Non evita la condanna il cleptomane se la malattia non si pone come antecedente causale della condotta (Cass. pen. n. 17086/2013)

Redazione 15/04/13
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In fatto e diritto

P.L., già condannato, in abbreviato, con sentenza di primo e secondo grado – gip del tribunale di Catanzaro in data 27.10.2011 e corte di appello della stessa città in data 21.6/19.9.2012 – alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed euro 600,00 di multa per i delitti, in continuazione, di rapina impropria aggravata e lesioni personali ex artt. 81 cpv. e 628 cpv. c.p., ricorre avverso la seconda decisione, denunciando la carenza di motivazione in ordine alla adozione della perizia volta al riconoscimento o meno della infermità totale e/o parziale del prevenuto al momento del fatto, nonché in ordine al trattamento sanzionatorio per il diniego della attenuanti generiche e per l’indebito aumento collegato alla contestata recidiva reiterata specifica infra-quinquennale.
Il ricorso è inammissibile per svolgere censure sul piano del merito, per un verso, e per essere manifestamente infondato, per altro verso.
In relazione al primo motivo di ricorso, non può che ribadirsi in questa sede la regola secondo cui in virtù del rinvio dell’art. 443, quarto comma, cod. proc. pen. all’art. 599 dello stesso codice e, per ciò stesso, al comma terzo di tale articolo che, a sua volta rinvia al successivo art. 603, è possibile, anche nell’ambito del rito abbreviato semplice, non condizionato, entro certi limiti – e cioè quando il giudice di appello lo ritiene assolutamente necessario ai fini della decisione – procedere all’assunzione, di ufficio di nuove prove o alla riassunzione delle prove già acquisite agli atti. Ma nei caso di specie il giudice di merito ha ritenuto non assolutamente necessario l’accertamento peritale richiesto proprio prendendo spunto dalla consulenza di parte agli atti, nella quale si attestava un ritardo mentale di grave lieve- moderato dell’imputato, propenso alla “cleptomania” e quindi, secondo il giudizio di parte, incapace di volere al momento del fatto. Ora il ragionamento del giudice di appello si svolge lungo una duplice direzione: da un lato attraverso l’analisi della consistenza e gravità del disturbo mentale, dall’altro attraverso il sondaggio volto a verificare il nesso causale tra il fatto come contestato e la dedotta insufficienza di intendere e volere del prevenuto.
Invero il vizio di mente deriva da uno stato morboso, a sua volta dipendente da una alterazione patologica tale da rendere certo che l’imputato, nel momento della commissione del reato, è per infermità in uno stato mentale da scemare grandemente o da escludere la capacità di intendere e di volere. Ne consegue che solo in presenza di un simile stato soggettivo il giudice di merito deve ritenere sussistente il vizio di mente nonché il concorso di gravi e fondanti indizi per dar luogo alla perizia psichiatrica. Nel caso di specie il giudice di merito, con valutazione non manifestamente illogica e nell’ambito dei suoi poteri valutativi sul piano della legittimità, ha ritenuto che il disturbo psichico del prevenuto – un ritardo mentale lieve – che aveva in passato condizionato frequenti episodi di furti di piccole somme di denaro, non fosse di consistenza tale da definire una incapacità o semi- incapacità di intendere e volere da potersi definire patologica. Anche se ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, perfino i “disturbi della personalità” possono rientrare nel concetto di “infermità”, essi devono presentarsi di consistenza, intensità gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e, ancora devono porsi in nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, in modo tale che il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale (in tal senso, S.U. 25.1/8.3.2005, ****, Rv 230317: Sez. 2,22.5/20.6.2012, *******, Rv: 253079). Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati. E nel caso di specie il giudice correttamente, anche a prescindere dalla rilevanza o irrilevanza del disturbo mentale, ha escluso il nesso causale, che cioè il disturbo definito di mera “cleptomania” e che aveva dato in precedenza causa a semplici e modesti furti, potesse inserirsi quale fattore scatenante una condotta articolata e complessa quale quella di specie: introdursi nel seminario vescovile di Catanzaro, salire fino al secondo piano, introdursi, approfittando dell’assenza di persone, nella stanza del cappellano militare, S.G., quindi sottrarre una piccola somma di denaro ed usare violenza e cagionare lesioni, al fine di garantirsi l’impunità, alla persona offesa rientrato nella stanza nella quale sorprendeva il prevenuto. La diversa ricostruzione della difesa, nel senso che la violenza era stata usata per sottrarsi alle divisate avance sessuali del sacerdote, uscito dal bagno seminudo, e circostanza nuova, non esposta nei motivi di appello e comunque sfornita di qualsiasi supporto di prova.
Manifestamente infondata poi è la doglianza relativa al trattamento sanzionatorio per il fatto che il giudice avrebbe ingiustificatamente escluso le attenuanti generiche e calcolato un aumento per la contestata recidiva specifica reiterata infra-quinquennale. Invero la pena è stata determinata, pur illegittimamente ma a favore del condannato, nel minimo impossibile, una volta correttamente esclusa la meritevolezza della concessione delle generiche “per la personalità negativa dell’imputato desunta oltre che, dalle modalità della condotta dalla pessima biografia penale” dell’imputato, ed ancora una volta correttamente non applicando l’aumento di pena per la contestata recidiva perché ritenuta equivalente alla attenuante della speciale tenuità del danno, ma scorrettamente determinata per l’omesso aumento per la continuazione sulla pena base del reato di rapina aggravata ex art. 628 comma 3 bis c.p., così individuata per il disposto del quarto comma dell’art. 628 cit.
Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto, deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille euro alla cassa delle ammende.

Redazione