Nessun reato di diffamazione per il sindacalista che denuncia modalità scorrette di organizzazione del lavoro parlando di “vergogna aziendale” (Cass. n. 38962/2013)

Redazione 20/09/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 06/04/2012 il Tribunale di Pescara, riformando la decisione di primo grado, ha assolto D.M.V. dal delitto di diffamazione contestatogli, perchè il fatto non sussiste.

In particolare, al D.M., segretario aziendale di un’organizzazione sindacale, era contestato di avere offeso, in una nota di protesta sindacale indirizzata al Direttore generale e al Direttore sanitario della Azienda USL di (omisis), la reputazione di S.E., direttore medico responsabile dell’ufficio Prevenzione e Protezione per la sicurezza interna della citata Azienda Usl, esprimendo giudizi e critiche in relazione alle modalità di espletamento del servizio, con specifico riguardo agli accertamenti sanitari e alle relative prescrizioni nei confronti di medici in servizio presso il Dipartimento di salute mentale, qualificando queste ultime come “sconcertanti e grottesche” e ponendo in dubbio la regolarità di detto servizio, caratterizzata da favoritismi fastidiosi e sospetti, e infine qualificando l’attività dello S. come “vergogna aziendale”.

Il Tribunale è giunto a tali conclusioni, per un verso, in ragione della sostanziale veridicità dei fatti affermati dall’imputato, suffragati dai documenti presenti in atti e dagli accertamenti effettuati dal NAS dei carabinieri, e, per altro verso, in considerazione delle espressioni adoperate dall’imputato, che non si traducevano in addebiti dileggiatori della professionalità dello S., ma investivano, nel quadro dell’attività di denuncia sindacale, le modalità di svolgimento delle funzioni dell’Ufficio Prevenzione della ASL di Pescara.

2. Nell’interesse della parte civile, è stato proposto ricorso per cassazione, ai soli effetti civili, affidato a tre motivi.

2.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali nonchè violazione ed erronea applicazione dell’art. 595 c.p., dal momento che le affermazioni adoperate dall’imputato non erano volte a contestare le modalità di svolgimento del servizio, ma erano dirette esplicitamente nei confronti delle concrete prescrizioni sanitarie del Dott. S. nell’attività medica di prevenzione dallo stesso esercitata, qualificate come “sconcertanti e grottesche”.

2.2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 51 c.p., dal momento che la critica esercitata dall’imputato, in quanto indirizzata all’attività medica del Dott. S. e non alle modalità organizzative del servizio, si era tradotta in rozze espressioni offensive e diffamatorie e nell’attribuzione di condotte illecite e disonorevoli.

2.3. Con il terzo motivo, si lamentano vizi motivazionali, per avere il Tribunale ritenuto che i fatti attribuiti alla parte civile rispondessero al vero, trascurando di considerare: a) le modalità dell’attività di prevenzione; b) la documentazione in atti, comprovante la regolarità e correttezza delle prescrizioni mediche;

e) il fatto che queste ultime, all’esito degli accertamenti del NAS, erano state confermate integralmente, come emergeva dalla nota di riscontro n. 1048 del 17/07/2008; d) le osservazioni contenute nella nota n. 1068 del 10/05/2008, a firma del Dott. *****, coordinatore del DSM, il quale aveva rilevato, da un lato, che il pur elevato numero di medici con prescrizioni non comportava alcun reale disfunzionamento del servizio e, dall’altro, che le prescrizioni, inevitabile conseguenza dell’invecchiamento del corpo sanitario, rappresentavano esclusivamente misure protettive nei confronti dei colleghi interessati.

Motivi della decisione

1. L’esame dei tre motivi di ricorso richiede una premessa di carattere generale. In tema di diffamazione, il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l’altro, nella narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio o, più genericamente, di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un’interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e di comportamenti. Non si tratta dunque di valutare la veridicità di proposizioni assertive, per le quali possa configurarsi un onere di previo riscontro della loro rispondenza al vero, quanto piuttosto di stimare la correttezza delle espressioni usate (Sez. 5, n. 7499 del 14/04/2000, Chinigò, Rv. 216534).

Proprio con riferimento alla critica sindacale, questa Corte ha puntualizzato che sussiste l’esimente dell’esercizio del diritto di critica sindacale (art. 51 c.p.) qualora il rappresentante di un’organizzazione sindacale indirizzi una missiva a vari enti istituzionali nonchè alla stessa parte lesa, che censuri le scelte di quest’ultima – effettuate in qualità di Capo dell’Ufficio di Procura, in ordine alla gestione del personale amministrativo – ipotizzando a suo carico la realizzazione di comportamenti penalmente rilevanti (Sez. 5, n. 32180 del 12/06/2009, *******, Rv. 244495: nella specie, la sentenza ha ritenuto la missiva non espressione di una querelle personale ma di critica in ordine all’operato istituzionale, essendo volta a stigmatizzarne, ancorchè con toni aspri, eppur conferenti all’oggetto della controversia, le iniziative intraprese in campo disciplinare e giudiziario,censurando atteggiamenti ritenuti inutilmente persecutori e, quindi, intervenendo a tutela dei lavoratori del settore nella veste di rappresentante di categoria).

2. Ciò posto, con riguardo al primo e al secondo motivo, esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione, deve rilevarsi che la missiva inviata dall’imputato certamente non ha per oggetto immediato l’efficienza del servizio, ma, nella prospettiva sindacale assunta dall’autore, le modalità di svolgimento delle funzioni dell’Ufficio Prevenzione e Protezione. La ragione della ritenuta sussistenza dell’esimente, pertanto, sono state individuate proprio nel fatto che le espressioni, certamente aspre, adoperate dal D.M., erano finalizzate a denunciare modalità di organizzazione del servizio, che, al di là dei riflessi sull’utenza, si traducevano, secondo l’assunto del primo, in favoritismi a favore di alcuni medici e in danno di altri.

Proprio l’assenza di una connotazione personale delle espressioni – tutte rivolte al risultato dell’attività e non al suo autore – e la loro funzionalizzazione allo svolgimento delle funzioni di rappresentanza degli interessi dei lavoratori interessati giustificano la conclusione raggiunta dal giudice di secondo grado.

A ciò deve aggiungersi che le modalità di estrinsecazione del diritto di critica non hanno superato i limiti della continenza espressiva perchè il carattere “sconcertante” o “grottesco” o “borbonico” della situazione, definita come “vergogna aziendale”, senza tradursi in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale dell’odierno ricorrente, denuncia, come si diceva, il risultato dei denunciati favoritismi.

3. Anche il terzo motivo è infondato.

Premesso quanto sopra riportato a proposito del significato dell’esimente in esame, deve rilevarsi che, nella specie, sia i controlli operati a seguito della verifica dei Nas, sia le lamentele espresse da alcuni dei medici coinvolti comprovano, secondo la non manifestamente illogica motivazione del giudice di merito, la situazione di disagio lavorativo cui aveva fatto seguito la missiva del D.M..

Per altro aspetto, anche a voler seguire il ricorso, deve prendersi atto dell’esistenza di un “alto numero di medici con prescrizione” (si veda il riportato contenuto della nota n. 1068 del 10/05/2008), talchè tutt’altro che pretestuosa era l’esigenza di una verifica sulla rispondenza al vero di siffatta situazione (la missiva si apre, infatti, proprio con la richiesta delle basi cliniche o scientifiche dell’esenzione di alcuni medici dai turni di reperibilità notturna o delle ragioni giustificative del numero dei turni mensili dei singoli medici.

4. Alla decisione di rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2013.

Redazione