Non vi è alcuna automatica correlazione tra accertamento dell’illegittimità del provvedimento e insorgenza del diritto al risarcimento del danno

Redazione 30/06/11
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N. 01196/2011 REG.PROV.COLL.

N. 03672/2007 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso n. 3672/2007, proposto da***

contro***

nei confronti di***

per la riforma***

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 novembre 2010 il Cons. ************ e uditi per le parti gli avvocati ******* e *****, su delega dell’ avv. *********;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

La sentenza impugnata ha accolto, in parte, il ricorso proposto dall’attuale appellante, per l’annullamento della deliberazione adottata dalla Giunta Regionale della Sardegna, n. 7/12 del 22.2.2005, con la quale era stato sciolto il Consiglio di Amministrazione dell’Azienda Regionale Sarda Trasporti “ARST”, di cui il ricorrente era componente, ed era stato nominato il commissario straordinario, nonché per la condanna dell’amministrazione regionale al risarcimento dei danni derivanti dal provvedimento.

L’appellante contesta la pronuncia del TAR, nella sola parte relativa alla liquidazione del danno.

Le amministrazione intimate si sono costituite in appello, resistendo al gravame.

L’appellante, ricorrente in primo grado, espone di essere stato nominato, con decreto del Presidente della Giunta regionale della Sardegna, del 21 luglio 2003, componente del Consiglio di Amministrazione dell’Azienda Regionale Sarda Trasporti – “ARST”.

Con la deliberazione impugnata in primo grado, la Giunta regionale aveva disposto lo scioglimento del Consiglio di Amministrazione dell’ARST, nominando, per un periodo di tre mesi, l’Ing. *************, quale Commissario Straordinario dell’Azienda.

Il TAR, con la sentenza appellata, ha accolto, in parte, il ricorso. In particolare, la pronuncia ha annullato il provvedimento impugnato e ha condannato l’amministrazione regionale al risarcimento del danno, quantificato in una misura notevolmente inferiore rispetto a quella richiesta dall’interessato.

Con riguardo all’accertata illegittimità dell’atto gravato in primo grado, il tribunale ha svolto la seguente motivazione.

“La Giunta ha disposto lo scioglimento del Consiglio di Amministrazione dopo aver nel corpo della motivazione della delibera mosso pesanti critiche alla gestione dell’Azienda, nonché evidenziato delle violazioni da parte del Consiglio di Amministrazione di norme di legge e di direttive della Giunta medesima.

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di improcedibilità del ricorso, sollevata dalla difesa dell’ARST, per omessa impugnazione della deliberazione 11.3.2005 n. 11/18 con la quale sarebbe stato modificato il testo delle deliberazione impugnata “apportando alla stessa correzioni ed integrazioni volte alla eliminazione di alcune inesattezze lessicali dovute a mero errore materiale”.

L’eccezione non può essere condivisa.

Con la deliberazione n. 11/18 sono state apportate delle modifiche, definite “correzioni”, consistenti nella eliminazione di alcune parti della delibera impugnata, che rappresentavano parte consistente delle ragioni giustificative del provvedimento, e contenevano specifici addebiti dell’operato del Consiglio di Amministrazione, fatti oggetto di alcune delle censure prospettate dal ricorrente.

La delibera non ha, pertanto, inciso sulla procedibilità del ricorso nel suo complesso, ma ha soltanto determinato l’improcedibilità delle censure proposte avverso alcune parti dell’originaria delibera impugnata, stante la loro eliminazione in via di autotutela da parte della stessa Amministrazione.

Non vi era pertanto alcuna ragione per l’impugnazione della delibera da parte del ricorrente, non avendo la stessa alcun contenuto lesivo nei suoi confronti, ma producendo anzi evidenti effetti favorevoli derivanti dal riconoscimento della inesistenza di alcune originarie contestazioni formulate con la delibera impugnata. In sostanza è la stessa Amministrazione che, riconoscendo l’inesistenza di alcuni dei fatti addebitati con la delibera di scioglimento del Consiglio di Amministrazione dell’ARST, concorda con la fondatezza delle censure proposte in ricorso avverso l’addebito di detti fatti.

In particolare la “correzione” ha riguardato le seguenti parti:

1) l’addebito, formulato a pagina 7, di aver il precedente Consiglio di Amministrazione, “formato per i quattro quinti dagli attuali Consiglieri”, rinnovato nel 2000 il contratto con la Fideuram – definito nella delibera impugnata “un ulteriore esempio di gestione anomala del denaro pubblico, molto significativo e di cui si sta occupando la magistratura”- viene stralciato ed al suo posto viene inserita l’indicazione sulla mancata trasmissione delle relative delibere all’Assessorato competente;

2) l’addebito di non aver “nulla … fatto o scritto per preparare il terreno verso la trasformazione –ineluttabile – dell’azienda in società per azioni a capitale misto”, viene integrato con la precisazione che ciò è avvento “pur in assenza della Legge Regionale di recepimento del D.Lgs 422/97”;

3) l’addebito sulle “gravi e ripetute inosservanze degli obblighi previsti nei commi 1 e 2 dell’art. 7 della L.R. n. 11/95, riguardanti la presentazione da parte di ciascun consigliere di una relazione annuale sul proprio operato e sul funzionamento dell’organo…”, viene completamente eliminato.

Gli addebiti sopra indicati erano stati specificamente censurati dal ricorrente.

Il venir meno di essi, che esime il collegio dall’esaminare le relative censure proposte in ricorso, rende però evidente la fondatezza del 6° motivo di ricorso, con il quale si deducono le censure di travisamento dei fatti e difetto di motivazione.

Come esattamente rilevato dal ricorrente, la Giunta regionale ha sciolto il Consiglio di amministrazione in virtù di un giudizio complessivamente negativo, fondato su di un insieme di elementi che avrebbero dovuto rappresentare la giustificazione della relativa determinazione assunta.

Di questi alcuni, se non eliminati o stemperati dal successivo atto, avrebbero potuto, anche singolarmente, sorreggere il provvedimento, altri evidenziavano la sussistenza di alcune irregolarità e di inadempienze non gravi.

La norma applicabile ed applicata con il provvedimento impugnato, articolo 17 della Legge regionale 20 giugno 1974 n. 16, àncora il potere di scioglimento da parte della Giunta regionale ad un giudizio di gravità degli addebiti formulati nei confronti del Consiglio di Amministrazione. Il primo comma del citato articolo, infatti, così dispone: “La Giunta regionale su proposta dell’ Assessore regionale ai trasporti, scioglie il Consiglio di amministrazione della ARST in caso di accertate gravi violazioni di legge, di grave inosservanza delle direttive della Giunta regionale medesima, ovvero quando non sia in grado di funzionare, provvedendo contestualmente alla nomina di un Commissario straordinario.”

Nella specie il venir meno degli addebiti più gravi, ad opera della stessa Giunta regionale, svuota di molto il contenuto motivazionale della delibera impugnata e, conseguentemente, il grave giudizio negativo espresso, la cui esistenza è richiesta dalla su indicata disposizione per l’adozione del provvedimento di scioglimento del Consiglio di amministrazione, resta privo di un supporto sostanziale idoneo a sorreggerlo.

La delibera n. 11/18 non si sarebbe dovuta limitare, quindi, a rettificare il contenuto motivazionale della delibera 7/12, ma avrebbe dovuto giustificare il permanere del complessivo giudizio di gravità, dopo l’eliminazione delle violazioni e delle inadempienze di maggiore consistenza.

L’assenza di una simile valutazione evidenzia la fondatezza del dedotto vizio di difetto di motivazione.

Né può sostenersi che il potere esercitato dalla Giunta regionale, come sembra ritenere la difesa della Regione, sia comunque giustificato con riferimento alla disposizione dettata al comma 2° dall’art. 2 della legge regionale 10.5.1995 n. 14 che, consentendo alla Giunta medesima di vigilare sull’attività degli enti regionali, “valutando la congruità dei risultati raggiunti in termini di efficacia, efficienza ed economicità”, attribuisce anche il potere di scioglimento dell’organo.

In quest’ultima ipotesi, come rilevato in ricorso, il potere di scioglimento avrebbe potuto essere esercitato solo previo parere dell’Organo, Consiglio regionale, che aveva eletto i Consiglieri di amministrazione, mentre la norma speciale applicata dalla Giunta regionale non richiede detto parere, ma consente lo scioglimento del consiglio di amministrazione dell’ARST solo nelle ipotesi in cui sussistano delle gravi violazioni di legge o delle gravi inosservanze delle direttive della Giunta o, infine, quando il CDA non sia in grado di funzionale.

Lo stesso evolversi della vicenda rende fondata anche la censura di violazione degli articoli 7 e 8 della legge 7 agosto 1990 n. 241, proposta con il terzo motivo di ricorso.

La giurisprudenza è pacifica nel ritenere che la comunicazione di avvio del procedimento, salvi i casi di comprovate esigenze di celerità di cui deve essere data contezza nel provvedimento, va sempre disposta quando l’Amministrazione intenda emanare un atto di secondo grado, di annullamento, di revoca o di decadenza (Cons. Stato, sez. VI, 27.2.2006 n. 8219).

Anche l’impugnato provvedimento di scioglimento del Consiglio di Amministrazione, pur non potendosi annoverare tra quelli presi in esame dalla giurisprudenza, va comunque ad incidere su delle posizioni soggettive specificamente qualificate e meritevoli di tutela definite da precedenti provvedimenti amministrativi ed in particolare, per quanto concerne la posizione del ricorrente, esso va ad incidere sul precedente provvedimento di nomina dello stesso in seno all’organo.

La difesa della Regione sostiene che non era necessaria alcuna comunicazione di avvio del procedimento poiché la sottoposizione dell’ARST ad una azione permanente di controllo e vigilanza sugli atti e sull’attività, ai sensi delle leggi regionali 14/95 e 16/74, implica l’esistenza di un procedimento sempre aperto. Afferma poi che, comunque, lo scioglimento del Consiglio di Amministrazione era un atto dovuto per la Giunta, avendo la stessa il dovere e non la semplice facoltà di sciogliere l’organo collegiale una volta accertata l’esistenza dei presupposti previsti dall’art. 17 della L.R. 16/74.

Le osservazioni non possono essere condivise.

In primo luogo parte della giurisprudenza ( Cons. Stato VI 7/2/2002,n.686, IV15/11/2004, 7405) sostiene che anche in alcuni casi di atti vincolati aventi valore sanzionatorio sia comunque necessaria la comunicazione di avvio, inoltre, nella specie, se la formulazione della norma è inequivoca nel qualificare come dovuto il provvedimento, è indubbio che i presupposti di fatto non erano affatto incontestati e che l’amministrazione ha un ampio margine di discrezionalità nel valutare la sussistenza degli elementi per l’applicabilità della sanzione, ovvero la consistenza e la rilevanza delle inadempienze compiute.

Sotto diverso profilo, la previsione di un generale potere di controllo sugli atti e sull’attività di un organo non incide sull’applicabilità delle disposizioni di cui agli articoli 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, relative alla necessità della comunicazione dell’avvio del procedimento, avendo dette disposizioni la funzione di consentire all’interessato di fornire il proprio apporto di conoscenze in ordine al concreto provvedimento finale da adottare.

Nel caso di specie la comunicazione di avvio avrebbe consentito all’interessato di apportare ulteriori conoscenze in ordine ai fatti considerati nella delibera e poi posti a fondamento della decisione di scioglimento dell’organo collegiale. Come innanzi precisato, i fatti più gravi si sono rivelati inconsistenti, come evidenziato dalle censure proposte in ricorso e ciò ha indotto la stessa Amministrazione a rettificare alcuni degli elementi posti a base del provvedimento di scioglimento. Ove il ricorrente fosse stato posto in condizioni di interloquire, l’Amministrazione non sarebbe incorsa nell’errore di porre simili fatti a fondamento della determinazione assunta.

Non può neppure affermarsi che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, come affermato apoditticamente dalla difesa regionale.

Come innanzi rilevato, a seguito dell’eliminazione degli addebiti più gravi, la Giunta avrebbe potuto e dovuto riformulare il giudizio di gravità delle violazioni contestate, perché la riportata disposizione impone lo scioglimento dell’organo collegiale solo ove le violazioni compiute siano giudicate gravi. Simile giudizio carente, essendosi la regione limitata ad una “ correzione”, non può ritenersi sanato in corso di giudizio, anche in adesione all’orientamento rigoroso di questo tribunale in merito all’applicazione dell’art. 21-octies ( cfr, Tar Sardegna II n.1268,1269,1272,1386 e1464/2005) essendo del tutto inconsistente, sotto questo specifico profilo ed ai fini voluti dal legislatore, l’adempimento dell’onere della prova da parte dell’amministrazione in sede contenziosa .

La fondatezza e la prevalenza della censura esaminata conduce all’accoglimento della domanda di annullamento della delibera in epigrafe, senza che vi sia la necessità di esaminare le ulteriori censure proposte.

La sentenza appellata ha accolto anche la domanda di risarcimento del danno proposta dal ricorrente, ma solo parzialmente: infatti la somma liquidata dal tribunale è nettamente inferiore a quella richiesta dal ricorrente.

Al riguardo, la motivazione del TAR si basa sulle seguenti considerazioni.

“Può ora procedersi all’esame della domanda di risarcimento dei danni.

Il ricorrente chiede il risarcimento dei danni subiti “sia a titolo di emolumenti non percepiti, sia di danno all’immagine pubblica…ed alla credibilità politico-amministrativa, sia di danno morale”.

La prima pretesa merita accoglimento nei limiti di cui appresso, mentre le ulteriori pretese devono essere respinte non essendo supportate da alcun principio di prova sull’effettivo pregiudizio sofferto. In particolare non viene fornito alcun elemento atto a valutare l’incidenza negativa dell’impugnato provvedimento sull’attività professionale o politica del ricorrente, quali la riduzione di occasioni di simili incarichi successivamente alla divulgazione della notizia dello scioglimento del Consiglio di Amministrazione, rispetto a quelli conseguiti in precedenza, né spetta a questo Tribunale valutare la sussistenza o no degli estremi del reato di diffamazione.

Quanto alla misura del danno, correlato dal ricorrente al mancato esercizio della funzione per il residuo periodo del triennio, osserva il collegio che il provvedimento impugnato è stato annullato per la sussistenza di figure sintomatiche di un uso non corretto della discrezionalità e che residua pertanto all’amministrazione il potere di procedere, ora per allora, al riesame ed alla rinnovazione del provvedimento. In presenza di tali presupposti, la pretesa di quantificare la misura del risarcimento, a causa di un comportamento oggettivamente colpevole della regione, agli emolumenti non percepiti non può essere accolta, dovendo limitarsi il collegio per questa parte ed in questa fase alla liquidazione di un risarcimento nella misura corrispondente al 10% dell’indennità prevista per la carica di Consigliere di amministrazione per il periodo durante il quale il ricorrente non ha potuto svolgere le funzioni a causa del provvedimento impugnato.”

L’appello contesta, analiticamente:

a) la quantificazione del risarcimento del danno, determinata dal TAR nella sola misura del 10% degli emolumenti correlati alla carica di consigliere, per il residuo periodo di durata del mandato; la parte interessata sostiene, al riguardo, che il pregiudizio da ristorare dovrebbe comprendere l’intero importo degli indicati compensi, senza alcuna limitazione;

b) il mancato riconoscimento delle voci di risarcimento correlate alla lesione del diritto all’”immagine pubblica”, della credibilità “politico-amministrativa” e al lamentato danno morale.

L’appello è fondato.

La questione proposta dall’appellante con il primo profilo di gravame presenta una notevole complessità e ha formato oggetto di attento approfondimento critico in sede giurisprudenziale e dottrinaria.

Si tratta di stabilire se l’accertamento della illegittimità del provvedimento amministrativo contestato dal soggetto interessato sia sufficiente per affermare il diritto al risarcimento del danno, in presenza degli altri presupposti generali indicati dall’articolo 2043 del codice civile (colpa e nesso di causalità), o se, al contrario, occorra considerare analiticamente – e selettivamente – il tipo di vizio individuato dal giudice, in funzione della possibilità, riconosciuta all’amministrazione, di intervenire nuovamente sul rapporto giuridico controverso, anche in seguito al definitivo annullamento dell’atto illegittimo.

Tra gli interpreti è ormai acquisita la conclusione secondo cui non vi è alcuna automatica correlazione tra accertamento dell’illegittimità del provvedimento e insorgenza del diritto al risarcimento del danno.

È però discussa l’individuazione dei casi in cui il diritto al risarcimento del danno debba ritenersi escluso o vada comunque drasticamente circoscritto nella sua misura.

In prima approssimazione, la giurisprudenza ritiene necessario distinguere, a tal fine, tra illegittimità di carattere “sostanziale” e illegittimità di natura “formale”. Solo nel primo caso, il vizio del provvedimento costituisce titolo per il risarcimento del danno subito dall’interessato, perché risulta comprovata, in modo certo, la “spettanza” del bene della vita fatta valere dal ricorrente e la correlata lesione derivante dal provvedimento illegittimo, che, in quella particolare circostanza, contrasta, in radice, con i presupposti normativi per la sua adozione con un determinato contenuto.

Al contrario, la pretesa risarcitoria non potrebbe trovare accoglimento qualora il vizio accertato non contenga alcuna valutazione definitiva in ordine al rapporto giuridico controverso, risolvendosi nel riscontro di una violazione del procedimento di formazione del provvedimento. Ciò avviene, in particolare, quando, in seguito all’annullamento dell’atto impugnato, l’amministrazione conserva, intatto, il potere di rinnovare il procedimento, eliminando il vizio riscontrato.

Nell’ambito di queste coordinate interpretative, ormai largamente consolidate, restano aperte, tuttavia, diverse questioni applicative, tutte rilevanti nella presente vicenda contenziosa.

a) Non è univoco l’inquadramento concettuale dei vizi riconducibili alla categoria dell’eccesso di potere, con specifico riferimento alle “figure sintomatiche” delle carenze istruttorie e del difetto di motivazione. La natura “sostanziale” e non meramente formale del vizio, infatti, potrebbe lasciare un certo spazio per il rinnovo del procedimento, sia pure nei limiti all’esercizio del potere discrezionale derivanti dal giudicato.

B) È incerta la rilevanza concreta della distinzione dei diversi tipi di vizi nelle ipotesi in cui il ricorrente faccia valere in giudizio un interesse meramente oppositivo e il pregiudizio lamentato riguardi proprio l’illegittima compressione delle facoltà spettanti al titolare.

C) Non è pacifica, in questo contesto, l’esatta collocazione delle illegittimità riguardanti la violazione delle garanzie procedimentali e dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento.

Senza analizzare, nel dettaglio, tutti i diversi aspetti delle indicate problematiche, che implicano rilevanti questioni di taglio dogmatico, la Sezione ritiene opportuno lo svolgimento delle seguenti osservazioni.

AA) Il vizio dell’eccesso di potere, nella sua attuale evoluzione, presenta una connotazione “multiforme”, ancorché risulti ormai prevalente il riconoscimento della caratteristica strettamente funzionale della illegittimità e la sua stretta connessione con la verifica del corretto esercizio del potere discrezionale. Questo significa, quindi, che, in linea di principio, in seguito all’annullamento per eccesso di potere, l’amministrazione non ha esaurito la propria potestà (salvi i casi in cui sono previsti perentori termini per il suo esercizio), ma ben può “rinnovare” il procedimento, incidendo sulla stessa realtà giuridica e materiale.

Va rilevato, però, che in tali eventualità, proprio perché risulta accertata l’illegittimità del precedente esercizio del potere, il procedimento rinnovato non ha, normalmente, una proiezione retroattiva e, quindi, è destinato ad operare solo per il futuro.

La retrodatazione degli effetti non è preclusa, ma essa è ammessa nel rispetto dei generali principi che governano l’azione amministrativa e delle regole riferite a quel particolare tipo di atto.

Si pensi, esemplificativamente, all’ipotesi in cui sia stata accertata l’illegittimità, per eccesso di potere e per inadeguatezza della motivazione, di un provvedimento di annullamento di ufficio. In tal caso è evidente che l’amministrazione potrà, con congrua motivazione, reiterare il provvedimento di annullamento di ufficio, il quale, per sua natura, avrà effetti retroattivi.

Nelle ipotesi in cui, invece, l’atto annullato per eccesso di potere o per difetto di motivazione abbia effetti solo ex nunc, il rinnovo del provvedimento potrà retroagire solo in presenza di comprovate ragioni di interesse pubblico, che giustifichino l’esercizio di un’attività sostanzialmente riconducibile all’autotutela.

Questi rilievi si attagliano perfettamente al caso oggetto della presente controversia. Una volta appurata (con statuizione ormai passata in giudicato), l’inadeguatezza dell’istruttoria compiuta e della motivazione riguardante la gravità delle asserite violazioni nella gestione dell’Azienda Regionale, l’amministrazione ha sempre, in astratto, il potere di riaprire un nuovo procedimento diretto allo scioglimento degli organi dell’ente. Ma tale iniziativa darà luogo, appunto, ad un nuovo procedimento, basato su una diversa istruttoria, i cui effetti non potranno retroagire ad una data precedente.

BB) La giurisprudenza che nega il diritto al risarcimento del danno, nel caso in cui non sia appurata, con certezza, la “spettanza” del bene della vita si è formata, essenzialmente, in relazione ai casi in cui il soggetto ricorrente faccia valere in giudizio un interesse pretensivo, per la cui realizzazione è indispensabile la mediazione di un nuovo provvedimento dell’amministrazione, che accerti, in concreto, l’esistenza di tutti i presupposti necessari per attribuire l’utilità richiesta.

Nel caso della lesione di interessi oppositivi, invece, l’annullamento del provvedimento lesivo è comunque idoneo a far emergere l’ingiustizia del nocumento subito dall’interessato, non assumendo alcun rilievo la natura e il tipo dei vizi riscontrati dal giudice.

È anche vero che, in presenza di vizi formali, l’amministrazione potrebbe sempre riaprire un procedimento emendato dai vizi riscontrati, ma la nuova determinazione è destinata ad operare solo per il futuro, a meno che l’amministrazione non evidenzi, ritualmente, particolari ragioni di interesse pubblico, che giustifichino la retroattività della determinazione adottata.

CC) Le violazioni delle regole di carattere partecipativo sono generalmente inquadrate nell’ambito delle illegittimità non sostanziali, anche alla luce della previsione contenuta nell’articolo 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990.

Tuttavia, una volta accertata la violazione delle norme partecipative, ed esclusa la portata non invalidante della riscontrata violazione, l’intero procedimento risulta travolto dal vizio. Ne consegue che l’amministrazione può dar vita ad un nuovo procedimento, ma esso è destinato a produrre effetti solo per il futuro.

Ne deriva, quindi, che, nella vicenda per cui è causa, non è giustificata la riduzione della misura del 10% dei compensi spettanti alla parte ricorrente.

Infatti, il pregiudizio economico subito dall’interessato riguarda, per intero, la mancata corresponsione degli emolumenti per il periodo residuo di durata del mandato.

È condivisibile, in questo senso, anche il rilievo svolto dalla parte appellante, secondo la quale non sembra giustificata la decisione di determinare il risarcimento secondo la tecnica della liquidazione del ristoro del pregiudizio derivante dalla “perdita di chance”. Infatti, o si riconosce che, per effetto del giudicato di annullamento, l’amministrazione è tenuta a rinnovare il procedimento “ora per allora”, oppure si afferma che il rinnovo, eventuale, potrà operare solo per il futuro.

Ma, nel primo caso, il diritto al risarcimento del danno andrà accertato, o negato, integralmente, in funzione dell’esito del procedimento. Non vi è spazio, invece, per un giudizio probabilistico sul possibile esito del rinnovo procedimentale.

Né sembra giustificata la decisione di pervenire ad un abbattimento così marcato (al 10%) degli emolumenti spettanti all’interessato.

Nella vicenda in concreto in esame, devono essere sottolineate, ancora, due circostanze.

Anzitutto, non vi sono elementi da cui dedurre che l’amministrazione abbia manifestato la volontà riaprire il procedimento di scioglimento dell’ente, nemmeno “virtualmente”, allo scopo di accertare eventuali responsabilità degli amministratori.

In secondo luogo, la pronuncia appellata, con statuizione ormai passata in giudicato, ha evidenziato delle carenze motivazionali radicali, che hanno smentito la fondatezza dei presupposti del provvedimento di scioglimento annullato.

Come esattamente rilevato dall’appello, quindi, l’eventuale rinnovo del procedimento non potrebbe limitarsi alla mera correzione od integrazione dell’istruttoria o del supporto motivazionale dell’atto, ma dovrebbe basarsi su una nuova e profonda ricostruzione di tutti i fatti rilevanti.

Anche per questi aspetti, dunque, va affermato il diritto del ricorrente ad ottenere un risarcimento commisurato, integralmente, agli emolumenti non percepiti nel periodo di illegittima interruzione del rapporto.

L’appellante, sotto altro profilo, deduce di avere diritto anche al riconoscimento del risarcimento per le conseguenze riflesse del provvedimento di scioglimento, correlate, a suo dire, alla lesione del diritto all’”immagine pubblica”, della credibilità “politico-amministrativa” e al lamentato danno morale.

L’appello è fondato anche sotto questo profilo.

Non è revocabile in dubbio che il provvedimento impugnato abbia oggettivamente espresso un giudizio di disvalore sull’esercizio delle funzioni istituzionali svolte dall’appellante, ancorché ridimensionate, come esattamente rilevato dal TAR, in seguito alla delibera “integrativa” adottata dalla Giunta.

Ciò ha determinato senz’altro un pregiudizio riferibile ai diritti della personalità del ricorrente, con specifico riguardo al profilo del diritto alla reputazione, anche prescindendo dalle conseguenze strettamente economiche e dai possibili riflessi “morali”.

Secondo i consolidati principi affermati dalla Corte di cassazione, la lesione di diritti della personalità protetti dalla Costituzione comporta un danno di autonoma rilevanza patrimoniale, suscettibile di riparazione per equivalente.

Nel caso concreto, infatti, l’annullamento della delibera impugnata risulta idoneo ad eliminare solo parzialmente l’intero nocumento subito dal ricorrente.

Considerata la natura del pregiudizio subito, il danno può essere quantificato in via equitativa, senza necessità di svolgere particolari attività istruttorie.

A giudizio del collegio, la somma spettante all’appellante a questo titolo può essere determinata nella misura del 10 per cento degli emolumenti illegittimamente non corrisposti.

In definitiva, quindi, l’appello deve essere accolto, nei sensi sopra precisati.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

Accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna l’amministrazione regionale a risarcire il danno subito dall’appellante, nella misura indicata in motivazione;

Condanna la Regione e l’Azienda Regionale Sarda Trasporti, in solido tra loro, a rimborsare all’appellante le spese di lite, liquidandole in euro millecinquecento (1500).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

***********************, Presidente FF

************, ***********, Estensore

**********, Consigliere

Eugenio Mele, Consigliere

Adolfo Metro, Consigliere

 

L’ESTENSORE             IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 24/02/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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