Omessa impugnazione: conseguenze (Cass. n. 2638/2013)

Redazione 05/02/13
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Svolgimento del processo

Con atto notificato il 25.3.1998 la ********************** conveniva davanti al Tribunale di Pisa l’avv. P.A. chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 28.129.888 e a quella di FFR 75.000 a titolo di risarcimento dei danni per responsabilità professionale, consistita nella difettosa attività defensionale relativamente all’ordinanza, emanata il 18.1.1996 dal Tribunal de Commerce de Paris a seguito di un’assignation en rèferè promossa dal cliente francese B.D. in data 2.1.1996 e notificatale il 30.4.1996, con la quale era stata condannata a rimettere la merce venduta, pena il pagamento di una penale per il ritardo di 1.000 Fr. al giorno, oltre la somma di 138 Fr. per spese di lite. Deduceva che il legale, sebbene tempestivamente incaricato e informato della vicenda, pur sussistendo fondati motivi per contestare la pretesa avversaria, aveva negligentemente omesso di proporre impugnazione con ciò determinando l’irrevocabilità del provvedimento camerale e che, a seguito di ciò, si era vista costretta, rivolgendosi ad altri legali, a transigere la lite, sborsando le somme che ora chiedeva in restituzione. Il convenuto si costituiva, resistendo all’accoglimento della domanda. In esito al giudizio, il Tribunale rigettava la domanda compensando le spese.

Avverso tale decisione proponeva appello la società soccombente ed, in esito al giudizio, la Corte di Appello di Firenze con sentenza depositata in data 4 aprile 2006 rigettava l’impugnazione. Avverso la detta sentenza ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi. Resiste con controricorso l’avv. P..

Motivi della decisione

Al fine di inquadrare più agevolmente il complesso delle doglianze formulate dalla ricorrente, può tornare utile premettere che con il primo, il terzo ed il quinto motivo di impugnazione ha lamentato l’erroneità della decisione della Corte territoriale sul punto di violazioni di diritto, concludendo le doglianze con specifici quesiti di diritto, mentre con il secondo, il quarto ed il sesto motivo, ha dedotto vizi motivazionali senza accompagnare le doglianze con i relativi momenti di sintesi, come insegna questa Corte.

Ed è appena il caso di sottolineare a riguardo che, secondo il cui consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la censura di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, a pena di inammissibilità, deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008).

Ne deriva l’inammissibilità delle censure inerenti i dedotti vizi motivazionali.

Passando all’esame delle altre doglianze, va osservato che il primo motivo, articolato sotto il profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 2230 e 1703 c.c., art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1375, 1213, 1223, 1227 e 2697 c.c., artt. 40 e 41 c.p., si fonda sulla premessa che il Tribunale aveva riconosciuto che l’attività professionale svolta dal legale era stata caratterizzata da incuria e negligenza con la conseguenza che tale aspetto, non oggetto di appello incidentale, doveva ritenersi coperto da giudicato interno.

Ciò posto, la Corte di merito avrebbe sbagliato ad escludere l’incidenza – sulla produzione dell’evento dannoso dell’atteggiamento, pur considerato negligente, del cliente, per effetto della revoca del mandato, trascurando che tale revoca, peraltro comunicata non dalla parte personalmente ma dal legale di questa, non configura quella causa eccezionale tale da escludere il nesso di causalità con gli antecedenti e che comunque il professionista resta pur sempre onerato dell’obbligo di rappresentare al cliente l’attività da compiersi – e l’esatto termine di scadenza – o dell’obbligo di compierla egli stesso in ipotesi di particolare urgenza.

Con la quinta doglianza,articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., artt. 40 e 41 c.p. – la cui trattazione viene anticipata essendo intimamente connessa alla prima – la ricorrente lamenta inoltre che la Corte territoriale avrebbe errato nell’operare il giudizio probabilistico, fondandosi sulla sola prospettazione della sua controparte, compiuta sulla base della documentazione da essa prodotta, e trascurando l’ulteriore documentazione che, in caso di proposizione dell’impugnazione, sarebbe stata acquisita agli atti.

I motivi in questione, che vanno esaminati congiuntamente in quanto, sia pure sotto diversi ed articolati profili, prospettano sostanzialmente la medesima ragione di censura, sono infondati.

A riguardo, mette conto di sottolineare preliminarmente che la ratio decidendi della sentenza di primo grado, pienamente condivisa e fatta propria dai giudici di appello secondo la loro espressa affermazione, si fonda essenzialmente sulla considerazione che alla insufficiente ed inadeguata attività del legale, l’avv. P.A., fece riscontro un comportamento altrettanto negligente della cliente, la quale – ed è questo il rilievo decisivo – fu comunque “avvertita in tempo per cercare di evitare le conseguenze della mancata proposizione dell’impugnazione” (cfr pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata).

La premessa torna utile nella misura in cui consente di tener per certa la circostanza che, essendo stata la società *************** avvertita in tempo utile ai fini della proposizione dell’impugnazione, l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dalla stessa società, da identificarsi per l’appunto nella mancata tempestiva proposizione dell’impugnazione, non fu causalmente riconducibile all’omissione del legale, sia pur negligente, bensì all’inerzia della stessa società, la quale ben avrebbe potuto provvedervi, tempestivamente, in quanto, per come ammesso sia pure a livello di supposizione dallo stesso legale rappresentante della società nel corso dell’interrogatorio, la società era in possesso delle fotocopie dei documenti consegnati all’avv. P. da poter utilizzare per la preparazione dell’atto di impugnazione.

E ciò, senza considerare che lo stesso legale rappresentante, il quale era perciò al corrente della scadenza del termine per impugnare – scadenza che sarebbe maturata il 15 luglio 1996 – già qualche tempo prima, verosimilmente tra la fine di maggio ed i primi di giugno, aveva contattato un altro legale internazionalista, l’avv. ********; e, senza considerare altresì che il mandato all’avv. P. fu revocato il 5 luglio 1996, dieci giorni prima della scadenza del termine per la proposizione dell’atto di impugnazione, previa comunicazione da parte di un altro legale officiato dalla società, l’avv. ********, e che il successivo 9 luglio l’avv. P. aveva già provveduto a dare disposizioni alle segretarie di restituire i documenti alla cliente previa ricevuta.

Con la conseguenza che l’infruttuosa scadenza dei termini per l’impugnazione, senza che si provvedesse alla tempestiva proposizione dell’atto, come invece era ancora possibile, fu in effetti determinata dalla colpevole incuria della stessa assistita.

Ed invero, la responsabilità dell’esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare in primo luogo se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale; in secondo luogo, se un danno vi sia stato effettivamente; in terzo luogo se, qualora l’avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva che sia, ed il risultato derivatone.

Ciò, in quanto, come ha già ha avuto modo di statuire questa Corte, con riguardo specifico all’ultimo dei presupposti sopra indicati, ove anche risulti provato l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione, per negligente svolgimento della prestazione, il danno derivante da eventuali sue omissioni deve ritenersi sussistente solo qualora, sulla scorta di criteri probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito (tra le tante Cass. n.22026/04, Cass. n. 10966/04, Cass. n. 21894/04, Cass. n.6967/06, Cass. n.9917/2010).

Nel caso di specie, sia pure ad abundantiam in quanto la ratio decidendi si fondava essenzialmente sul rilievo che la mancata, tempestiva, proposizione dell’impugnazione fu causalmente riconducibile all’incuria della stessa società, rimasta inerte, la Corte di merito ha comunque concluso il suo iter argomentativo condividendo la valutazione del giudice di primo grado circa la prognosi negativa sul fondamento dell’opposizione che avrebbe dovuto essere proposta.

E ciò, per un duplice ordine di considerazioni: a) la ritenuta non infondatezza del reclamo mosso dall’acquirente, la B.D. b) l’unilaterale decisione della società italiana di mutare a proprio favore le modalità di pagamento dilazionato, concordate con la ditta francese, come una sorta di perdita del beneficio del termine stabilita dal creditore autonomamente, senza oggettivi motivi e al di fuori di un nuovo accordo. Ed è appena il caso di osservare che l’indagine, da svolgersi sulla scorta degli elementi di prova che il danneggiato ha l’onere di fornire in ordine al fondamento dell’azione proposta (tra le tante, cfr Cass. n. 16846/05, Cass. n. 12354/09), è riservata all’apprezzamento del giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando, come nella specie, sia sorretta da una motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici (tra le tante Cass. n. 6967/06, n. 10966/04, Cass. n. 9917/2010). Ne deriva l’infondatezza delle censure in esame.

Resta da esaminare la terza doglianza, la cui trattazione è stata posticipata per comodità di esposizione. Con tale censura, deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., artt. 116 e 228 c.p.c., la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello, facendo discendere la negligenza del cliente dalla revoca del mandato con subentro di altro legale e dalla consegna della documentazione, avvenuti secondo la stessa Corte, rispettivamente, in data 5 luglio 1996 e 15.7.96, prima della scadenza del termine per proporre l’appello, avrebbe leso i principi in materia di valutazione delle prove. Le circostanze riportate infatti – questa la ragione di censura – non troverebbero riscontro nelle risultanze processuali e la tesi della Corte si fonderebbe su un ragionamento di tipo presuntivo senza i requisiti di gravità, precisione e concordanza.

La doglianza è inammissibile. Ed invero, la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

Inoltre, è principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360, n. 3, del codice di rito non conferisce alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa il solo controllo – sotto il profilo logico – formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione. Ne deriva l’inammissibilità della censura in esame.

Considerato che la sentenza impugnata è esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, alla stregua dei soli parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di questo giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge, ed Euro 200,00 per esborsi.

Redazione