Né peculato né abuso d’ufficio per il pubblico ufficiale che si appropria di un permesso disabili (Cass. pen., n. 42839)

Redazione 18/10/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Decidendo sulla richiesta cautelare del procedente p.m., il g.i.p. del Tribunale di Catania con ordinanza dell’8.1.2013 ha disatteso, per difetto di gravi indizi di colpevolezza, l’applicazione della cautela custodiale nei confronti di P.M. per due delle tre contestazioni ascrittele di concorso nei reati, commessi con abuso delle funzioni di dirigente la cancelleria dell’ufficio G.I.P. del Tribunale etneo, di violazione di segreti di ufficio e favoreggiamento personale aggravati L. n. 203 del 1992, ex art. 7 per avere, con il coindagato cancelliere M.S., comunicato ad esponenti della criminalità mafiosa locale di essere iscritti nel registro delle notizie di reato per associazione mafiosa e di essere sottoposti a servizi di intercettazione. Per la terza omologa contestazione (capo C della rubrica) il g.i.p., ritenuti sussistere gravi indizi di colpevolezza a carico della P. per la sola ipotesi di violazione del segreto di ufficio di cui all’art. 326 c.p., ha riservato la decisione sull’eventuale adozione della misura interdittiva della sospensione dal pubblico ufficio ricoperto dall’indagata all’esito del suo interrogatorio a norma dell’art. 289 c.p.p., comma 2.

Espletato detto incombente, in cui la P. ha ammesso i fatti, asserendo di aver agito al solo scopo di salvare da possibili pregiudizio il convivente e collega di lavoro M. (coindagato), il g.i.p. con ordinanza del 14.1.203 ha ritenuto profilarsi nei confronti della donna (in uno ai già apprezzati gravi indizi di reità) esigenze cautelari connesse al pericolo di inquinamento delle fonti di prova e di reiterazione di condotte criminose. Esigenze non elise dal già avvenuto trasferimento della P. presso altro ufficio del Tribunale di Catania e legittimanti l’adozione della misura cautelare interdittiva di cui all’art. 289 c.p.p. e art. 308 c.p.p., comma 2 per il periodo di due mesi fissato dal 15.1.2013 al 15.3.2013.

2. Adito dall’appello della P. avverso l’ordinanza cautelare interdittiva, il Tribunale distrettuale di Catania con ordinanza resa il 7.2.2013 ha respinto il gravame.

Ad avviso del Tribunale i gravi indizi di colpevolezza sulla consapevole violazione del dovere del segreto su atti del suo ufficio da parte dell’indagata, desunti da due intercettazioni ambientali (14.11.2012 e 21.11.2012) asseveranti come la donna abbia confidato al convivente M. che tale C.G. era sottoposto a intercettazione fonica perchè indagato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., smentiscono in modo palmare la tesi difensiva della P.. Costei con la sua rivelazione si è resa perfettamente conto che la notizia sul conto del C., fornita al convivente in patente trasgressione dei doveri di ufficio, era funzionale all’interesse specifico del ridetto C..

Quanto alle esigenze cautelari, il Tribunale ne ha confermato la sussistenza sotto il duplice profilo di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a) e c), traendone riscontro anche da ulteriore captazione fonica con videoregistrazione nell’ufficio dell’indagata avvenuta il 28.12.2012, denotante “un modus operandi della P. deviato rispetto ai doveri professionali”.

3. Avverso tale ordinanza del Tribunale di Catania hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di P.M., deducendo violazioni di legge e illogicità della motivazione nei termini appresso sintetizzati.

3.1. Violazione degli artt. 191 e 266 c.p.p. per erronea ritenuta utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e ambientali involgenti la posizione dell’indagata.

L’ipotesi criminosa residuale ex art. 326 c.p. ascritta alla P. con esclusione di ogni aggravante (ivi inclusa quella di cui alla L. n. 203 del 1992, art. 7) risulta slegata da ogni collegamento funzionale con i fatti reato (associazione mafiosa, favoreggiamento per motivi di mafia) per i quali era consentito il ricorso alle captazioni foniche e ambientali e per i quali queste sono state in concreto disposte. Con la conseguenza che i loro esiti non possono essere impiegati a sostegno della tesi accusatoria contro l’indagata.

3.2. Violazione dell’art. 273 c.p.p. e art. 326 c.p..

I giudici dell’appello cautelare hanno ritenuto configurabile nel contegno della P. il reato punito dall’art. 326 c.p.. Ma tale fattispecie integra un reato di pericolo concreto la cui offensività avrebbe dovuto essere accertata ex ante e in concreto.

Sia con riguardo al reale nocumento derivante alla P.A. dalla divulgazione della notizia segreta, sia con riguardo alla concretezza del pericolo dal punto di vista del soggetto agente in base a una rigorosa ricostruzione delle fasi della condotta dell’indagata, che nei dialoghi con il collega M. ignora che le notizie riferitegli possano mai essere comunicate a terzi e meno che mai al C., essendo la donna estranea alle trame del coindagato convivente (come, del resto, riconosciuto dallo stesso g.i.p.).

3.3. Violazione dell’art. 274 c.p.p. per insussistenza delle esigenze cautelari.

Il Tribunale ha compiuto una travisante disamina del compendio probatorio, al cui esito ha creduto persistenti esigenze cautelari connesse al pericolo di inquinamento probatorio e di recidività, pur in mancanza di dati asseveranti in concreto simili pericoli.

Incongruamente è stata valorizzata la videoripresa del 28.12.2012, in cui il M. è visto consultare i registri nell’ufficio della ricorrente ad insaputa della stessa.

4. Il ricorso di P.M. deve in limine, prima e al di là di ogni analisi su pertinenza e consistenza degli enunciati critici sul provvedimento impugnato, essere dichiarato inammissibile per sopravvenuto difetto di interesse.

Nelle more della trattazione dell’odierno ricorso, infatti, la misura cautelare interdittiva della sospensione dell’indagata dal suo pubblico ufficio, sottoposta – come detto – a limite temporale predefinito dal g.i.p. fino alla data del 15.3.2013 (art. 308 c.p.p.), è divenuta orma inefficace per decorso del corrispondente termine di durata.

La sopravvenuta perenzione di una misura cautelare interdittiva verificatasi medio tempore durante il procedimento incidentale impugnatorio non può che produrre il venir meno dell’interesse all’impugnazione e la conseguente sua inammissibilità per tale motivo, avuto riguardo alla generale regola dettata dall’art. 568 c.p.p., comma 4, secondo cui l’interesse a coltivare un mezzo di impugnazione deve essere concreto e attuale, cioè finalisticamente diretto a rimuovere un effettivo, specifico e persistente pregiudizio subito dalla parte a causa del provvedimento impugnato. Nel caso di specie nessun reale pregiudizio, sostanziale o processuale, per la P. potrebbe mai essere eliso dalla decisione sul merito dell’odierno ricorso (cfr.: Cass. Sez. 6, 21.4.2006 n. 24637, ****, rv. 234734; Cass. Sez. 1, 10.12.2010 n. 13607/11, *********, rv. 249916; Cass. S.U., 27.10.2011 n. 6624/12, Marina, rv. 251694).

Al riguardo è appena il caso di aggiungere che un interesse della P. a coltivare l’impugnazione non sarebbe prefigurabile neppure rispetto all’intento di precostituirsi (art. 314 c.p.p., comma 2) una decisione irrevocabile sulla virtuale illegittimità genetica della misura cautelare, atteso che alle misure interdittive, quale quella applicata alla ricorrente ex art. 289 c.p.p., non è estensibile l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione (Cass. Sez. 6, 10.11.2009 n. 9479/10, Barnabà, rv. 246553).

In base al principio di comune applicazione dettato dall’art. 91 c.p.c. non può reputarsi soccombente e non deve, dunque, essere condannato a pagare le spese del processo e la sanzione pecuniaria ex art. 616 c.p.p. il ricorrente la cui impugnazione sia dichiarata inammissibile per mancanza di interesse determinata, come nel caso in esame, da causa successiva alla proposizione del ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013.

Redazione