Onorari avvocato: in una causa amministrativa avente a oggetto un appalto il valore della causa è sempre indeterminato (Cass. n. 1754/2013)

Redazione 24/01/13
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Svolgimento del processo

L’Avvocato A.C. otteneva dal Presidente del Tribunale di Milano decreto ingiuntivo nei confronti della Impresa di costruzioni ************ per il pagamento di onorari professionali relativi alla assistenza prestata alla ingiunta in più giudizi amministrativi concernenti l’appalto per la ricostruzione del teatro (omissis).
La R. proponeva opposizione sollecitando l’applicazione di diversi accordi intervenuti tra le parti e contestando comunque i criteri sulla base dei quali era stata elaborata la parcella.
L’adito Tribunale dava atto dell’avvenuto pagamento, da parte della R. s.p.a. dell’importo di lire 320.000.000 per effetto di accordo transattivo del 1998; rilevava quindi che residuavano sole le prestazioni relative a due giudizi amministrativi e a una connessa attività stragiudiziale per le quali era controverso il compenso, richiesto dal professionista nella somma di lire 546.500.000; riteneva che a tali prestazioni non potessero applicarsi i parametri della precedente transazione e procedeva alla liquidazione del compenso secondo la tariffa professionale. A tal fine, il Tribunale riteneva le controversie amministrative in questione di valore indeterminabile – e non già determinato secondo l’ammontare del contratto di appalto ovvero secondo il presunto profitto dell’appaltatore – e liquidava l’onorario facendo applicazione del valore massimo e dell’ulteriore criterio della moltiplicazione per quattro del detto importo in considerazione della straordinaria importanza della causa, determinando quindi il compenso spettante al creditore opposto in Euro 22.350,00, oltre ad Euro 5.180,00 per spese e diritti; quanto alle prestazioni stragiudiziali, il Tribunale riteneva che le stesse dovessero essere comprese nella liquidazione del compenso per l’assistenza processuale come liquidata.
Avverso questa sentenza il C. proponeva appello, cui resisteva la R. s.p.a.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 21 gennaio 2006, accoglieva l’appello limitatamente alla mancata statuizione di condanna della R. s.p.a. alla rifusione delle spese relative alla vidimazione della parcella da parte del Consiglio dell’ordine, liquidate nella somma di Euro 1.700,00, e al pagamento delle spese processuali del giudizio di primo grado, liquidate in riferimento all’importo ritenuto dovuto, confermando per il resto la sentenza di primo grado e condannando altresì la R. s.p.a. al pagamento delle spese del grado.
La Corte d’appello condivideva la soluzione cui era pervenuto il Tribunale di ritenere la controversia amministrativa avente ad oggetto la domanda di annullamento dell’aggiudicazione dell’appalto, aggiudicato alla R. s.p.a., come causa di valore indeterminato, alla stregua delle disposizioni contenute nell’art. 6 del d.m. n. 585 del 1994. E ciò sul rilievo, innanzitutto, che la causa proposta da C. s.p.a., cui aveva resistito la R. s.p.a. con l’assistenza dell’avvocato C. , era una controversia su interessi legittimi, in relazione alla quale non poteva quindi aversi riguardo alla disposizione di cui all’art. 6, comma 3, del citato decreto ministeriale, che imponeva di tener conto, a differenza delle controversie riguardanti diritti soggettivi, il cui valore è determinato in base alla legge, “dell’interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la sentenza”. Né poteva giungersi a diversa conclusione in base al comma 4 del citato art. 6, il quale nei rapporti tra professionista e cliente imponeva di tenere conto degli “interessi sostanzialmente perseguiti”, non potendosi sostenere che ogni causa di valore indeterminabile diventi nei rapporti con il cliente di valore determinato.
Più in generale, la Corte d’appello rilevava che era possibile attribuire rilevanza al valore della causa dinnanzi ai giudici amministrativi solo con riguardo alle controversie aventi ad oggetto atti negoziali, ma non anche a quelle aventi ad oggetto l’annullamento di atti o provvedimenti amministrativi, nei quali al più si verte in tema di ripristino di chances, in proposito, la Corte ha osservato che non si deve, in relazione a tali controversie, stabilire il valore di un contratto, peraltro di problematica definizione, atteso l’ineliminabile rischio economico dello stipulato appalto, ma, considerato l’oggetto della controversia, unicamente individuare l’interesse sostanziale tutelato o gli interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Criterio, questo, seguito dal Tribunale, il quale ha applicato l’importo massimo e ha poi applicato il coefficiente di moltiplicazione in considerazione della straordinaria importanza della causa.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre l’Avvocato C.A. sulla base di un motivo, cui resiste, con controricorso, l’Impresa di costruzioni ************
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione degli artt. 5 e 6 del decreto ministeriale n. 585 del 1994. L’Avvocato C. si duole innanzitutto del fatto che la Corte d’appello abbia fatto applicazione dell’art. 6, comma 3, del citato decreto ministeriale, atteso che lo stesso si riferisce alla liquidazione delle spese a carico del soccombente, mentre nel caso di specie avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 6, comma 4, a norma del quale “nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, per la determinazione del valore effettivo della controversia, deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti”. Il ricorrente contesta altresì il fatto che la Corte d’appello abbia comunque ritenuto, in via generale, di valore indeterminabile le cause amministrative non concernenti diritti soggettivi, atteso che il citato comma 4, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata, sarebbe volto proprio a determinare il valore della controversia, stabilendo che si deve avere riguardo agli interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. E, nel caso di specie, posto che l’impugnazione della C. s.p.a. era volta all’annullamento dell’aggiudicazione alla R. s.p.a. di un appalto di 98 miliardi di lire, mentre ovviamente l’interesse della R. s.p.a. era quello di conservare l’aggiudicazione, ben avrebbe potuto la Corte d’appello individuare il valore delle cause amministrative nel valore del contratto di appalto in corso di esecuzione.
Da ultimo, il ricorrente deduce che la sentenza sarebbe carente di ogni statuizione in ordine al motivo di appello con il quale egli aveva denunciato l’erronea applicazione dell’art. 6, comma 5, atteso che il valore della causa avrebbe potuto essere considerato indeterminabile solo nel caso in cui la determinazione non potesse avvenire sulla base dei procedenti commi, il che doveva escludersi nel caso di specie.
Il ricorso è infondato e va rigettato.
La Corte d’appello si è infatti attenuta al principio, enunciato da questa Corte e condiviso dal Collegio, per cui “ai fini della determinazione degli onorari di avvocato, in base alla tariffa approvata con D.M. 24 novembre 1990, n. 392, va considerata di valore indeterminabile la controversia introdotta innanzi al giudice amministrativo per l’annullamento di un atto, qualora la causa petendi della domanda è la illegittimità dell’atto e petitum la sua eliminazione, senza che rilevino eventuali risvolti patrimoniali della vicenda” (Cass. n. 12178 del 2003).
Le censure contenute nel ricorso, del resto, non appaiono idonee ad inficiare la soluzione adottata dalla Corte territoriale. In particolare, le argomentazioni svolte nel ricorso con riferimento ai diversi commi dell’art. 6 del d.m. n. 585 del 1994 (commi 3, 4 e 5) – ratione temporis applicabile al caso di specie – non colgono la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, proprio dopo aver escluso la determinabilità del valore della controversia amministrativa sulla base dell’interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la sentenza (comma 3) ovvero del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti (comma 4), ha correttamente fatto applicazione della disposizione di cui al comma 5 del medesimo art. 6, il quale stabiliva che “qualora, secondo i criteri di cui ai precedenti commi, il valore della controversia non sia suscettibile di determinazione, si applicano gli onorari minimi previsti per le cause di valore da oltre lire 50 milioni a lire 100 milioni e gli onorari massimi previsti per le cause di valore fino a lire 1 miliardo (tab. A – parag. VI) tenuto conto dell’oggetto e della complessità della controversia, delle questioni trattate e della rilevanza degli effetti di qualunque natura che possano conseguire alla declaratoria della illegittimità dell’atto amministrativo o del comportamento dell’amministrazione”. Sul punto, si deve solo rilevare che nel ricorso non è svolta alcuna censura sulla rispondenza della somma in concreto liquidata nei giudizi di merito al criterio ora indicato.
Per le medesime ragioni, deve escludersi la sussistenza del vizio di omessa pronuncia in ordine al motivo di gravame con il quale l’appellante aveva inteso denunciare l’erronea applicazione dell’art. 6, comma 5, del d.m. n. 585 del 1994, atteso che la risposta alla censura emerge con evidenza dalle argomentazioni in base alle quali la Corte d’appello ha escluso di poter determinare il valore della causa alla luce dei criteri di cui ai commi 3 e 4 del medesimo art. 6.
Né può essere condivisa la pretesa del ricorrente che la liquidazione degli onorari avvenisse assumendo a riferimento il criterio del valore del contratto di appalto oggetto di aggiudicazione o quanto meno il valore dell’utile che l’impresa aggiudicataria supponeva di poter ricavare dall’esecuzione dell’appalto aggiudicato. Le controversie amministrative, come esattamente rilevato dalla Corte d’appello, avevano quale causa petendi la asserita illegittimità dell’aggiudicazione dell’appalto alla R. s.p.a. e quale petitum la richiesta di annullamento dell’aggiudicazione, mentre il possibile risvolto economico del giudizio amministrativo è stato ritenuto dalla Corte d’appello, con apprezzamento in sé corretto e non censurato dal ricorrente, non determinabile atteso l’innegabile rischio di impresa insito nella esecuzione dell’appalto.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi e agli accessori di legge.

Redazione