Niente risarcimento danni alle casalinghe che hanno altro lavoro a tempo pieno (Cass. n. 5548/2012)

Redazione 05/04/12
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Svolgimento del processo

Con sentenza n. 622 del 20 febbraio 2005 il Tribunale di Treviso – per quanto ancora interessa in questa sede determinava in Euro 1.711.149,87 i danni subiti da P.L. nell’incidente stradale, in cui costei venne coinvolta in data 25.12.1999, mentre era trasportata nell’auto di proprietà e condotta dal marito Z. L., a causa della condotta gravemente imprudente del conducente; condannava, quindi, Z.L. e la compagnia di assicurazione *************** s.p.a. (ora Allianz s.p.a.) al pagamento, in solido, della somma indicata, al netto degli acconti versati, oltre interessi compensativi, nonchè al pagamento delle spese processuali.

La decisione era confermata dalla Corte di appello di Venezia che, con sentenza n. 1629 del 2 ottobre 2009, rigettava l’appello proposto da Z.G., curatore speciale della madre P. L., con condanna dell’appellante al pagamento delle spese del grado.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Z. G., nell’indicata qualità, svolgendo cinque motivi, illustrati anche da memoria.

Ha resistito l’Allianz s.p.a., depositando controricorso e memoria.

Nessuna attività difensiva è stata svolta dagli altri intimati Z.L. e **** (quest’ultima originaria attrice in proprio).

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226, 2043, 2056 e 2697 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente – premesso che il c.t.u. aveva ritenuto congrua, in considerazione della menomazione del 100% dell’integrità psico-fisica e lavorativa subita dalla P., la somma annua di Euro 83.000,00 indicata da parte attrice per spese mediche e di assistenza erogata negli anni precedenti, ritenendo che tali spese fossero prevedibili anche per il futuro – lamenta che il Tribunale di Treviso, prima, e la Corte di appello, dopo, si siano discostati da tale indicazione. Osserva che, per quanto non fosse stata fornita la prova di tutte le spese sostenute, la c.t.u., finalizzata anche all’accertamento delle spese future, assolveva all’onere probatorio incombente sulla parte istante, con la conseguenza che la decisione dei giudici di merito di ricorrere al criterio equitativo contrastava con la norma di cui all’art. 2697 c.c..

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo per il giudizio (artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5). Al riguardo parte ricorrente deduce che i giudici del merito, quand’anche avessero voluto ricorrere al criterio di cui all’art. 1226 c.c., per la liquidazione del danno futuro, avrebbero dovuto farlo con argomentazioni e motivazioni più convincenti e non contraddittorie, tenendo presente, con maggior aderenza a dati desumibili dal notorio, che l’assistenza per 24 h. da parte di una o più persone dotate di nozioni infermieristiche richiede un costo di almeno Euro 7.000,00 al mese, cui andavano aggiunte le spese mediche.

2.1. I due motivi, che sono suscettibili di esame unitario, perchè nella sostanza esprimono un’unica censura, risultano al limite dell’ammissibilità e vanno, comunque, rigettati.

Innanzitutto si rammenta che la consulenza tecnica d’ufficio ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche che egli non possiede, ma non è certo destinata ad esonerare le parti dalla prova dei fatti dedotti e posti a base delle rispettive richieste, fatti che devono essere dimostrati dalle medesime parti alla stregua dei criteri di ripartizione dell’onere della prova previsti dall’art. 2697 c.c. (Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412). Si tratta, dunque, di un mezzo istruttorio sottratto alla disponibilità delle parti, che può costituire fonte oggettiva di prova tutte le volte che opera come strumento di accertamento di situazioni rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche e che, in ogni caso, è rimesso al potere discrezionale del giudice del merito. Questi, nel caso all’esame, per quanto emerge dalle stesse allegazioni di parte ricorrente, aveva dato incarico al consulente di valutare fatti già accertati o, almeno, dati per esistenti e, cioè – pacifica la necessità di spese medico-assistenziali, in considerazione dei postumi gravemente invalidanti subiti dalla P. – di valutare la congruità dell’”elenco” di spese, che si assumevano già effettuate, correlativamente preventivando le spesa future; di modo che appare chiaro che, almeno in parte qua, la consulenza non costituiva fonte di prova, non potendo nè esonerare la parte dall’onere di fornire adeguata dimostrazione degli esborsi effettuati, nè, tantomeno, precludere al giudice il ricorso al criterio equitativo, segnatamente nella valutazione delle spese future, siccome ritenute non esattamente quantificabili nel preciso ammontare.

Resta fermo, invero, che i criteri adottati dal c.t.u. non hanno efficacia vincolante e possono legittimamente essere disattesi attraverso una valutazione critica che sia ancorata alle risultanze processuali, nonchè congruamente e logicamente motivata, dovendo il giudice indicare in particolare gli elementi probatori e quelli logico-giuridici ed i criteri di valutazione ritenuti idonei a giustificare una decisione contrastante con il parere del c.t.u.: il che, nel caso all’esame, i giudici di appello hanno fatto puntualmente, evidenziando, da un lato, l’incompletezza della prova fornita da parte attrice e, dall’altro, l’inclusione nell’”elenco” redatto dalla stessa parte di diverse spese (quali luce, gasolio, telefono, indicate, tra l’altro, senza esporre neppure il criterio di calcolo) che non potevano pacificamente essere ricondotte alle esigenze della sola P. e, correlativamente, rimarcando la correttezza del criterio equitativo adottato dal Tribunale.

Parte ricorrente si limita in buona sostanza ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dai giudice del merito, omettendo, peraltro, di confrontarsi con le argomentate ragioni della decisione, sicchè, sotto questo profilo, le censure all’esame peccano anche di aspecificità.

In definitiva, al di là del surrettizio richiamo alla violazione di legge e al vizio di motivazione, i motivi in questione non si risolvono altro che in una richiesta di riesame delle risultanze fattuali, al fine – incompatibile con i limiti morfologici e funzionali del giudizio di Cassazione – di ridiscutere le opzioni espresse dal giudice del merito, non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre aderenti alle proprie richieste.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione di una norma di legge (R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 – art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che, ai fini della capitalizzazione delle spese future, sia stato seguito il criterio di attualizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922, il quale – come da giurisprudenza di questa Corte – avrebbe richiesto dei correttivi in considerazione del fatto che la tabella dei coefficienti per la costituzione delle rendite vitalizie venne realizzata applicando l’interesse del 4,5 % e che da quella data la vita umana si era allungata di oltre 30 anni.

3.1. Il motivo riguarda il punto della decisione impugnata, con il quale la Corte di appello ha confermato la correttezza del criterio tabellare di capitalizzazione anticipata, cui aveva fatto ricorso il Tribunale, trattandosi di criterio condiviso anche da questa Corte (sentenza n. 1484 del 1994), la cui integrazione o correzione è rimesso al potere equitativo del giudice, previa adeguata motivazione sul punto.

3.2. Il motivo, proposto sotto il profilo della violazione di legge, è inammissibile, in primo luogo, per l’erronea individuazione della tipologia di vizio, che avrebbe dovuto essere proposto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, e, in secondo luogo, per difetto di autosufficienza.

Sotto il primo profilo si osserva che la liquidazione del danno futuro, inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssìmatività e condotta con criterio equitativo, costituisce attività di stretto merito, suscettibile, in quanto tale, di sindacato in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, sempre che difetti totalmente la giustificazione che la sorregge ovvero macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria. Orbene, lungi dal prospettare un vizio di tale fatta, parte ricorrente deduce violazione del R.D. n. 1403 del 1922.

Sotto il secondo profilo si osserva che parte ricorrente, da un lato, omette di indicare e specificare il calcolo effettuato dal giudice del merito, dall’altro, neppure allega di avere offerto allo stesso giudice elementi concreti che, avuto riguardo alla peculiarità della fattispecie, potessero diversamente orientare la liquidazione e capitalizzazione delle spese future.

4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia error in procedendo per omessa pronuncia su un motivo di appello con conseguente nullità della sentenza relativamente al punto (art. 112 c.p.c., – art. 360 c.p.c., n. 4). Al riguardo parte ricorrente deduce che la Corte di appello, relativamente alla liquidazione del danno da perdita totale della capacità lavorativa specifica, non ha neppure preso in considerazione la doglianza, concernente l’applicazione da parte del Tribunale dei coefficienti di capitalizzazione di cui al cit. R.D. n. 1403 del 1922, senza i necessari correttivi.

4.1. Il motivo è infondato, dal momento che la Corte di appello ha risposto sul punto. Invero – posto che il motivo di appello si risolveva, come riferisce la stessa parte ricorrente, in una censura sostanzialmente identica a quella svolta con riguardo alla capitalizzazione delle spese medicoassistenziali future – occorre dire che le argomentazioni svolte nella decisione impugnata con riguardo ai criteri di attualizzazione adottati dal Tribunale non risultano in alcun modo circoscritte alle spese, apparendo riferibili all’unica sostanziale censura dell’appellante.

5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2, e degli artt. 4 e 37 Cost., (art. 360 c.p.c., n. 3). Al riguardo parte ricorrente lamenta che la Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, abbia escluso il danno da perdita della capacità di lavoro come casalinga, sul presupposto che mancasse la prova che la P. svolgesse anche detta attività. A parere di parte ricorrente i giudici del merito avrebbero potuto far ricorso al notorio, considerato che nelle famiglie italiane è talmente usuale che tale ruolo sìa affidato alla donna, che dovrebbe essere l’eccezione a richiedere la dimostrazione.

5.1. Il motivo va rigettato.

Invero questa Corte, nel riconoscere la risarcibilità del pregiudizio rappresentato dalla riduzione o perdita della capacità lavorativa della casalinga, non ha omesso di rimarcare l’esigenza della relativa prova, ancorchè non rigorosa, trattandosi di danno patrimoniale futuro (cfr. Cass. 20 luglio 2010, n. 16896), segnatamente evidenziando con riguardo al caso, come quello che ci occupa, che la parte danneggiata svolga anche attività lavorativa retribuita alle dipendenze di terzi o lavoro autonomo (o attività similare), che occorre tener conto dell’incidenza di ciò in termini di riduzione dell’attività di assistenza e cura dei familiari, da stabilire nella sua entità secondo il prudente apprezzamento del giudice con riferimento alle peculiarità della fattispecie concreta (Cass. 12 settembre 2005, n. 18092) e precisando, altresì, che a tal fine è necessario che si fornisca la prova sia della compatibilità del contestuale esercizio di quest’altra attività con quella di casalinga, sia dell’effettivo espletamento di quest’ultima, la quale non si esaurisce nel compimento delle sole faccende domestiche, ma si concreta nel coordinamento lato sensu dell’intera vita familiare (Cass. 30 novembre 2005, n. 26080).

Orbene la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei suindicati principi, allorchè ha evidenziato il carattere assorbente dell’attività lavorativa che, per otto ore al giorno, pacificamente impegnava la P. fuori dell’ambito domestico, osservando che in siffatta situazione la circostanza che la danneggiata si dedicasse effettivamente anche all’attività di casalinga non poteva darsi affatto per scontata, nessuna prova risultando offerta o dedotta sul punto.

Anche il presente motivo si infrange, dunque, nella considerazione, già svolta per i precedenti, della surrettizieta del richiamo al vizio di violazione di legge, laddove, nella sostanza, oggetto delle censure mosse alla pronuncia di secondo grado non è altro che una inammissibile richiesta di rivisitazioni di valutazioni di stretto merito.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.200,00 (di cui Euro 200,00 per spese) oltre rimborso spese generali e accessori come per legge.

Redazione