Nonnismo: la Difesa risarcisca la vittima (Cass. n. 4809/2013)

Redazione 26/02/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. M.M. conveniva dinanzi al Tribunale di Messina il Ministero della Difesa, esponendo che, durante il servizio militare di leva espletato prima a (omissis) sino all'(omissis) e poi a (omissis) sino al (omissis), aveva subito gravi danni alla persona, dei quali invocava il risarcimento, per effetto di una caduta da una scala sdrucciolevole che gli aveva procurato lesioni alla colonna vertebrale e in conseguenza di gravi episodi di “nonnismo” dei quali era stato vittima ad opera di commilitoni e dei superiori che gli avevano creato problemi di inserimento e ne avevano comportato il congedo anticipato con una diagnosi infausta di malattia mentale.

Il Ministero, costituendosi in giudizio, contestava la domanda rilevando che i problemi lamentati dall’attore dovevano essere ricollegati alla sua personalità fragile ed insicura, che già nel 1994 ne aveva determinato la dichiarazione di “soggetto rivedibile” per il servizio militare, e che il periodo di leva effettivamente prestato dall’attore, esclusi i tempi di ricovero e congedo, era stato di poco superiore al mese continuativo, tanto da doversi escludere che esso fosse stato causa dei riferiti disturbi del comportamento del giovane militare e della malattia diagnosticatagli.

Veniva ammessa ed espletata una consulenza medica sulla persona dell’attore, che escludeva la sussistenza di un nesso causale tra i fatti che si sarebbero verificati durante il servizio prestato alle dipendenze della PA e i danni dei quali si invocava il risarcimento.

Il giudice di primo grado rigettava la domanda e dichiarava interamente compensate tra le parti le spese di causa.

2. Con la sentenza non definitiva, oggetto della presente impugnazione, depositata il 9 dicembre 2008, la Corte di Appello di Messina, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la responsabilità del Ministero per avere agevolato o aggravato, a titolo di concausa, l’insorgere nel M. della malattia mentale che ne determinò il congedo illimitato.

2.1. In particolare, la Corte territoriale – pur muovendo dalla circostanza che il c.t.u. in primo grado aveva escluso che sussistesse il necessario nesso causale tra la leva e la malattia insorta nel M., sul presupposto che egli ne fosse affetto probabilmente sin dalla nascita e che, successivamente al congedo, essa si fosse solo manifestata in fase florida e con episodi e forme eclatanti integranti disturbi e del comportamento e d’inserimento nel contesto sociale e nell’ambito familiare – ha premesso che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che, in tema di responsabilità dello Stato verso i terzi per atti compiuti da funzionali e dipendenti, la sua natura indiretta e per fatto altrui – secondo un principio analogo alla responsabilità oggettiva per rischio d’impresa ex art. 2049 c.c. – non richiede che tra le mansioni affidate all’autore dell’illecito e l’evento sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente che ricorra un rapporto di occasionalità necessaria tale per cui le mansioni esercitate abbiano determinato o anche soltanto agevolato la realizzazione del fatto lesivo (Cass. 28.08.2007 n. 18184 e 30.01.2008 n. 2089) e premesso, altresì, che, nella fattispecie, l’attore, per il periodo interessato dal servizio militare prestato, era inserito egli stesso nell’ambito di un rapporto assimilabile al pubblico impiego sì da rivestire, nei confronti del Ministero della Difesa, la duplice veste di dipendente e di terzo rispetto all’operato dei superiori e dei commilitoni, ricorreva la competenza dell’AGO a conoscere della vicenda essendo stata avanzata una domanda di risarcimento danni fondata sulla violazione del dovere generale del neminem laedere ex art. 2043 c.c., che avrebbe dato luogo alla lesione del bene salute costituzionalmente protetto e garantito. Osservava, inoltre, che la malattia mentale diagnosticata al M., “psicosi schizofrenica”, certamente presentava fasi floride e fasi quiescenti, era di difficile anamnesi ed era compatibile con condotte c.d. “normali” di autonoma gestione dei rapporti intersoggettivi da parte delle persone che ne sono portatrici. In questa ottica si collocavano gli episodi anteriori all’arruolamento del giovane, come la scelta di rivederlo per la personalità fragile ed insicura manifestata dinanzi ai medici della Commissione in occasione della prima visita del (omissis); quella di rivederlo ancora una volta per motivi di studio nel (omissis) ma con la indicazione espressa “non rileva psicopatia” e quella di ritenerlo poi idoneo al servizio militare incondizionato in occasione della terza visita del settembre 1996, che precedette l’invio della cartolina di precetto e l’inizio del servizio di leva.

Ne risultava, cioè, un quadro particolare di un giovane sicuramente introverso e poco incline ai rapporti intersoggettivi, sospettoso e pauroso (come egli stesso si definiva), che per ben due volte mise sicuramente in difficoltà i medici della Commissione che dovevano scegliere se avviarlo o meno ad un servizio di leva il cui espletamento esponeva il militare alla necessità di mantenere una disciplina dura e diversa dalla ordinaria vita familiare e soprattutto alla concreta possibilità che egli fosse oggetto di episodi di scherno o di vero e proprio “nonnismo” che sono certamente deprecabili e che vanno condannati ma che devono essere tenuti in conto come possibili ed ai quali ovviare con una dose di sangue freddo e self control che difficilmente poteva essere richiesto ad un soggetto come il M. (in tal senso, avrebbe dovuto indurre alla cautela i medici della Commissione, prima e i superiori della caserma, poi la circostanza riferita dal giovane circa sue improbabili performance di pescatore capace di scendere alla profondità di ottanta metri per pescare il corallo nero).

Riteneva, in definitiva, la Corte territoriale che, almeno sotto il profilo dell’aggravamento di una patologia di cui purtroppo il giovane era portatore, il comportamento dei dipendenti della PA, che lo avevano visitato ed avuto alle loro dipendenze durante il mese di servizio di leva militare, avesse contribuito all’insorgere di quegli episodi ormai conclamati di disturbo mentale con paranoie e manie di persecuzione (quali quelle da lui riferite al c.t.u. con diretto riferimento ai familiari che intenderebbero, a suo dire, propinargli del veleno nel cibo) che oggi lo affliggono, sebbene, per sua fortuna, con una buona forma di compenso che gli consente di godere di una discreta qualità della vita. Trattandosi di una responsabilità per fatto colposo da attribuire a titolo di concausa e non di fattore esclusivo determinante, si rivelava indispensabile la valutazione suppletiva (disposta contestualmente dalla Corte territoriale), da parte del c.t.u., per quantificare la percentuale d’invalidità permanente residuata al M., fatta salva ogni decisione, sulla concreta percentuale addebitabile all’amministrazione che, tramite i propri dipendenti, aveva agevolato ma non determinato l’insorgere della patologia che aveva reso ben presto il giovane non adatto all’espletamento del servizio militare.

3. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. Ha resistito il M. con controricorso ed ha chiesto il rigetto del ricorso.

Diversamente da quanto sostenuto in controricorso, il ricorso è ammissibile, risultando spedito per la notifica al M. presso il domiciliatario in Messina in data 25 gennaio 2010, ultimo giorno utile, dato che il 24 gennaio 2010 cadeva di domenica (rispetto a sentenza di appello depositata il 9 dicembre 2008).

3.1. Con il primo motivo, l’amministrazione deduce omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine al profilo della controversia, da ritenersi decisivo, della riferibilità, a titolo concausale, dell’aggravamento della patologia da cui è affetta la controparte alla condotta dei dipendenti dell’Amministrazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e così indica le ragioni per le quali l’insufficienza della motivazione la renderebbe inidonea a sorreggere la decisione: “le risultanze processuali, ed in particolare l’elaborato peritale redatto dal c.t.u. nominato in primo grado – dal quale emerge che i tratti della personalità della controparte, riscontrati prima dell’arruolamento, possono far parte di una caratteropatia e di una nevrosi e non necessariamente devono preludere all’esordio di una franca nevrosi schizofrenica, esordio che ben può essere connotato da un quadro clinico pseudo nevrotico, nonchè l’impossibilità di attribuire al servizio militare altra rilevanza se non quella rivelatrice di una condizione patogena costituzionale fino allora latente o in fase subclinica, sotto il profilo comportamentale – rendono la motivazione della sentenza, nella parte in cui si afferma la riferibilità, sia pure a titolo di concausa, dell’aggravamento della patologia di cui era portatore il M., ai medici della Commissione ed a quanti hanno avuto alle loro dipendenze lo stesso durante il servizio militare da questi prestato, inidonea a giustificare la sentenza impugnata. Tali risultanze escludono altresì l’idoneità della motivazione a giustificare la sentenza impugnata anche nella parte in cui, a pagina 7 di tale sentenza, la Corte di Appello messinese menziona gli episodi di nonnismo o di scherno di cui sarebbe stato, prevedibilmente, vittima il M., posto che il c.t.u., nel suo elaborato peritale ha ipotizzato che quanto riferito al riguardo sarebbe il prodotto di elaborazione patologica coerente con le tematiche deliranti in atto evidenziate, ed ha comunque escluso che al servizio militare possa essere attribuita altra rilevanza se non quella rivelatrice di una condizione patogena costituzionale fino allora latente o in fase subclinica, sotto il profilo comportamentale”.

3.1.2. La censura non coglie nel segno. Si deve, invero, ribadire che il motivo di ricorso con cui – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, – si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo (Cass. n. 13457/2012, in motivazione; 2805/2011, ord.; S.U. 16518/2008). Si rivela, pertanto, inammissibile il motivo con cui ci si limiti a denunciare un preteso vizio motivazionale da parte del giudice di secondo grado in ordine ad un “profilo” decisivo della controversia, giacchè la riferibilità, a titolo concausale, dell’aggravamento della patologia del M. alla condotta di dipendenti dell’amministrazione attiene intrinsecamente ad un giudizio, ad una valutazione delle risultanze di causa, non suscettibili di censura in questa sede, se congruamente e correttamente motivati.

3.1.3. Del resto, le ragioni che renderebbero inidonea la motivazione a sorreggere la decisione sono rappresentate essenzialmente da valutazioni del consulente di ufficio dalle quali i giudici di appello di sono discostati con congrua e corretta motivazione, così indirizzando il proprio apprezzamento delle risultanze di causa in senso difforme da quello auspicato dall’amministrazione ricorrente.

Infatti, il controllo del giudice del merito sui risultati dell’indagine svolta dal consulente tecnico d’ufficio costituisce un tipico apprezzamento di fatto, in ordine al quale il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della sufficienza e correttezza logico giuridica della motivazione. In particolare, ove il giudice di primo grado si sia conformato alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il giudice di appello può pervenire – come nel caso in esame – a valutazioni divergenti da quelle, senza essere tenuto ad effettuare una nuova consulenza, qualora, nel suo libero apprezzamento, ritenga, dandone adeguata motivazione (come sintetizzata al precedente punto 2.1.), le conclusioni dell’ausiliario non sorrette da adeguato approfondimento o non condivisibili per altre convincenti ragioni (Cass. n. 19661/2006; 25569/2010; 5148/2011).

3.2. Violazione o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 1223 e 2056 e.e. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e formula, al riguardo, il seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1223 e 2056 c.c. – in forza del quale è dovuto il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta del fatto illecito -, non sia risarcibile da parte del Ministero della Difesa il danno costituito dall’aggravamento della patologia mentale da cui è affetto un soggetto che sia stato avviato al servizio di leva militare, qualora l’esordio di tale patologia non sia connotato da un quadro clinico atto a consentirne la diagnosi fin dalla sua insorgenza, la patologia in questione non sia stata accertata in sede di visita di leva da parte della Commissione medica – dinanzi alla quale lo stesso soggetto aveva manifestato solo una personalità fragile ed insicura – e siffatto aggravamento possa esser ricondotto ad episodi di scherno e di nonnismo nell’ambiente militare, la cui probabilità l’Amministrazione non avrebbe preso in considerazione, e se non sia condivisibile la sentenza impugnata che – anzichè rigettare la domanda risarcitoria avanzata dall’attore con riferimento al danno in questione – ha dichiarato la responsabilità dell’Amministrazione per aver agevolato od aggravato l’insorgere della patologia mentale de qua, salva la prosecuzione del giudizio per la quantificazione del danno”.

3.2.1. Anche questa censura è del tutto priva di pregio. Essa, infatti, è impropriamente rubricata quale violazione di legge, limitandosi a prospettare una critica in ordine alla ritenuta insussistenza del nesso di causalità tra il comportamento dei dipendenti dell’amministrazione della difesa e l’aggravamento della patologia del M.. Si deve ribadire, al riguardo, che, in tema di illecito aquiliano, l’accertamento del nesso causale tra la condotta e l’evento dannoso rappresenta un’indagine di fatto devoluta al giudice del merito ed è soggetto ad un sindacato limitato da parte del giudice di legittimità, il quale può solo controllare, nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., l’idoneità delle ragioni poste a fondamento della decisione di merito, verificando la congruenza logica e la sufficienza delle argomentazioni relative alla potenzialità dannosa del comportamento illecito e l’effettiva attuazione in concreto di tale potenzialità (Cass. n. 7886/2005; 7637/2003). Ne deriva che, nel caso in esame, non si rivela neanche prospettabile l’indicata violazione di norme di legge (artt. 1223 e 2056 c.c.).

3.3. Senza contare che, nel caso in esame, la Corte territoriale ha affermato, con congruo e corretto apprezzamento delle risultanze di causa, che, almeno sotto il profilo dell’aggravamento di una patologia di cui purtroppo il giovane era portatore, il comportamento dei dipendenti della PA, che lo avevano visitato ed avuto alle loro dipendenze durante il mese di servizio di leva militare, ha contribuito all’insorgere degli episodi ormai conclamati di disturbo mentale con paranoie e manie di persecuzione. Ciò smentisce la tesi difensiva dell’amministrazione, sostenuta fin dall’origine e su cui s’imperniano gli assunti vizi della sentenza impugnata: proprio la debolezza e la ritenuta “rivedibilità” del soggetto avevano giustificato l’ampliamento degli accertamenti e tale situazione, lungi dall’essere interruttiva del nesso causale, relativo all’aggravamento della patologia, non è neanche in contraddizione con la circostanza che un periodo effettivo di leva di poco superiore ad un mese si sia rivelato sufficiente ad aggravare la patologia stessa ed a determinare la riforma del soggetto.

4. Ne deriva il rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 3.000,00 per onorario, oltre accessori di legge.

Redazione