Nessuno sconto di pena al condannato ex art. 416-bis se le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono discordanti (Cass. pen., n. 43317/2013)

Redazione 23/10/13
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Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale della medesima città in data 14 marzo 2011, appellata da F.F., ha ridotto la pena allo stesso comminata ma ha confermato il giudizio di penale responsabilità per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., determinando in anni 10 la pena complessivamente inflitta all’imputato.

2. Ricorre per cassazione, assistito dai suoi difensori, l’imputato:

presentando due ricorsi in cui sono articolati i seguenti motivi. – Violazione ed erronea applicazione dell’articolo 649 del codice di procedura penale, nonchè vizio di motivazione, per avere la Corte d’appello respinto la censura, ampiamente argomentata nei motivi di impugnazione, volta a sottolineare l’evidente violazione del principio del ne bis in idem perpetrata attraverso l’imputazione e la successiva condanna del ricorrente per il reato di cui all’articolo 416 bis del codice penale. Infatti, l’imputato sarebbe stato già giudicato e condannato con sentenza della stessa Corte di appello del 22 febbraio 2010 per lo stesso delitto con riguardo ai medesimi fatti di causa.

In quel processo il Tribunale, preso atto del compendio istruttorio – e in particolare delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – dal quale sarebbero emerse condotte associative successive al 15 maggio 2002 (data portata come conclusiva delle condotte contestate nel capo d’imputazione posto a base di quel processo); considerato altresì che non si era verificata una modifica dell’imputazione da parte del Pubblico ministero per le condotte successive a detto 15 maggio 2002, dispose la trasmissione degli atti della Procura della Repubblica competente ai sensi dell’art. 521 c.p.p., comma 2, dando origine a questo processo.

Rileva tuttavia l’imputato che dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia non sarebbero emerse in nessun modo condotte associative collocabili nel segmento temporale successivo al 15 maggio 2002.

Passando in rassegna le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia – D.G.M., V.G.S., M.P. – in via generale si premette come le stesse non risultino utilizzabili nel processo per carenza dei necessari presupposti di legge dati dalla intrinseca credibilità, dalla presenza di riscontri esterni, dalla sufficiente precisione del narrato, dalla insussistenza di elementi di contraddittorietà.

Quanto alle dichiarazioni di D.G.M., si osserva che lo stesso si sarebbe limitato a riferire di non aver mai avuto rapporti diretti con l’imputato, precisando di essersi relazionato soltanto indirettamente con lui (attraverso il fratello dello stesso D. G.), con riguardo ad un non meglio precisato fatto estorsivo in danno di una impresa operante nella zona di (omissis), fatto di cui nemmeno risultano chiari i riferimenti temporali.

Invece le dichiarazioni di V.G.S. sarebbero inutilizzabili per eccessiva genericità; si sottolinea inoltre come nella sentenza del GUP del Tribunale di Palermo del 31 luglio 2007, divenuta definitiva, è stata negata al collaboratore la concessione delle attenuanti della collaborazione; il che avrebbe dovuto comportare ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p. la conclusione sulla inattendibilità del V.. Quando infine alle propalazioni di M.P., si segnala come la stessa Corte di appello le abbia qualificate prive di precisi riscontri individualizzati.

Con un ulteriore motivo si contestano violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, avendo la Corte di appello ritenuto la sussistenza di tali aggravanti, concernenti la disponibilità di armi e l’obiettivo di reinvestire i proventi illeciti per acquisire il controllo di attività economiche, attraverso la loro immediata riferibilità alla organizzazione di Cosa Nostra, senza in alcun modo verificare le condotte dell’odierno imputato: e ciò in ragione del cosiddetto carattere oggettivo delle aggravanti medesime in quanto riferite alla associazione denominata “Cosa Nostra”. In tal modo i giudici non hanno minimamente appurato nè la sussistenza di dette aggravanti con riguardo alla specifica consorteria mafiosa in cui l’imputato sarebbe stato inserito e nemmeno la sussistenza della consapevolezza o meno da parte del ricorrente circa l’eventuale possesso di armi in capo alla consorteria e l’eventuale perseguimento da parte della stessa della finalità del reimpiego dei proventi illeciti per acquisire il controllo di attività economiche: limitandosi alla generica constatazione che tali caratteristiche sarebbero proprie della associazione mafiosa in quanto tale.

Infine, si contestano vizio di motivazione, violazione ed erronea applicazione dell’art. 62 bis e 133 c.p. per non avere la Corte di appello adeguatamente considerato nè l’evidente genericità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nè il positivo comportamento processuale dell’imputato, nè l’intensità del dolo:

concludendo che il F. sarebbe meritevole di un trattamento sanzionatorio più mite, caratterizzato anche dalla concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.

2. In premessa, conviene ribadire che – per giurisprudenza pacifica di questa Corte – in tema di valutazione della chiamata in reità o correità in sede cautelare, le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato integrano i gravi indizi di colpevolezza soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da assumere idoneità dimostrativa in ordine all’attribuzione del fatto reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell’oggetto della delibazione cautelare, preordinata a un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell’imputato (Cass. Sez. Un 19.1.06, n. 36267; Cass. Sez. 1, 1.4.10, n. 19517).

Nel caso di convergenza di dichiarazioni accusatorie, i parametri valutativi della reciproca attendibilità vanno individuati nella contestualità, autonomia, reciproca non conoscenza, convergenza almeno sostanziale, nonchè in tutti quegli elementi idonei ad escludere fraudolente concertazioni ed a conferire a ciascuna chiamata i connotati di reciproca autonomia, indipendenza ed originalità; le eventuali discordanze su alcuni punti possono, in taluni casi, addirittura attestare la reciproca autonomia delle varie dichiarazioni in quanto fisiologiche per la disarmonia normalmente presente in racconti di soggetti diversi (Cass., sez. 11 sent. n. 2328 del 14.4.1995, dep. 31.5.1995 rv 201294) e “… la eventuale sussistenza … di smagliature e discrasie, anche di un certo peso, rilevabili tanto all’interno di dette dichiarazioni quanto nel confronto tra di esse, non implica, di per sè, il venir meno della sostanziale affidabilità quando, sulla base di adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza nei rispettivi nuclei fondamentali …” (Cass. sez. 6^ sent. n. 6422 del 18.2.1994 dep. 1.6.1994 rv 197854), mentre “… l’esigenza di convergenza e di concordanza fra le dichiarazioni accusatorie provenienti da diversi soggetti… in funzione di reciproco riscontro tra le dichiarazioni stesse, non può essere spinta al punto da pretendere che queste ultime siano totalmente sovrapponibili fra di loro, in ogni particolare spettando, invece pur sempre al Giudice il potere-dovere di valutare, dandone atto in motivazione, se eventuali discrasie possano trovare plausibile spiegazione in ragioni diverse da quelle ipotizzabili nel mendacio di uno o più fra i dichiaranti …” (Cass. sez. 1 sent. n. 1489 del 6.4.1993, dep. 11.5.1993 rv 193984). Il riscontro incrociato non implica la necessità di una totale sovrapponibilità delle dichiarazioni “… la quali, anzi, a ben vedere potrebbe costituire … fonte di sospetto …, dovendosi, al contrario, ritenere necessaria solo la concordanza sugli elementi essenziali del thema probandum fermo restando il potere – dovere del giudice di esaminare criticamente gli eventuali elementi di discrasia, onde verificare se gli stessi siano a meno rivelatori di intese fraudolente o, quantomeno, di suggestioni o condizionamenti, di qualsivoglia natura, suscettibili di inficiare il valore della suddetta concordanza …”. (Cass. sez. 1^ sent. n. 3070 del 20.2.1996 dep. 26.3.1996 rv 204294).

3. Nel provvedimento impugnato il Tribunale prima e la Corte di appello successivamente hanno deciso dimostrando un buon governo degli esposti principi, come può evincersi dalle osservazioni che seguono con riguardo ai ricorsi presentati.

Nella sentenza impugnata la Corte di appello ha preliminarmente ricordato la pacifica natura permanente del reato in contestazione; l’essersi il precedente giudizio arrestato alla verifica delle condotte al (omissis) senza in nessun modo prendere in considerazione e giudicare condotte successive a quella data (essendosi limitati i giudici di merito alla restituzione degli atti al Pubblico mistero perchè si procedesse separatamente e con un nuovo processo); l’essersi sin dall’inizio comunque accertata in via definitiva la partecipazione dell’imputato a Cosa Nostra (in particolare alla articolazione operante nel territorio agrigentino di (omissis)), e ciò attraverso l’utilizzo delle dichiarazioni dei citati collaboratori di giustizia, sottoposti a verifica sulla intrinseca credibilità, precisione e concordanza delle dichiarazioni nonchè sulla sussistenza di riscontri incrociati in tutti i gradi di giudizio resisi necessari a seguito delle impugnative espletate; l’essersi il precedente giudizio definito con il passaggio in giudicato della sentenza.

In secondo luogo, la Corte territoriale ha rinviato alla decisione già coperta da giudicato sia la descrizione dei profili dei collaboranti di giustizia sia le argomentazioni relative alla loro credibilità generale, facendo proprio tutto ciò attraverso detto richiamo e invece concentrandosi sulle specifiche criticità rilevate nei motivi di appello e oggi versate nei motivi di cassazione.

Sulle dichiarazioni rese da D.G.M., i giudici hanno osservato come lo stesso abbia puntualmente riferito di essersi relazionato con il F. dopo l’arresto del di lui fratello S., arresto avvenuto nel luglio del 2002; come abbia inoltre precisato che i rapporti tra lui e l’imputato furono tenuti da d.G.R., fratello del collaboratore; come abbia puntualizzato che l’odierno imputato era divenuto il gestore del mandamento di (omissis) a partire dal luglio del 2002; come abbia precisato di aver condotto personalmente la gestione delle attività illecite, e in particolar estorsive, della consorteria mafiosa al fine di non far esporre eccessivamente l’odierno imputato, già sotto osservazione da parte delle forze dell’ordine. La Corte territoriale ha peraltro opportunamente sottolineato come questi racconti siano assolutamente lineari con il coinvolgimento dell’odierno imputato nel racket delle estorsioni operanti in zona, stabilito con accertamento ormai coperto dal giudicato; ha infine logicamente valorizzato il racconto del collaborante su uno specifico episodio estorsivo realizzato su ordine dell’odierno imputato sempre in data successiva al maggio 2002, riferendo pure gli ulteriori elementi a riscontro tra i quali una dichiarazione de relato di D.G.B., il quale ha riferito di aver appreso dal fratello M. e da altro killer dell’organizzazione il ruolo attivo in essa ricoperto dall’odierno imputato successivamente all’anno 2002.

Il tutto – giova precisare – con dettagliata motivazione svolta da pagina 15 a pagina 19 della sentenza impugnata: motivazione non presa in considerazione nei ricorsi in esame.

Sulle dichiarazioni rese da V.G.S., volte a coprire per intero l’anno 2002, la Corte d’appello rileva come valgano non solo a confermare pienamente le dichiarazioni del precedente collaboratore di giustizia, ma forniscano anche un autonomo contributo circa il ruolo dell’odierno imputato come successore del fratello incarcerato nel ruolo di responsabile della consorteria mafiosa in questione. La Corte di appello ha cura di argomentare attentamente sul motivo di appello oggi riproposto in cassazione circa la mancata concessione della circostanza attenuante della collaborazione precisando (con argomentazione non sottoposta a critica nei ricorsi in esame) come, dalla lettura della sentenza del GUP di Palermo in data 30 luglio 2007 emerga che il diniego del riconoscimento della circostanza attenuante deriva non dalla mancata credibilità del teste, invece in detta sede riaffermata, ma dalla constatazione di talune lacune dichiarative che non consentivano di concedere, oltre alle attenuanti generiche, anche la speciale attenuante in discorso.

Sulle dichiarazioni rese da M.P., ribadito il giudizio di attendibilità del collaborante come già sancito in sentenze divenute irrevocabili, la Corte di appello elenca a pagina 22 gli episodi narrati da detto collaborante circa l’attività mafiosa svolta nella consorteria di Santa Elisabetta dall’odierno imputato, che ancora all’inizio del 2006 impartì al collaborante l’ordine di bruciare un escavatore di un tale R..

Precisa la Corte di appello che sebbene tali dichiarazioni siano prive di precisi riscontri individualizzante in ordine agli specifici episodi criminosi narrati, le stesse forniscono comunque una coerente conferma del ruolo dinamico e funzionale svolto dall’odierno imputato nella consorteria mafiosa anche in un periodo di gran lunga successivo a quello del 15 maggio 2002; fornendo con ciò un importante e anzi decisivo riscontro alle ulteriori dichiarazioni raccolte in atti e delle quali già si è detto.

La Corte territoriale ha pure cura di rispondere alla obiezione difensiva secondo cui oltre a dette dichiarazioni non sarebbero emerse condotte imputabili al F. nonostante le attività di indagine svolte sul territorio e che portarono all’arresto del fratello del F.; argomenta infatti logicamente la Corte che ciò può trovare plausibile giustificazione nella posizione di minore visibilità assunta soprattutto all’esterno dell’organizzazione da F.F. e dall’essersi già esposto per suo conto il collaboratore D.G., come lui stesso ha riferito.

Quanto alle contestazioni relative alle aggravanti contemplate dall’art. art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, la Corte di appello richiama la giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che ritenga sussistenti le aggravanti in oggetto in quanto riferibili alla associazione denominata Cosa Nostra di cui è provato che gli imputati siano partecipi, in quanto – insiste la corte di appello nella motivazione impugnata – è tipico dell’essenza stessa dell’associazione Cosa Nostra, per come storicamente accertato, di fare uso di armi e di reimpiegare i proventi delle attività illecite per il controllo delle attività economiche in essere sul territorio (in tal senso è stato deciso che l’aggravante della disponibilità delle armi di cui all’art. 416-bis c.p., comma 4, quando il delitto associativo sia contestato agli appartenenti di una “famiglia” mafiosa aderente all’organizzazione denominata “cosa nostra”, anche nel caso in cui la disponibilità delle armi sia provata a carico di un solo appartenente: Cass. sez. 6, 8.3.2012, n. 11194). Argomenta, dunque, in conclusione la Corte come la strutturata intraneità dell’odierno imputato in detta associazione, intraneità protrattasi per lunghi anni e caratterizzata per parte di essi da un ruolo centrale ricoperto dall’imputato in una precisa articolazione dell’organizzazione, non potrebbe mai portare ad un giudizio di incolpevole ignoranza da parte dell’imputato di queste caratteristiche oggettive e qualificanti e a tutti note della organizzazione di Cosa Nostra.

Ma, per di più, la Corte di appello chiarisce come tali caratteristiche dell’associazione Cosa Nostra siano state già accertate in sede giudiziaria con riguardo alle consorterie agrigentine; e, in particolare, nel processo per cui l’odierno imputato ha riportato la condanna definitiva per il reato associativo commesso fino al (omissis). A tal fine richiama elementi specifici e direttamente riferibili all’imputato, ricordando come lo stesso abbia riportato una condanna definitiva in ordine al coinvolgimento dei componenti della cosca di (omissis) nel possesso di armi micidiali e nella consumazione di gravissimi fatti di sangue non solo in Sicilia ma anche in Belgio, e come siano anche emerse in tali occasioni processuali prove inconfutabili relative al reinvestimento nel controllo di attività economiche dei proventi illeciti maturati dalla associazioni mafiose operanti nel territorio agrigentino – e comandate da F.S. e L., rispettivamente padre e zio dell’odierno imputato – ciò che si sottolinea soprattutto con riguardo al settore dei subappalti. Circa i motivi sul trattamento sanzionatorio, comunque ritenuto eccessivo, e sul diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, deve rilevarsi che il giudice d’appello, con motivazione congrua ed esaustiva, anche previo specifico esame degli argomenti difensivi attualmente riproposti, è giunto a una valutazioni di merito come tale insindacabile nel giudizio di legittimità, quando – come nel caso di specie – il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (Cass. pen. sez. un., 24 novembre 1999, *****, 214794), rilevando in particolare l’eccezionale intensità del dolo, essendo rimasto l’imputato a ricoprire il proprio ruolo nella associazione mafiosa nonostante l’arresto del fratello e degli altri sodali a lui più vicini; e valutando la non concedibilità delle circostanze attenuanti generiche nonostante la giovane età per la valenza assolutamente trascurabile di simili dati rispetto alla gravità notevolissima delle condotte poste in essere.

4. Ne consegue il rigetto dei ricorsi e, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2013.

Redazione