Non è risarcibile il presunto “tempo perso” dall’avvocato a causa dei disservizi della giustizia (Cass. n. 21725/2012)

Redazione 04/12/12
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Svolgimento del processo

1. L’avv. N.M.S. conveniva in giudizio il Ministero della giustizia, davanti al Tribunale di Milano, per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni – determinati, in via indicativa, in circa 458.000 euro – asseritamente subiti a causa dei sistematici disservizi degli uffici di cancelleria e degli ufficiali giudiziari, dovuti a carenze organizzative, che lo avevano costretto a lavorare in condizioni di estremo disagio, sacrificando un’incalcolabile quantità di tempo, anche nei giorni festivi, per lo svolgimento di adempimenti che altri avrebbero dovuto compiere qualora vi fosse stato un normale funzionamento degli uffici.
Il Tribunale rigettava la domanda, compensando le spese.
2. La sentenza veniva appellata dall’avv. S., e la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 3 giugno 2010, rigettava il gravame, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.
3. L’avv. S. propone ricorse avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, con atto affidato a due motivi.
Resiste il Ministero della giustizia con controricorso, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato.

Motivi della decisione

Occorre preliminarmente rilevare che il ricorrente ha provveduto a notificare il ricorso, in data 11 novembre 2010, al Ministero della giustizia per il tramite dell’Avvocatura distrettuale dello Stato di Milano. Tale notifica, benché affetta da nullità ai sensi dell’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, è stata sanata, con effetto ex tunc, dall’atto di costituzione del Ministero della giustizia, avvenuto a mezzo di controricorso con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato. In simile ipotesi, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (sentenze 14 ottobre 2005, n. 20000, e 27 aprile 2011, n. 9411), l’Avvocatura dello Stato è legittimata a costituirsi anche dopo il decorso del termine di cui all’art. 370 cod. proc. civ., come nella specie si è verificato (il controricorso, infatti, è stato spedito per la notifica, a mezzo posta, in data 1° aprile 2011).
Va tuttavia osservato che la notifica del controricorso è affetta da nullità, poiché non sono state rispettate le disposizioni in tema di notifica a mezzo posta. Risulta dall’originale della cartolina, depositata presso questa Corte in data 3 giugno 2011, che detta notifica, indirizzata allo studio del domiciliatario del ricorrente in Roma, Avv. I., ********* (omissis), è stata consegnata dall’agente postale, il 6 aprile 2011, al portiere dello stabile, in assenza del destinatario e di persone abilitate alla ricezione degli atti.
Simile notifica, rispondente al meccanismo originario di cui all’art. 7, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (v., sul punto, Cass., 15 marzo 2007, n. 6021), non può più considerarsi valida alla stregua della modifica introdotta dall’art. 36, comma 2-quater, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 249, convertito, con modificazioni, nella legge 8 febbraio 2008, n. 31. Tale disposizione ha aggiunto un ulteriore (ultimo) comma nel citato art. 7, secondo cui, se il piego «non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata». Ciò in quanto il legislatore, evidentemente, poiché l’atto da notificare non viene, in questo caso, consegnato materialmente al portiere dall’ufficiale giudiziario, bensì dall’agente postale, ha creduto opportuno introdurre un ulteriore sistema di garanzia per il destinatario.
A norma del citato art. 36, comma 2-quinquies, detta novità si applica ai procedimenti di notifica effettuati, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 248 del 2007 (1° marzo 2008). Ne ­consegue che la notifica dell’odierno controricorso, al quale si applica la novità normativa, non avendo rispettato tale previsione, è affetta da nullità (v., in relazione ai limiti di applicabilità del regime precedente, la sentenza 15 settembre 2008, n. 23589).
Tanto premesso, occorre procedere all’esame del merito del ricorso.
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, oltre a violazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 23 della Costituzione.
Osserva il ricorrente che la sentenza impugnata non ha fatto alcun cenno «alle documentate situazioni di grave emergenza e disservizio rappresentate in atti» e non si è neppure soffermata ad esaminare le singole e non omogenee voci di danno che erano state richieste con l’atto introduttivo del giudizio. Nel caso in esame, infatti, non è in discussione il fatto che le spese sostenute dall’avvocato verranno poste a carico del cliente; si tratta, invece, di stabilire la risarcibilità dei danni causati al professionista «dai colpevoli e gravi disservizi verificatisi nell’Amministrazione giudiziaria». Gli aggravi notevoli, in termini di tempo e di energie, che tali disservizi pongono in capo all’avvocato non sono retribuibili e non sono neppure eludibili, traducendosi in una prestazione patrimoniale illegittima ai sensi dell’invocata norma costituziona1e.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, oltre a violazione degli artt. 2697 e 2059 cod. civ. e degli artt. 2, 3, 13, 32, 36 e 97 della Costituzione.
Osserva il ricorrente che la sentenza in esame non ha tenuto in adeguata considerazione che le disorganizzazioni del sistema giudiziario fanno sì che l’aumento dell’impegno lavorativo dell’avvocato non è comunque in grado di fronteggiare la situazione che si è creata. Il danno ricevuto, quindi, ha i connotati del danno ingiusto risarcibile, in quanto i diritti della persona, costituzionalmente garantiti, devono comunque ricevere una tutela diretta; il tempo libero, necessario per il recupero delle energie fisiche e psichiche, è divenuto oggettivamente un problema, determinando una situazione in cui «la persona vive essenzialmente per lavorare». E simile lesione, ovviamente, non potrà mai essere recuperata in sé, per cui è necessario che vi si faccia fronte con il risarcimento del danno, anche in via equitativa.
3. I due motivi di ricorso, da trattare congiuntamente, sono entrambi infondati.
La sentenza della Corte milanese ha motivato il rigetto della domanda su due ragioni fondamentali: da un lato, che i costi sostenuti da un avvocato nello svolgimento di un mandato professionale sono, comunque, a carico del cliente; dall’altro, quanto al risarcimento del danno derivante dalla perdita del tempo libero – determinato dall’odierno ricorrente in circa un’ora e mezza al giorno – essa ha rilevato trattarsi di danno non patrimoniale, come tale comunque non risarcibile ai sensi dell’art. 2059 del codice civile.
Le argomentazioni, del giudice di merito appaiono condivisibili, con le seguenti precisazioni.
E’ chiaro che, poiché l’avvocato è un libero professionista, può ben scegliere e decidere la quantità degli impegni che è in grado di gestire in modo ragionevole; ossia egli può dosare, con adeguata organizzazione professionale ed avvalendosi dell’opera di collaboratori, il giusto equilibrio tra lavoro e tempo libero. Gli esborsi che sarà chiamato a sostenere, anche in termini di sacrificio del proprio tempo libero, saranno posti, entro i limiti consentiti dalle tabelle professionali, a carico dei clienti che abbiano chiesto di avvalersi, della sua opera.
Non assume rilievo, quindi, verificare l’entità esatta dei disservizi connessi all’attività di amministrazione della giustizia, né quantificare in modo preciso il numero di ore che un avvocato è costretto ad impiegare nello svolgimento di attività che potrebbero essergli risparmiate in presenza di un sistema più efficiente. Ciò che conta è valutare se tutto ciò possa o meno tradursi in un danno risarcibile.
A questo proposito, il ricorso insiste particolarmente sul profilo dell’eccessivo carico di lavoro che viene a gravare sulle spalle del professionista a causa di tali disservizi, enunciando, tra l’altro, la plastica affermazione, sopra già riportata, per cui «la persona vive essenzialmente per lavorare».
Giova rammentare, in argomento, che questa Corte, con la nota pronuncia a Sezioni Unite 11 novembre 2008, n. 26972, ha insegnato, fra l’altro, che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ., anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: 1) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto abbia rilevanza costituzionale; 2) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; 3) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita o alla felicità.
Sulla scia di tale pronuncia, la successiva sentenza 27 aprile 2011, n. 9422, di questa Sezione, ha riconosciuto che il “tempo libero” non costituisce, di per sé, un diritto fondamentale della persona tutelato a livello costituzionale e sovranazionale, «e ciò per la semplice ragione che il suo esercizio è rimesso alla esclusiva autodeterminazione della persona, che è libera di scegliere tra l’impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, e realizzare il proprio tempo libero da lavoro e da ogni occupazione». Trattandosi, quindi, di un diritto “immaginario”, nei sensi di cui al citato precedente delle Sezioni Unite, esso non può essere fonte di un obbligo risarcitorio in relazione al danno non patrimoniale.
Né, d’altra parte, può giungersi a diverse conclusioni in riferimento alle altre “voci” di danno, cui il ricorrente si richiama soprattutto nel secondo motivo di ricorso, ossia il danno da «perdita di tempo», il danno da mancanza di un «tempo ricreativo dell’organismo e della psiche umana», il danno da «forzata rinuncia a degli spazi temporali della propria esistenza (…) che ciascun individuo ha l’insopprimibile libertà di utilizzare in attività che siano per lui fonte di compiacimento e di benessere». Si tratta, evidentemente, analogamente al preteso «diritto al riposo», di elementi che pur rappresentando elevati valori della vita spirituale – non assurgono al livello di possibile fonte di un danno risarcibile.
4. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, attesa la nullità della notifica del controricorso in precedenza rilevata.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Redazione