Neonato muore dopo il parto cesareo: il ginecologo fa partecipare all’intervento il figlio, medico specializzando, poi falsifica la cartella per non farlo figurare (Cass. pen. n. 41503/2012)

Redazione 24/10/12
Scarica PDF Stampa

Ritenuto in fatto

1. Ricorre S.L. avverso la sentenza della Corte di appello di Roma dell’1-3-2011 che, in riforma di quella emessa dal Tribunale della stessa città, lo condanna a pena di giustizia per il reato di falso in atto pubblico fidefacente (artt. 476 e 479 cod. pen.) commesso in (omissis). Secondo la prospettazione accusatoria, condivisa dai giudici del merito, S.L., che era ostetrico-ginecologo presso l’ospedale “(omissis)” di (omissis, il (omissis) eseguì, come primo operatore, un parto laparatomico sulla persona di D.B.M.D., con esito infausto. Poiché all’intervento aveva partecipato, nella prima fase, il figlio R. specializzando al Policlinico “(omissis)” e per questo non abilitato ad operare nella struttura interessata, S.L., al fine di tutelare l’onore professionale del figlio, falsificò la cartella clinica dell’ospedale, sostituendo il nome del figlio con quello del secondo operatore abilitato, dr.ssa Sa. .
2. Nell’interesse di S.L. sono stati presentati due ricorsi, uno a firma dell’avv. P. B. e l’altro a firma dell’avv. *****
2.1. L’avv. B. ricorre con sette motivi.
Col primo lamenta la violazione degli artt. 157 – 476 e 479 cod. pen., ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., nonché la manifesta illogicità della motivazione in punto di motivazione, dovendo ritenersi prescritto il reato al 23-6-2008, essendo stato contestato il falso in atto pubblico, e non il falso in atto pubblico fidefacente, soggetto a termine sestennale di prescrizione (aumentabile, al massimo, fino ad otto anni e sei mesi).
Col secondo censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 521, comma 2, e 522, commi 1 e 2, cod. proc. pen., ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e) cod. proc. pen., poiché la sentenza impugnata ha ravvisato la responsabilità dello S. nella sostituzione del nominativo “Sa. ” a quello di “S. ” nella parte attestante la persona del 2 medico, mentre in imputazione si faceva riferimento alla falsificazione della “cartella clinica del giorno (omissis) relativa al parto di D.B.M.D”.
Inoltre, perché la Corte d’appello ha condannato l’imputato per un reato più grave di quello contestato, in violazione del principio generale del “tantum appellatum quantum devolutum”.
Col terzo denuncia la nullità della sentenza, ex art. 606, comma 1, lett. d) ed e) cod. proc. pen., per il mancato espletamento di una perizia grafica sulla cartella clinica, richiesta al giudice di prime cure per accertare se la stessa fosse stata manomessa dall’imputato.
Col quarto denuncia la nullità della sentenza, ex art. 606, comma 1, lett. d) ed e) cod. proc. pen., per avere indebitamente ritenuto, in motivazione, che l’imputato fosse pienamente consapevole del fatto che “la morte del piccolo A. potesse essere ricollegata ad una condizione di grave sofferenza ipossica ischemica indotta dall’abnorme intervallo tra il taglio cesareo e l’estrazione del feto”, contrariamente alle conclusioni cui erano giunti i consulenti del Pubblico ministero.
Col quinto motivo (erroneamente numerato come “6″) deduce la nullità della sentenza, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per illogicità della stessa, avendo omesso di considerare “tutta una serie di elementi che sono emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale”: in particolare, la tesi difensiva, che attribuiva la correzione alla possibile “svista” di chi aveva ritenuto di rimediare ad un errore nella trascrizione, per due volte, sulla cartella clinica del nome “S.”; il fatto che lo S. era certamente in sala parto al momento dell’intervento sulla partoriente, come risultava sia dal registro della sala operatoria che da quello della sala parto; le dichiarazioni rese da vari testi (tra cui M.), da cui sarebbe emerso che anche altri soggetti erano interessati alla falsificazione della cartella clinica; il fatto che il registro della sala operatoria riportava una sola correzione (la sostituzione del nominativo della R. con quello della B.).
Col sesto (erroneamente indicato come “7″) denuncia la nullità della sentenza, ex art. 606, comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., per erronea interpretazione dell’art. 476, comma 2, cod. proc. pen. e, comunque, per illogicità della motivazione, non avendo la cartella clinica natura di atto pubblico fidefacente.
Col l’ultimo motivo denuncia la nullità della sentenza, ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., per violazione degli artt. 133, 163, 164 e 175 cod. pen. per mancanza di motivazione sia in relazione ai criteri di determinazione della pena sia in relazione alla mancata concessione dei benefici di legge.
2.2. L’avv. ***** deduce:
a) l’illegittimità della sentenza, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo la Cotte d’appello omesso di pronunciarsi sulla dedotta inammissibilità dell’appello del Pubblico ministero per genericità dei motivi. Peraltro, il Pubblico ministero aveva, indebitamente, dato per presupposta la responsabilità dello S. per il distinto reato di omicidio colposo, dal quale invece è stato prosciolto per prescrizione.
b) il difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., della sentenza in ordine alla richiesta declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
c) l’inammissibilità dell’appello delle parti civili, che, in violazione dell’art. 576 cod. proc. civ., non si erano limitate ad impugnare la sentenza ai soli effetti della responsabilità civile, ma avevano trattato “il merito della vicenda”, svolgendo argomentazioni attinenti alla morte del bambino e alla presunta responsabilità dei medici per omicidio colposo. Peraltro, nell’atto d’appello le parti civili non avevano nemmeno indicato il danno patito per effetto del falso. In ogni caso un danno per il falso, direttamente e concretamente incidente nella sfera giuridica del privato, non era ipotizzabile e non era sussistente, in quanto l’interesse risarcitorio della parte civile era stato soddisfatto, ad opera dell’assicurazione, nel diverso procedimento per omicidio colposo.
d) l’illogicità della motivazione in ordine al reato di falso, in mancanza di prova certa circa la riferibilità dell’alterazione all’imputato, avendo la Corte d’appello fondato il proprio giudizio sull’asserita responsabilità dello S. per l’omicidio colposo ed “in base ad un movente privo di supporto probatorio”. Inoltre, per non aver considerato che altri potevano essere gli autori del falso e che la cartella clinica, redatta dalla R., era disordinata e costellata di abrasioni e correzioni. Infine, per non aver considerato che solo pochi giorni dopo il fatto, il (omissis), l’imputato, relazionando al dirigente sanitario, descrisse la vicenda nei suoi esatti termini, senza tacere della partecipazione del figlio all’intervento. Anche per questo motivo il falso sarebbe da considerare innocuo e grossolano.
e) la mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che lo S. era stato citato a giudizio per aver “falsificato la cartella clinica del giorno (omissis) relativa al parto di D.B.M.D. , facendo figurare come primo chirurgo operatore il parto laparatomia) S.L. in luogo dell’effettivo operatore S.R.”, mentre in sentenza si parla della sostituzione del nominativo “Sa.” a quello di “S. “.
f) la illegittima contestazione congiunta del falso materiale e del falso ideologico, che sono tra loro alternativi, senza tener conto del fatto che la cartella era stata redatta dall’ostetrica R. e che la successiva alterazione fu opera di un soggetto che non era pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Inoltre, che non si trattava di atto pubblico fidefacente, poiché “nella specie è in discussione solo la parte descrittiva e compilatoria a fini meramente amministrativi interni”.
g) l’illegittima condanna dell’imputato al pagamento delle spese e dei danni a favore della parte civile, che non era legittimata a costituirsi.
Con memoria aggiunta del 14/06/2012 l’avv S. ha poi ribadito i motivi di ricorso, insistendo per l’inammissibilità dell’appello proposto dalla parte civile e sull’inesistenza di un danno a questa riferibile.

 

Considerato in diritto

Il ricorso non merita accoglimento.
1.1. Esaminando nell’ordine i motivi del ricorso proposto nell’interesse dell’imputato dall’avv. B., infondato è quello relativo alla dedotta prescrizione del reato, posto che il falso in atto pubblico fidefacente (art. 476, comma 2, cod. pen.) si prescrive, sulla base della più favorevole disciplina introdotta dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, in dodici anni e sei mesi: quindi, il 23-12-2012.
1.2. Nessuna violazione della normativa processuale può dirsi consumata, posto che l’imputato è stato condannato per manomissione della cartella clinica, attuata mediante la sostituzione del nominativo “S.” con quello di “Sa.”. Nell’imputazione si contestava a S.L. e S.R. di aver “falsificato la cartella clinica del giorno (omissis) relativa al parto di D.B.M.D., facendo figurare come primo chirurgo operatore il parto laparotomico S.L. in luogo dell’effettivo operatore S.R. specializzando in altra struttura ospedaliera, mediante cancellazione del predetto nominativo e sua sostituzione con le modalità di cui sopra”. La differenza riscontrabile tra l’imputazione e la condanna non concerne il fatto materiale contestato (la falsificazione della cartella clinica, attuata mediante la cancellazione del nominativo di S.R con altro nominativo, chiaramente esplicitata in imputazione), ma gli effetti della falsificazine (far apparire come operatore la dr.ssa Sa. invece che il dr. S.R.). In questo senso la variazione è del tutto ininfluente sotto il profilo che interessa, giacché, per accertare se la modifica dell’addebito nella sentenza determini un vulnus dei diritti di difesa dell’imputato non è sufficiente il mero confronto letterale fra l’imputazione e la decisione, ma bisogna accertare se sia mutato il fatto, vale a dire se risulti radicalmente trasformata la fattispecie concreta contestata in maniera tale da risultare incerto l’oggetto della contestazione. Al contrario, deve escludersi la violazione del diritto de quo allorquando l’originaria contestazione, considerata nella sua interezza, contenga gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza e si accerti che l’indagato si è trovato, in concreto, nella condizione di difendersi (ex multis, Cassazione penale, sez. 2, 28/06/2011, n. 36891). Nel caso di specie nessun dubbio può esser circa la completezza della difesa spiegata dall’imputato, che ha saputo, fin dall’origine, quale accusa gli veniva mossa (la manomissione della cartella clinica con cancellazione di un nominativo e sostituzione di un altro) e in relazione ad essa si è difeso.
Priva di pregio è, poi, l’eccezione di nullità proposta nell’ambito dello stesso motivo, che pone in discussione il principio, ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, e qui pienamente condiviso, a mente del quale non determina nullità la mancata indicazione degli articoli di legge violati e, a maggior ragione, la mancata specificazione dei commi, allorché il fatto addebitato sia puntualmente e dettagliatamente esposto nel capo si imputazione, sì che non possa insorgere equivoco alcuno per l’espletamento di una completa e integra difesa (Cass. Sez. 1 19/3- 19/4/2004 n. 18027 Rv. 227972). In questo caso allo S. era stato contestata la falsificazione della cartella clinica dell’ospedale, che, per costante giurisprudenza, ha natura di atto pubblico fidefacente, con riferimento alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti da questi attestati come avvenuti in sua presenza (Cassazione penale, sez. 5, 19/01/2011, n. 7443; Cassazione penale, sez. 5, 16/04/2009, n. 31858). Del pari priva di pregio è la dedotta violazione del principio “tantum appellatum quantum devolutum”, che il ricorrente, senza specificare le norme violate, ravvisa nella “condanna per un reato più grave di quello che gli era stato contestato”, posto che si sarebbe, invece, anche in questo caso, in presenza di una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, da escludere sulla base delle superiori considerazioni e sulla base del principio, anch’esso pacifico nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice (sia di primo che di secondo grado) può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata in imputazione, ancorché si tratti di qualificazione più grave, purché siano rispettati i limiti dell’art. 521 cod. proc. penale (che nella specie non sono in discussione): Cassazione penale, sez. 3, 09/05/2008, n. 28815; Cassazione penale, sez. 2, 08/03/2007, n. 11935.
1.3. Ugualmente infondato è il terzo motivo di ricorso, con cui viene censurato il mancato espletamento di perizia grafica da parte del giudice di primo grado e, poi, di quello d’appello. Premesso che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il mancato espletamento di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 comma primo lett. d) c.p.p., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, attraverso il richiamo all’art. 495 comma secondo c.p.p., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Cassazione penale, sez. 4, 04/05/2011, n. 33734), la doglianza è infondata anche perché non risulta che il ricorrente abbia richiesto al giudice d’appello, di fronte e a seguito del gravame del Pubblico ministero, l’espletamento della perizia. E se è vero che il ricorso per cassazione avverso la sentenza di condanna in appello dell’imputato prosciolto in primo grado con la formula ampiamente liberatoria “per non aver commesso il fatto” può essere proposto anche per violazioni di legge non dedotte in appello, ovvero per lo specifico profilo del vizio di motivazione ex art. 606 comma 1 lett. e), c.p.p., perché non deducibili per carenza di interesse all’impugnazione, è altresì vero che ciò è ammissibile allorché l’imputato medesimo, per quanto carente di interesse all’appello, abbia comunque prospettato al giudice di tale grado, mediante memorie, atti, dichiarazioni verbalizzate, l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio, ovvero abbia inutilmente richiesto l’espletamento della prova che assume “decisiva” (Cassazione penale, sez. un., 30/10/2003, n. 45276). Cosa di cui non v’è prova nel caso di specie.
1.4. Col quarto motivo il ricorrente pretende di collegare ad un passaggio motivazionale, non condiviso, la nullità della sentenza. Il motivo è manifestamente infondato, giacché nessuna affermazione contenuta in sentenza, per quanto avulsa dal contesto decisionale e persino astrusa (quella censurata non lo è affatto) può mai comportare la nullità della decisione, salvo che si traduca in carenza o illogicità della motivazione (che si passa ad esaminare).
1.5. Col quinto motivo (erroneamente numerato come “6?), che corrisponde al quarto motivo dell’avv. S. (sub 2.d, insieme al quale viene qui trattato), il ricorrente svolge censure di merito, inammissibili in sede di legittimità. In pratica, sotto forma di vizio di motivazione, il ricorrente propone una ricostruzione alternativa della vicenda sostanziale, prospettando la possibilità che si sia trattato di “correzione” della cartella clinica, dovuta ad “errore”, invece che di sua falsificazione; prospetta la possibilità che altri abbiano manomesso la cartella, potendo avervi interesse; mette in rilievo circostanze asseritamente contrarie alla tesi dell’accusa e recepita dal giudice. È appena il caso di ricordare, però, come non sia compito di questa Corte effettuare una nuova valutazione del coacervo probatorio e dell’attendibilità dei testimoni, ma solo verificare se la conclusione dei Giudici di merito su tali temi sia sorretta da motivazione congrua e non manifestamente illogica.
In esito a questa circoscritta disamina, la Corte rileva che la sentenza impugnata non presenta vizi motivazionali, deducibili nel giudizio di legittimità, in quanto la prova della responsabilità è stata desunta dal sicuro interesse che aveva l’imputato alla manomissione della cartella, al fine di salvaguardare l’onore professionale del figlio e la propria posizione professionale; dal fatto che era uno dei pochi soggetti che avevano accesso alla documentazione sanitaria relativa al fatto; dal fatto che nessun altro aveva interesse alla cancellazione del nominativo di S.R. dalla cartella clinica (non l’aveva, in particolare, la dr.ssa Sa. , che figura al posto di S.R. ed era interessata, al contrario, a non figurare tra gli operatori sanitari che avevano assistito la partoriente, data l’evoluzione negativa dell’intervento). Trattasi di considerazioni assolutamente logiche e pertinenti, che non possono essere superate o messe in discussione dalle ipotesi alternative del ricorrente o dalla valorizzazione di elementi di giudizio differenti, comunque inidonei ad intaccare il solido apparato argomentativo della sentenza impugnata.
1.6. La doglianza contenuta nel sesto motivo è già stata esaminata sub 2), laddove è stato rimarcato che la cartella clinica degli ospedali delle AUSL ha natura di atto pubblico fidefacente. Ad esso pertanto si rinvia.
1.7. Con l’ultimo motivo il ricorrente si duole del trattamento sanzionatorio. Il motivo è infondato, posto che la pena è stata irrogata nel minimo edittale e sono state concesse le attenuanti generiche, applicate nella massima estensione. Nessuna prova è stata fornita circa la richiesta dei benefici di legge, a preferenza dell’indulto di cui alla L. 31/7/2006, n. 241, applicabile al caso di specie.
2.a) Quanto ai motivi di ricorso dell’avv. S., esaminando prioritariamente quelli di natura procedurale, si rileva che la Corte d’appello ha, nella parte narrativa, illustrato i motivi di gravame del Pubblico ministero e li ha ritenuti non solo specifici, ma anche condivisibili, tanto che ha pronunciato condanna proprio sulla falsariga di quei motivi. È anche il caso di rimarcare che la censura, riferita a un difetto di motivazione, non è corretta nella sua formulazione, perché viene eccepita un’invalidità dell’atto d’appello, vale a dire un error in procedendo, rispetto al quale questa corte è giudice anche del fatto, indipendentemente dalla motivazione esibita al riguardo dal giudice della decisione impugnata. Sicché, se il giudice del merito ometta di pronunciarsi su un’eccezione di nullità, la sentenza di merito non è impugnabile per l’omessa pronuncia o per l’omessa motivazione, ma solo per l’invalidità già vanamente eccepita: perché ciò che rileva non è il tenore della pronuncia impugnata per cassazione, sulla quale l’invalidità denunciata deve comunque incidere, bensì l’esistenza appunto di tale invalidità (Cass. Pen., sez. 5, 8-6-2010, n. 27629).
Nel caso in esame, dunque, rileva solo se il Pubblico ministero ha validamente proposto l’appello, poi accolto dalla corte romana; non rileva che su tale questione la corte d’appello abbia taciuto. Ciò posto in via generale, si rileva che l’appello del Pubblico ministero non era affatto generico. Esso indicava specificamente i motivi per cui, secondo la pubblica accusa, doveva ritenersi la penale responsabilità degli imputati e perché gli “altri soggetti”, cui faceva riferimento la sentenza di primo grado, non erano affatto interessati alla falsificazione. Specificava i motivi, di carattere logico, che a suo giudizio imponevano una diversa conclusione della vicenda processuale. La censura è, quindi, tutt’affatto infondata.
Proseguendo nell’esame dei motivi di rito, non ha ragion d’essere la doglianza relativa al contenuto dell’imputazione (il ricorrente si duole, tra l’altro, della contestazione congiunta del falso materiale e del falso ideologico), giacché l’imputazione è stata elevata con riferimento al falso ideologico: il richiamo dell’art. 476 cod. pen. è fatto per l’individuazione del trattamento sanzionatorio. E fermo restando che l’errata indicazione delle norme violate non avrebbe alcun riflesso sulla sentenza, una volta accertato che il fatto è stato esattamente contestato nella sua materialità.
2.b) Nessun vizio di motivazione è riscontrabile nella sentenza che, pronunciando condanna per il reato contestato, abbia ritenuto non maturato il termine prescrizionale, giacché il rigetto dell’istanza (tendente ad ottenere una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione) è implicito nella pronuncia di condanna.
2.c) Quanto all’appello delle parti civili, premesso che valgono qui le stesse considerazioni fatte in ordine alla dedotta nullità dell’appello del Pubblico ministero, corrisponde a verità che l’appello in questione fosse sovrabbondante, posto che svolgeva considerazioni concernenti sia il decesso del bambino che la falsificazione della cartella clinica, per poi diventare univoco nelle conclusioni: si chiudeva, infatti, con la richiesta di riforma della sentenza di primo grado e la condanna degli imputati “al risarcimento di tutti i danni, patiti e patiendi, in favore delle costituite parti civili, conseguenti ai fatti di cui all’imputazione” (il falso contestato ai due S. ). Si trattava, quindi, di appello che, per quanto parzialmente inconferente nelle argomentazioni (nella parte relativa al presunto omicidio colposo) aveva comunque il contenuto minimo prescritto dall’art. 581 cod. proc. pen., sia nei motivi che nelle richieste, per essere ammissibile.
Infondata è anche la doglianza relativa alla mancata specificazione del danno. Invero, unica condizione essenziale dell’esercizio dell’azione civile in sede penale è la richiesta di risarcimento, la cui entità può essere precisata in altra sede dalla stessa parte o rimessa alla prudente valutazione del giudice, per cui l’omessa determinazione, nell’appello o nelle conclusioni scritte, dell’ammontare dei danni di cui si chiede il risarcimento, non produce alcuna nullità né impedisce al giudice di pronunciare la condanna (Cassazione penale, sez. 2, 20/03/1997, n. 3792). Corrispondentemente, ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile non è necessario che il danneggiato provi l’effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia infatti costituisce una mera “declaratoria juris” da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (Cassazione penale, sez. 6, 11/03/2005, n. 12199). Nel caso concreto la falsificazione della cartella clinica costituiva fatto potenzialmente lesivo degli interessi delle parti civili costituite, in quanto idoneo ad ostacolare l’individuazione dei soggetti che avevano operato sulla partoriente.
2.d) Questo motivo è già stato trattato insieme al quinto motivo dell’avv. ****** occorre solo aggiungere che la relazione fatta dall’imputato alla Direzione sanitaria dell’ospedale, in data (omissis) (con cui l’imputato descriveva la vicenda nei suoi esatti termini, senza tacere della partecipazione del figlio all’intervento), non è affatto idonea a rendere grossolano o innocuo il falso contestato, posto che si tratta di atti diversi, aventi specifica e diversa funzione: semmai, quella relazione costituisce conferma del falso contenuto in cartella.
2.e.f.g) Gli ultimi tre motivi di ricorso dell’avv. S. possono essere solo evocati, per ragioni di completezza, posto che il primo ed il secondo sono stati trattati insieme alle altre doglianze in rito; per il terzo (concernente la condanna alle spese e ai danni a favore delle parti civili) valgono le considerazioni superiormente espresse.
In conclusione, tutti i motivi di ricorso sono infondati. Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e delle spese di costituzione e difesa della parte civile, che si liquidano in dispositivo.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, che liquida in Euro 1.800, oltre accessori come per legge.

Redazione