli avrebbe reso alla polizia giudiziaria poche ore dopo i fatti e alla utilizzabilità del riconoscimento effettuato dalla persona offesa nei locali della Questura in assenza delle forme e delle garanzie di legge.
2. Avverso tale decisione il sig. M. propone ricorso in sintesi lamentando:
a. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e nullità della sentenza con riferimento alla utilizzazione delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla polizia giudiziaria e neppure formanti oggetto di specifica verbalizzazione e con riferimento al riconoscimento operato dalla persona offesa nei locali della Questura. Si tratta di atti che contrastano con l’art. 63, comma 2, cod. proc. pen. e con gli artt. 191, 213, 214 cod. proc. pen. e danno origine alla ed. “inutilizzabilità patologica” che attiene anche al regime probatorio operante nel rito abbreviato;
b. Errata applicazione di legge ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. e vizio di motivazione ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod. proc. pen. con riferimento alla ricostruzione della condotta e alla sua qualificazione giuridica, sussistendo incertezza circa l’effettivo “palpeggiamento” e potendosi in ogni caso la condotta ricondurre o all’ipotesi ex art. 660 cod. pen. oppure all’ipotesi ex artt. 56, 609-bis cod. pen..

 

Considerato in diritto

1. La Corte ritiene che l’esame del ricorso debba prendere avvio dalle questioni che concernono il materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione. Il ricorrente propone in sostanza due censure alle scelte adottate sul punto dai giudici di merito: una concerne la utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente nell’immediatezza alla polizia giudiziaria; l’altra concerne la utilizzabilità del riconoscimento effettuato dalla persona offesa negli uffici della polizia giudiziaria.
2. Premesso il rinvio ai principi generali in tema di utilizzabilità degli atti d’indagine in sede di giudizio abbreviato, la Corte ritiene che il ricorrente lamenti fondatamente l’errore in cui in giudici di merito sono incorsi con riferimento alle dichiarazioni rese dalla persona indagata.
Come emerge dalla stessa decisione della Corte di appello, la persona offesa dopo essersi allontanata dall’autore del gesto si rivolse immediatamente a una pattuglia della Polizia di Stato che, sulla base della descrizione ricevuta, individuò in breve tempo il sig. M. come il probabile autore del gesto e lo accompagnò in ufficio. In tale contesto lo stesso M. rilasciò le dichiarazioni che sono state riferite dagli agenti. Non vi è dubbio che tali dichiarazioni furono rese dietro richiesta di spiegazione dell’accaduto e che quanto accaduto assumeva già gli estremi indizianti del reato di atti sessuali contrari alla volontà della persona offesa. Così ricostruiti i fatti sulla base della stessa motivazione della sentenza impugnata, deve concludersi che al momento in cui le dichiarazioni furono rese sussistevano già i presupposti per qualificare il sig. M. come persona indiziata di reato. Devono, dunque, trovare applicazione i principi fissati a questa Corte con la sentenza Sez. 3, n. 36596 del 7/6/2012, ********* (principi massimali con rv 253574 e 253575), secondo i quali si è in presenza di dichiarazioni assunte in violazione del diritto all’assistenza del difensore e come tali, siano le stesse qualificabili o meno come effettivamente spontanee, non utilizzabili neppure in sede di giudizio abbreviato. E, dunque, considerato che nel caso in esame non appare possibile qualificare le dichiarazioni del sig. M. come effettivamente spontanee e considerato che sussiste la violazione del diritto all’assistenza tecnica, il motivo di ricorso deve esser sul punto accolto.
3. A diverse conclusioni deve giungersi con riferimento al secondo profilo censurato dal ricorrente. La circostanza che la contemporanea presenza della querelante e dell’indagato presso gli uffici della Polizia di Stato poco dopo i fatti abbia consentito alla prima di vedere il secondo e di riferire con certezza che si trattava di colui che poco prima l’aveva molestata sessualmente è circostanza di fatto liberamente apprezzabile dal giudice, ancorché non sia riconducibile all’atto formale di ricognizione di persona ex art. 213 e seguenti cod. proc. pen. Sul punto la sentenza impugnata offre a pagina 2 una motivazione chiara e non in contrasto coi principi che regolano il giudizio abbreviato.
4. Così data risposta ai quesiti in ordine alle fonti di prova utilizzabili, la Corte è chiamata a verificare se, espunta la parte motivazionale fondata sulle dichiarazioni spontanee del ricorrente, la decisione della Corte di appello conservi una struttura ricostruttiva dei fatti conforme alle conclusioni o si debba, invece, provvedere ad un annullamento con restituzione degli atti per nuovo giudizio.
5. La Corte ritiene che anche in assenza delle dichiarazioni del ricorrente la ricostruzione in fatto non muti. La motivazione complessiva della sentenza impugnata consente di concludere che i giudici di appello hanno ritenuto provato che il sig. M. sia l’autore delle condotte contestate anche soltanto sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, dello sviluppo delle prime indagini e del successivo riconoscimento, In latri termini, il fatto che il sig. M. sia stato individuato nell’immediatezza dalla polizia giudiziaria sulla base del racconto della persona offesa e che questa, a pochissime ore dal fatto, non abbia avuto dubbi nell’indicare nel ricorrente l’autore della condotta costituiscono per i giudici di appello circostanze che conducono a ritenere la responsabilità dell’imputato provata in modo certo.
6. Deve, infine, essere esaminata la contestazione circa la rilevanza giuridica della condotta del ricorrente come ricostruita in sentenza. Sul punto deve dissentirsi dalla difesa. Il racconto della persona offesa e la reazione che la stessa ha avuto non lasciano dubbi circa la natura sessuale dell’approccio e dei gesti del ricorrente. La frase “ha iniziato a toccarmi” non può essere interpretata, come invece si legge in ricorso, quale mero tentativo, risultando chiaro che i toccamenti furono indirizzati in modo chiaro e deliberato su una zona tradizionalmente erogena del corpo e furono effettuati in modo percepito con altrettanta chiarezza come sessualmente qualificato; tali toccamenti cessarono solo per la reazione della persona offesa. Questa risulta essere Tunica lettura coerente delle dichiarazioni accusatorie alla luce del contesto e della reazione. In tal senso hanno concluso i giudici di appello. Nessun dubbio, dunque, che si debbano qualificare gli atti come reato consumato riconducibile all’art. 609-bis cod. pen., ancorché nella sua forma attenuata, e non come mero tentativo o, addirittura, come condotta riconducibile alla diversa ipotesi prevista dall’art. 660 cod. pen..
7. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione