Occupazione illegittima di suolo agricola (Cons. Stato, n. 4871/2013)

Redazione 30/09/13
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FATTO e DIRITTO

1.) Gli appellanti sono comproprietari di un suolo in agro di Lizzanello, in catasto a fg. 24 p.lle n. 455 e n. 505, dell’estensione complessiva di circa mq. 1800, di cui mq. 400 sono stati occupati e trasformati irreversibilmente per la realizzazione del collettore intercomunale delle reti fognarie dei Comuni di Lizzanello, Cavallino e San Donato di Lecce, per il collegamento al depuratore centralizzato di Lizzanello.
Con sentenza del T.A.R. Lecce n. 3261 del 27 maggio 2004, passata in giudicato, sono stati annullati il decreto del Prefetto di Bari, nella qualità di commissario delegato per l’emergenza socio-economico-ambientale nella regione Puglia, n. 4756/C.D. del 17 ottobre 2002, che -dopo la scadenza del termine già fissato per il compimento delle espropriazioni (31 ottobre 2001), ed essendo state le medesime già ultimate e collaudate-, riapprova il progetto esecutivo dell’opera fissando nuovo termine per le espropriazioni al 30 giugno 2003, nonché il consequenziale decreto della medesima Autorità n. 459/2002 del 18 dicembre 2002, che disponeva l’esproprio.
Con il ricorso introduttivo del giudizio, gli odierni appellanti hanno quindi proposto domande risarcitorie, riferite, rispettivamente, al danno connesso alla perdita della proprietà della porzione irreversibilmente trasformata e delle relitte porzioni di suolo in quanto inutilizzabili (rapportate, secondo perizia giurata di stima a € 20,00 mq., e quindi indicato in complessivi € 36.820.00), nonché al danno connesso al mancato godimento del suolo nel periodo di occupazione legittima, individuato in misura pari agli interessi legali sulla predetta somma, oltre rivalutazione e interessi legali sino al soddisfo.
Nel giudizio si sono costituiti l’Autorità statale e il Comune di Lizzanello.
Con la sentenza n. 1148 del 17 aprile 2008, notificata il 20 maggio 2008, il T.AR. Puglia ha:
– dichiarato il difetto di legittimazione passiva delle Amministrazioni comunali intimate (Lizzanello, Cavallino e San Donato), per essere rimaste del tutto estranee alla procedura espropriativa e all’attività amministrativa illegittima, imputabile solo all’Autorità commissariale, non potendo assumere rilievo, ai fini della responsabilità verso i danneggiati il rapporto convenzionale della medesima con l’associazione temporanea d’imprese appaltatrice dell’opera pubblica);
– dettato ex art. 35 d.lgs. n. 80/1998 i criteri per la liquidazione del danno, che ha riconosciuto, quanto alla porzione di suolo (400 mq.) occupata e irreversibilmente trasformata nella misura del solo valore medio agricolo, mentre per le due porzioni relitte ha disposto che essa sia commisurato all’indennità ex art. 44 comma 1 d.P.R. n. 327/2001, negando invece ogni risarcimento per il mancato godimento per il periodo di occupazione legittima.
Con appello notificato il 14-16 luglio 2008 e depositato il 25 luglio 2008, la sentenza è stata impugnata deducendo, in sintesi, quattro motivi:
1) Sulla quantificazione del danno, contestata perché doveva aversi riguardo al valore venale in comune commercio, ossia all’effettivo valore di mercato e non già al solo dato della qualificazione urbanistica del suolo (tipizzato come verde agricolo).
2) Sull’integrale risarcimento dei relitti, in funzione dell’erroneità dell’applicazione dell’art. 44 comma 1 del d.P.R. n. 327/2001 e del relativo criterio indennitario, che, al pari del suo antecedente normativo (art. 46 della legge n. 2359/1865), riguarda solo il deprezzamento di fondi diversi da quelli espropriati, dovendosi invece riconoscere che i relitti sono pressoché insuscettibili di qualsiasi utilizzazione.
3) Sul mancato riconoscimento del risarcimento per il periodo di occupazione legittima, perché il ristoro, nella misura dell’interesse legale sull’importo dovuto per il risarcimento, è dovuto quando comunque l’occupazione sia divenuta illegittima.
4) Sull’applicazione dell’art. 35 d.lgs. n. 80/1998, perché il Tar avrebbe potuto e dovuto liquidare direttamente i danni o sulla base della perizia di parte esibita in giudizio o di apposita c.t.u. da disporre (e per la quale si insiste in via subordinata in appello).
L’Autorità statale si è costituita con atto di mero stile.
Il Comune di Lizzanello si è costituito ribadendo, con memoria depositata l’11 ottobre 2012, la propria carenza di legittimazione passiva.
Gli appellanti, con memoria difensiva depositata il 9 ottobre 2012, hanno insistito sulle censure dedotte, richiamando a ulteriore conforto dell’inapplicabilità del criterio del valore agricolo medio la sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 10 giugno 2011, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni in legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto, della legge 22 ottobre 1971, n. 865.
All’udienza pubblica dell’11 dicembre 2012 l’appello è stato discusso e riservato per la decisione.
2.) L’appello in epigrafe è fondato nei limiti di seguito precisati, onde la sentenza impugnata va riformata in parte qua.
2.1) In limine, il Collegio deve rilevare che né gli appellanti né l’Autorità commissariale appellata (costituitasi con atto di mero stile) hanno contestato il capo della sentenza che ha escluso la responsabilità risarcitoria, e quindi la legittimazione passiva, dei Comuni di Lizzanello, Cavallino, San Donaci e dell’associazione temporanea d’imprese affidataria dell’esecuzione dell’opera pubblica, onde sul medesimo deve ritenersi senz’altro formato il giudicato.
2.2) Ancora in via preliminare deve escludersi la fondatezza del quarto motivo d’appello, imperniato sul rilievo secondo il quale il giudice amministrativo salentino avrebbe potuto e dovuto provvedere alla liquidazione diretta dei danni anziché all’indicazione dei criteri relativi.
L’art. 35 comma 2 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 -che è stato poi sostanzialmente trasfuso, come noto, nell’art. 34 comma 4 c.p.a.- consente al G.A. di procedere all’individuazione dei criteri per la liquidazione del danno, in via alternativa alla sua diretta quantificazione, con sostanziale equiparazione delle due tecnica di tutela risarcitoria, essendo soltanto preclusa, come noto, una sentenza di condanna generica, limitata all’an debeatur (cfr. tra le tante in tale ultimo senso Cons. Stato, Sez. IV, 4 aprile 2011, n. 2102; Sez. IV, 21 giugno 2010, n. 3876 ribadisce l’alternativa facoltatività tra indicazione dei criteri e liquidazione diretta).
L’applicabilità di tale peculiare istituto processuale, tipico del giudizio amministrativo, può semmai escludersi soltanto quando la misura del danno sia affatto certa e predeterminata, ovvero quando il danno sia liquidabile sulla base di semplici operazioni aritmetiche per essere prefissata e chiara l’unità parametrica di misura (come avviene, ad esempio, per il danno riferito ad inadempimento di obbligazioni pecuniarie, ragguagliate al saggio di interessi legali o anche convenzionali a tasso bancario).
Tale ipotesi esula dal caso di specie, trattandosi di valutazioni estimative riferite al valore del suolo, sia nella porzione direttamente occupata e trasformata, sia nelle due porzioni relitte.
2.3) E’ fondato il primo motivo d’appello, relativo alla commisurazione del risarcimento del danno al criterio del valore agricolo medio.
Il giudice amministrativo pugliese ha osservato al riguardo che:
“…trattandosi di terreno a destinazione puramente agricola (e di cui non risulta acquisita la prova della sussistenza di <<possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio>>), devono poi trovare applicazione, ai fini della quantificazione dell’obbligazione risarcitoria, <<le norme di cui al titolo II della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni ed integrazioni>> richiamate dall’art. 5 bis, comma 4 del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, conv. in l. 8 agosto 1992, n. 359 (il necessario riferimento al criterio dell’effettivo valore venale dell’area reintrodotto da Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349 trova, infatti, applicazione con riferimento ai suoli forniti di suscettibilità edificatoria e non ai suoli a destinazione puramente agricola, come nel caso di specie)”.
Sennonché, come esattamente evidenziato dagli appellanti nella memoria difensiva depositata il 9 ottobre 2012, il combinato disposto dell’art. 5 bis comma 4 del d.l. n. 333/1992, convertito con modificazioni nella legge n. 359/1992 e dell’art. 16 commi 5 e 6 della legge 22 ottobre 1971 n. 865 (ossia delle norme di cui al titolo II della predetta legge cui il primo rinviava) sono ormai definitivamente espunte dall’ordinamento per effetto della declaratoria d’incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 10 giugno 2011.
La Consulta ha infatti considerato l’illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni per contrasto con l’art. 117, comma 1, cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della convenzione europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, nonché con l’art. 42, comma 3, cost., perché il c.d. v.a.m. (valore agricolo medio) “…prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo ed ignora ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il ragionevole legame con il valore di mercato del bene ablato, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il serio ristoro richiesto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale. Fermo restando che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato e che non sempre é garantita dalla Cedu una riparazione integrale, l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore, in guisa da garantire il giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui”.
Ne consegue che, sempre in tema d’indennità di esproprio, l’inapplicabilità del v.a.m., ovviamente nei rapporti non esauriti, implica il necessario riferimento “… al valore venale pieno, potendo l’interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo , pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l’agricola e l’edificatoria” (Cass. Civ., Sez. I, 17 ottobre 2011, n. 21386).
Orbene, è evidente che se ai fini dell’indennità d’esproprio, che deve rappresentare comunque un serio ristoro, non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore venale in comune commercio, considerate tutte le caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica (tipizzata in gran parte come E1 fascia di rispetto stradale e per piccola porzione come E2 aree per attrezzature esistenti e di progetto).
Nel caso di specie, peraltro, gli interessati hanno prodotto sin dal giudizio di primo grado una perizia giurata che indica un valore unitario a metro quadro pari a € 20,00, che in assenza di indicazioni diverse e riduttive, non fornite dall’Autorità commissariale intimata, può considerarsi congruo e corrispondente al valore venale.
Ne consegue che il risarcimento del danno per la porzione di suolo direttamente attinta dall’occupazione e dalla trasformazione (mq. 400) va liquidato in € 8.000,00 (pari al prodotto tra l’estensione suddetta e il valore unitario di € 20,00 a mq.).
2.4) Anche il secondo motivo d’appello è fondato, posto che l’art. 44 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, richiamato nella sentenza impugnata, al pari dell’omologo art. 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, riguarda indennità dovute a terzi estranei e diversi rispetto al proprietario espropriato, e quindi è inapplicabile all’ipotesi di occupazione parziale di unitario compendio immobiliare che comporti diminuzione di valore della residua porzione, per il quale deve aversi invece riguardo al valore venale residuo secondo il criterio di cui all’art. 40 della legge n. 2359/1865 (sulla differenza e non sovrapponibilità tra le indennità ex art. 40 e 46 della legge suddetta cfr. per tutte Cass. Civ., Sez. I, 9 settembre 2011, n. 18547).
Non essendo peraltro comprovato che il valore venale residuo sia azzerato, appare ragionevole rapportare il deprezzamento alla misura del 50% del valore unitario di cui al punto 2.3), nel senso che esso sia liquidato in misura pari alla metà del medesimo, e quindi in ragione di € 18.000,00 (pari al prodotto tra l’estensione della residua porzione del suolo -mq. 1.800- e il valore unitario di € 10,00).
2.5) E’ invece infondato il terzo motivo d’appello perché per il periodo di occupazione legittima non può competere il risarcimento del danno, trovando la perdita del godimento ristoro nell’indennità di occupazione e dovendosi condividere il rilievo del giudice salentino secondo il quale poiché “… l’opera pubblica è infatti stata realizzata durante il periodo in cui l’immobile era oggetto di un provvedimento di legittima occupazione d’urgenza…non residuano, quindi, periodi di occupazione illegittima che possano essere risarciti attraverso il consueto criterio della concessione di ulteriori interessi sulla somma dovuta a titolo di obbligazione risarcitoria”.
3.) In conclusione, e in riforma della sentenza impugnata, l’Autorità commissariale appellata deve essere condannata al risarcimento del danno, da liquidare secondo i criteri enunciati sub 2.3) e 2.4), oltre il riconoscimento sulle relative somme degli interessi legali e della rivalutazione monetaria dalla data del termine per il compimento delle espropriazioni (31 ottobre 2001) e sino al soddisfo.
4.) Il regolamento delle spese del giudizio d’appello segue la soccombenza tra appellanti e autorità commissariale appellata, disponendosene la compensazione tra quest’ultima e il Comune di Lizzanello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) così provvede sull’appello in epigrafe n.r. 6175/2008:
1) accoglie l’appello nei limiti di cui in motivazione, e, in riforma della sentenza del T.A.R. per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, Sezione I, n. 1148 del 17 aprile 2008, riconosce il diritto al risarcimento del danno, liquidato secondo i criteri di cui in motivazione, con condanna dell’Autorità commissariale appellata al pagamento delle relative somme;
2) condanna l’Autorità commissariale appellata alla rifusione, in favore degli appellanti, delle spese e onorari del giudizio d’appello, liquidati in complessivi € 3.000,00 (tremila/00), oltre IVA e CAP nella misura dovuta;
3) dichiara compensate per intero tra l’Autorità commissariale appellata e il Comune di Lizzanello le spese e onorari del giudizio d’appello.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 dicembre 2012

Redazione