Nessun reato di diffamazione per la denuncia in “forma dubitativa” di “situazioni oscure” da parte del giornalista (Cass. n. 9337/2013)

Redazione 27/02/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione M.L. e ********, quali parti civili nel procedimento iscritto a carico di G.J. e J.B., concluso, nelle fasi di merito, con sentenza di assoluzione dal reato di diffamazione in concorso, commesso il (omissis).

G. era stata accusata di avere, quale autrice e conduttrice del programma televisivo intitolato “(omissis)”, offeso la reputazione di M.P., nella qualità di Presidente della Casa Olearia Italiana S.p.A., consentendo la messa in onda di una frase ritenuta lesiva della reputazione del querelante, pronunciata fuori campo da ***** Costui, curatore del servizio di intervista a M.L., aveva cioè detto: “senza giri di parole si sospetta proprio della più grande raffineria italiana di Monopoli: abbiamo girato la domanda al Presidente”.

Il Tribunale di Brindisi – sezione distaccata di Ostuni – aveva assolto gli imputati perchè il fatto non costituisce reato, riconoscendo in loro favore la causa di giustificazione del diritto di critica nella forma putativa e cioè ritenendo che avessero agito nella convinzione che quel sospetto fosse fondato.

La Corte d’appello di Lecce, adita dalle parti civili, ha confermato il giudizio di primo grado.

Deducono le parti civili: la violazione dell’art. 597 c.p.p. e art. 595 c.p. e il vizio di motivazione.

Ad avviso dei ricorrenti il servizio giornalistico televisivo in questione aveva leso la reputazione della società Casa olearia italiana e del suo Presidente, attraverso un collage di interviste e dichiarazioni assai suggestivo nell’instillare nel telespettatore la convinzione che la ditta, all’epoca dei fatti, fosse autrice di sofisticazioni dell’olio extravergine di oliva.

Era indubbio, in quanto sostanzialmente ricavabile dalla analitica esposizione dei fatti contenuta nella sentenza di primo grado, che il montaggio delle interviste e delle dichiarazioni, nonchè delle inquadrature, così come realizzato nei servizio, inducesse alla conclusione di cui sopra pur in assenza di qualsivoglia elemento che potesse essere oggettivamente riferito allo stabilimento diretto del querelante: lo stesso giudice era infatti pervenuto alla conclusione che sussistesse l’elemento oggettivo del reato. Aveva tuttavia ritenuto operativa la causa di giustificazione del diritto di critica nella forma putativa, osservando che la buona fede degli imputati appariva possibile.

Tuttavia la Corte d’appello, adita dalle sole parti civili sul punto della esimente putativa, aveva motivato ultra petita, evidenziando addirittura l’assenza di portata diffamatoria della trasmissione in quanto in essa non era stata attribuita allo stabilimento del querelante la produzione e vendita di olio sofisticato, ma era stato soltanto elevato un sospetto in tal senso.

E tale sospetto era stato ricavato addirittura dalle stesse parole dell’intervistato nonchè querelante M.L. che aveva negato che l’olio di nocciole, mischiato quello di oliva, potesse risultare un prodotto non buono.

In tal modo la Corte d’appello aveva deciso su un tema non devolutole e coperto da preclusione processuale.

In secondo luogo la difesa contestava la logicità dell’assunto dei giudici di appello i quali avevano accreditato la tesi che la trasmissione avesse soltanto inteso inoculare un sospetto mentre l’esito della sua visione era quello della certezza della sofisticazione alimentare, attribuita all’azienda che vendeva all’estero e che veniva fatta erroneamente apparire presieduta da M.L. (essendo diretta invece da M. P.), autore delle suddette dichiarazioni. In sostanza, si trattava di fare applicazione della giurisprudenza secondo cui anche le espressioni dubitative, le insinuazioni o le prospettazioni alternative dei fatti non consentono di applicare la scriminante dell’esercizio di critica poichè sono mancanti del requisito della verità dei fatti esposti. Anche l’operazione della messa in onda della intervista a M.L., tagliata per far risaltare la sola frase di cui sopra, faceva uno scorretto servizio alla verità della notizia.

In data 7 dicembre 2012 – per la udienza del 12 dicembre – è stata depositata una memoria nell’interesse degli imputati, con la quale si chiede, tra l’altro, la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi delle parti civili, non contenente la specificazione degli effetti di carattere civile, che da essi, quelle si attendono.

I ricorsi sono infondati e devono essere rigettatati.

Occorre in primo luogo dare atto della evidente infondatezza della richiesta contenuta nella memoria di replica degli imputati, tenuto conto che, a pag. 1 del ricorso, si legge senza ombra di equivoci che le parti ricorrenti hanno chiesto il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno materiale e morale subito, così risultando perfettamente in linea anche con la più rigorosa giurisprudenza di legittimità che pretende, per la ammissibilità del ricorso della parte civile, che la sua richiesta, in sede di impugnazione, faccia riferimento specifico e diretto agli effetti di carattere civile che si intendono conseguire (N. 7241 del 1999 Rv. 213698, N. 11863 del 2003 Rv. 225023, N. 897 del 2004 Rv. 227966, N. 9374 del 2005 Rv. 233888, N. 5072 del 2006 Rv. 233273, N. 35224 del 2007 Rv. 237399, N. 25525 del 2008 Rv. 240646, N. 9072 del 2010 Rv. 246168).

Deve poi darsi atto, dal punto di vista delle parti ricorrenti, della manifesta infondatezza della doglianza con la quale esse eccepiscono la violazione dell’articolo 597 cpp ossia del principio devolutivo, dovuta al fatto che la Corte d’appello, investita dalla parte civile appellante sul solo punto della (in)sussistenza della già riconosciuta causa di giustificazione, avrebbe affermato l’insussistenza, a monte, dell’elemento oggettivo della fattispecie contestata.

Invero, va osservato, in linea generale, che l’articolo 129 comma 1 cpp prevede ed anzi impone al giudice il quale, in qualsiasi stato e grado del processo, riconosca che il fatto non sussiste, di dichiararlo anche d’ufficio con sentenza: una evenienza che nel caso di specie, sulla base del materiale già acquisito e nel contraddittorio delle parti, ben avrebbe potuto essere resa operativa.

Ad ogni buon conto non può non evidenziarsi che, nel caso in esame, la motivazione adottata a sostegno della sentenza impugnata non ha comportato un mutamento sostanziale del ragionamento seguito dal primo giudice, come si ricava innanzitutto dalla circostanza che la insussistenza del reato non è proclamata nè nel dispositivo, nè nella motivazione.

In questa, si legge che la trasmissione televisiva incriminata non ha mandato in onda la notizia che lo stabilimento oleario riferibile alle parti civili vendesse come olio extravergine d’oliva un olio mescolato a quello di nocciole, ma ha esposto il – peraltro motivato ed argomentato – sospetto che lo facesse.

In altri termini, il giudice dell’appello ha, con tali osservazioni, inteso superare la questione posta dalla difesa circa l’ampiezza del dovere di controllo sulla verità della notizia, incombente sul giornalista, evidenziando che, nella specie, la trasmissione si era mossa, piuttosto, nell’ambito del diritto di critica mediante un servizio di denuncia di situazioni oscure, rivolto, tra l’altro, agli organi dello Stato deputati ai relativi chiarimenti e cioè alla magistratura e ai titolari dei poteri normativi.

In altri termini, la Corte d’appello non ha affatto escluso che il contenuto della trasmissione potesse produrre effetti indiretti e negativi sulla reputazione dello stabilimento oleario dei querelanti, ed in tal senso è errata l’affermazione del difensore secondo cui sarebbe stata negata lo offensività della condotta degli imputati e, in definitiva l’elemento oggettivo del reato.

Piuttosto, la Corte territoriale ha evidenziato come lo scopo primario del servizio fosse stato quello di segnalare il fenomeno della sofisticazione dell’olio di oliva sul territorio pugliese e di evidenziare i dati obiettivi- compreso quello costituito dalla intervista ad uno dei principali protagonisti della produzione, M.L. – a sostegno del rilievo che la questione non fosse per nulla infondata. Con tali notazioni deve ritenersi risolto, sfavorevolmente ricorrenti, anche il secondo profilo dell’unico motivo di ricorso.

La difesa evoca la giurisprudenza secondo cui, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la pubblicazione di una notizia falsa ancorchè espressa in forma dubitativa, può ledere l’altrui reputazione allorchè le espressioni utilizzate nel contesto dell’articolo siano ambigue, allusive, insinuanti ovvero suggestionanti, e perciò idonee ad ingenerare nella mente del lettore il convincimento della effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati (Sez. 5, Sentenza n. 45910 del 04/10/2005 Ud la corte d’appello ha infatti (dep. 19/12/2005) Rv. 233039; conforme Sez. 5, Sentenza n. 6062 del 04/04/1995 Ud. (dep. 25/05/1995) Rv. 201762).

Tuttavia la stessa difesa trascura di apprezzare la condizione alla quale è subordinata, dalla stessa giurisprudenza, l’operatività del principio enunciato e cioè che l’indagine sulla concreta capacità offensiva delle espressioni ambigue e insinuanti è rimessa al giudice di merito e se giustificata da adeguata motivazione è incensurabile in sede di legittimità.

Nello stesso senso, infatti, si è pure affermato che il solo fatto che una notizia sia stata riferita in forma dubitativa non è sufficiente ad escludere l’idoneità a ledere la reputazione altrui.

Anche le espressioni dubitative, come quelle insinuanti, allusive, sottintese, ambigue, suggestionanti, possono, infatti, essere idonee ad integrare il reato di diffamazione, quando, per il modo con cui sono poste all’attenzione del lettore, fanno sorgere in quest’ultimo un atteggiarsi della mente favorevole a ritenere l’effettiva rispondenza a verità dei fatti narrati. Trattasi di indagine da effettuarsi caso per caso (Sez. 5, Sentenza n. 8848 del 08/06/1992 Ud. (dep. 05/08/1992) Rv. 191621).

Orbene, nel caso in esame l’indagine e l’analisi concreta effettuate sul punto dalla Corte d’appello sono esaustive e logiche – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – e pertanto non si espongono all’ulteriore sindacato di questa Corte.

La Corte d’appello ha infatti compiuto la valutazione di merito che le competeva ed ha evidenziato correttamente come il giornalismo di denuncia, quale è quello praticato nel caso di specie, è tutelato dal principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando indichi motivatamente e argomentatamente un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi normativi per potere essere chiarite.

In tale evenienza, escluso il caso in cui il sospetto sia obiettivamente del tutto assurdo, razionalmente ha ritenuto la Corte che, sempre che sussista anche il requisito dell’interesse pubblico all’oggetto della indagine giornalistica, l’operato dell’autore è destinato a ricevere una tutela primaria rispetto all’interesse dell’operatore economico su cui il sospetto è destinato eventualmente a ricadere: e ciò perchè il risvolto del diritto all’espressione del pensiero del giornalista, costituito dal diritto della collettività ad essere informata non solo sulle notizie di cronaca ma anche sui temi sociali di particolare rilievo attinenti alla libertà, alla sicurezza, alla salute e agli altri diritti di interesse generale, sia operativo in concreto: operativo, evidentemente, alla condizione che, come anticipato, il sospetto e la denuncia siano esternati sulla base di elementi obiettivi e rilevanti.

E, per quanto qui d’interesse, tali elementi sono stati individuati dal giudice dell’appello non solo nelle dichiarazioni di un giornalista della Gazzetta del mezzogiorno ma anche e soprattutto nelle dichiarazioni rilasciate, all’interno del servizio giornalistico, dallo stesso querelante M.L., valorizzate, peraltro, sia per la parte nella quale quello aveva posto in evidenza i risultati regolarmente negativi delle ispezioni compiute dal NAS sulla sua attività produttiva, sia nella parte ammissiva del fatto che il tema della sofisticazione mediante miscela con olio di nocciola non è per nulla astratto ma concreto e, per giunta, non verificabile con le metodiche a disposizione.

Non può dirsi, in altri termini, capziosa e suggestiva, nonchè volta a spacciare un sospetto per verità conclamata, l’affermazione, attribuita a J.B., e mandata in onda nell’ambito della trasmissione diretta dalla G., circa la esistenza di un sospetto che ricadeva sulla raffineria olearia di Monopoli, un sospetto che, proprio per tale sua natura, è stato girato e sottoposto all’intervistato M., interessato dal sospetto stesso.

Ragionare diversamente e pretendere, come fa il difensore, la censura a priori dei giornalismo esplicato mediante la denuncia di sospetti di illeciti, significherebbe degradare fino ad annullarlo, il concetto stesso di sospetto e di giornalismo di inchiesta: dovendo, piuttosto, il sospetto che non sia meramente congetturale o peggio ancora calunniatorio, mantenere il proprio carattere propulsivo e induttivo di approfondimenti, essendo autonomo e, di per sè, ontologicamente distinto dalla nozione di attribuzione di un fatto non vero.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Redazione