Narcotraffico internazionale: non sussiste il reato di offerta di vendita di droga se vi è desistenza volontaria (Cass. pen. n. 16938/2012)

Redazione 07/05/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Palermo, giudicando il cittadino venezuelano D.N.M.W.A., la cui posizione processuale era stata separata da quella dei numerosi coimputati italiani e stranieri (incluso il fratello D.N.M.R.) già giudicati, con sentenza in data 3.12.2008 ha assolto l’imputato perchè il fatto non sussiste, ai sensi dell’art. 56 c.p., comma 3, dalla contestata accusa di concorso in illecito tentativo di importazione in Italia di una ingente quantità di cocaina (compresa tra 100 e 200 chili di sostanza) da acquisirsi in Venezuela a cura dello stesso D.N., narcotrafficante internazionale operante il quel Paese, e da far pervenire nel porto di Palermo, mediante dissimulato trasporto navale, ad un “cartello” di acquirenti formato da esponenti della criminalità italiana attivi a Bari ( L. M., L.V.A., un appartenente alla S.C.O. soprannominato “(omissis)”), Pescara ( S.A., L. M., ****, lo stesso D.N.R.), Roma ( La.Mi., D.B.M., M.L.) e Palermo ( T.R., G.R.). Fatto criminoso sviluppatosi a Palermo e altre zone del territorio nazionale ed estero (Venezuela e Spagna) nel periodo tra giugno e ottobre 2002. 1.1. Il Tribunale ha svolto una dettagliata disamina delle convergenti risultanze processuali costituite: a) da una lunga serie di conversazioni telefoniche intercettate su più utenze di coimputati e di D.N.W., attestanti l’evoluzione dei contatti e delle trattative in corso di svolgimento per esportare in Italia l’indicata imponente partita di droga, di rilevantissimo valore commerciale (tanto da implicare il coinvolgimento di più gruppi criminali italiani in veste di acquirenti), conversazioni le più significative delle quali – ai fini del progetto delittuoso- risultano quelle del coimputato L.M. (recatosi più volte a Caracas presso il D.N. per sincerarsi dell’affidabilità del fornitore) e, in modo particolare, quelle tra lo stesso D.N. e l’emissario già operante nel narcotraffico in Italia D.B.M., che (valendosi delle “entrature” del coimputato T. presso il porto di Palermo) avrebbe dovuto individuare il container occultante la partita di droga trasportato da una nave giunta a Palermo, aprirlo con le chiavi portate dal Venezuela e svuotarlo del carico illecito, richiudendolo con sigilli contraffatti prima dei controlli doganali; b) dalle dichiarazioni del coimputato L.M., divenuto collaboratore di giustizia, che – nel confessare la partecipazione alla programmata importazione di droga – ha chiamato in correità il fornitore D.N.W., fornendo ampia descrizione delle trattative per perfezionare l’acquisto, dichiarazioni attendibili, perchè avvalorate dagli inequivoci contenuti delle captate conversazioni intercorse tra il D.N. e più coimputati; c) dalle concordi dichiarazioni di riscontro di più aspetti della complessa operazione di traffico internazionale di droga rese dai coimputati M.L., G.R. e, in parte, D.B.M..

1.2. All’esito dell’analisi dei predetti dati di conoscenza i giudici di primo grado sono pervenuti alla conclusione della ravvisabilità nella vicenda di tutti gli elementi costitutivi del contestato tentativo di importazione dell’ingente quantitativo di stupefacente.

Ad avviso del Tribunale i fatti di causa delineano un quadro di condotte univoche e idonee, nella convergenza degli interessi in gioco messi in luce dalle intercettazioni e dalle rivelazioni del L., al raggiungimento del preventivato obiettivo di far giungere in Italia una consistente partita di cocaina. Le trattative al riguardo avviate tra il fornitore sudamericano della droga, l’odierno imputato D.N.W., e il composito gruppo di acquirenti italiani coordinati dall’intermediazione del correo D. B., si sono protratte per un apprezzabile periodo di tempo. Le stesse trattative non si sono esaurite nello scambio di meri propositi delittuosi o nella formulazione di un progetto generico e indistinto, nè si sono limitate a semplici condotte o atti di mera natura preparatoria di un reato non seguito da una fase potenzialmente esecutiva. Esse sono sfociate in un serio e concreto programma criminoso, definito nelle sue fasi di realizzazione (essendosi anche raggiunto l’accordo di massima sul prezzo di vendita, stabilito in Euro 25.000,00 per ogni chilo di cocaina, e sulle modalità di un anticipato pagamento della metà del prezzo globale e del versamento del saldo ad avvenuta rivendita della droga in Italia). Le varie fasi dell’operazione sono state valutate e progettate anche in taluni aspetti di dettaglio: dalle possibili forme di occultamento della droga per il trasporto navale sino alle modalità del prelevamento del carico, una volta giunto a Palermo, prima dei rituali controlli doganali. L’operazione stessa, del resto, si inserisce nell’ambito di antecedenti spedizioni di droga in Italia realizzate, per quantitativi inferiori, attraverso lo stesso canale internazionale e segnatamente riferibili ai coimputati D.B. e D.N.R. (fratello dell’odierno imputato).

1.3. Tutto ciò chiarito, il Tribunale ha affrontato la problematica delle cause della mancata attuazione del piano criminoso, la cui azione esecutiva non è stata realizzata, rimanendo circoscritta nell’area del contestato tentativo, nella sua tipologia normativa c.d. incompiuta (art. 56 c.p., comma 1: “se l’azione non si compie…”).

Sotto questo profilo i giudici di merito di primo grado hanno ritenuto configurabile nelle condotte del D.N. (e dei coimputati) la fattispecie della desistenza volontaria prevista dall’art. 56 c.p., comma 3, con coerente declaratoria di insussistenza del reato di tentata importazione di cocaina in Italia.

Il Tribunale ha osservato che le trattative per la pianificazione della progettata ingente importazione di droga subiscono un rallentamento dopo il casuale ed imprevisto arresto di D.B. M., l’intermediario dell’operazione in Italia con l’importante ruolo di acquisire il carico di droga non appena giunto a Palermo.

Costui è, infatti, arrestato il 7.8.2002 a Palermo perchè trovato in possesso di 23 chili di marijuana. Tale evento dovuto a cause indipendenti dalle volontà dei coimputati, per quanto importante (le intercettazioni testimoniano il particolare legame che unisce l’imputato D.N.W. al D.B.), non determina – tuttavia- la cessazione delle trattative per l’organizzazione del grosso traffico di cocaina. Contatti e negoziati proseguono. Tant’è che viene individuato nell’imputato M.L. (come da questi confermato) il possibile sostituto del D.B. nel ruolo di intermediario tra le parti dell’accordo criminoso e, a tal fine, il detto M. si pone in contatto con i coimputati palermitani G. e T.. E’ in questa fase, assai successiva all’arresto del D.B., che insorgono più problemi che rendono vieppiù difficoltosa la realizzazione del piano, sì da indurre tutti i partecipi a desistere deliberatamente dal proseguire nella attuazione del progetto. Tali problemi sono individuati dal Tribunale – alla luce delle emergenze probatorie (intercettazioni e dichiarazioni dei coimputati G. e M.) – in primo luogo nel vanificarsi dell’apporto dei complici (finanziatori-acquirenti) palermitani, preoccupati di suscitare, con l’importazione di un quantitativo di droga rilevante come quello preventivato, le reazioni a livello territoriale della criminalità mafiosa locale, non resa previamente partecipe dell’iniziativa. In secondo luogo nelle incomprensioni insorte tra D.N.W. e i correi pescaresi e baresi, che gli rimproverano – tra l’altro – il disinteresse per le sorti del corriere italiano P.R., arrestato il 18.5.2002 all’aeroporto di Caracas in procinto di rientrare in Italia con cinque chili di cocaina, “commissionatigli” da D.N. R. e forniti dall’odierno imputato. Sicchè i potenziali acquirenti baresi (il non identificato “(omissis)”) comunicano esplicitamente a D.N.W. di non essere più interessati al programmato “affare”. In terzo luogo nelle congiunte sopravvenute difficoltà nel reperire (venuti meno alcuni gruppi del cartello di acquirenti) le considerevoli risorse economiche per perfezionare il notevole acquisto di droga e di trovare affidabili canali per trasferire all’estero senza destare sospetti le rilevanti somme di denaro occorrenti per l’acquisto.

A fronte di tutti questi elementi il Tribunale di Palermo ha ritenuto sussistere l’ipotesi della desistenza attiva di cui all’art. 56 c.p., comma 3, scaturita dalla concorde determinazione volontaria dei coimputati, compreso il “fornitore” venezuelano D.N.W..

Una forma volontaria di desistenza, quindi, dipendente unicamente dalla libera scelta degli imputati, atteso che essi – pur dopo l’arresto dell’intermediario D.B. – ben avrebbero potuto proseguire nel già avanzato percorso organizzativo ed esecutivo del piano, come si evince dall’illustrato protrarsi per un buon periodo di tempo delle instaurate trattative finanziarie e logistiche dell’affare. Conclusione cui il Tribunale perviene attraverso l’ampia motivazione della decisione, non senza puntualizzare come tale esito valutativo si coniughi alle analoghe conclusioni raggiunte nel processo principale (decisione incidentale del Tribunale del riesame cautelare; sentenza del g.u.p. in giudizio abbreviato, confermata dalla Corte di Appello di Palermo) a carico dei coimputati di D. N.W., prosciolti con l’analoga formula liberatoria dell’insussistenza del fatto per intervenuta desistenza volontaria ex art. 56 c.p., comma 3, (sentenza Tribunale, p. 58: “…va condiviso l’orientamento delle altre autorità giudiziarie che hanno proceduto nei confronti dei coimputati, sussumendo l’episodio nel reato tentato…anche per evitare inaccettabili disparità di trattamento dei diversi correi nel medesimo fatto… l’inquadramento, per il solo D.N., della fattispecie nel diverso delitto di promessa in vendita, oltre a determinare una obiettiva disparità di trattamento tra i vari coimputati del medesimo fatto di reato, appare in contrasto con la peculiare ipotesi di importazione dall’estero di droga e con lo stato della fase organizzativa ed esecutiva già posta in essere”).

1.4. Come si desume dalle precisazioni appena riportate, il Tribunale di Palermo ha correttamente affrontato, in via preliminare, la tematica della corretta qualificazione giuridica della condotta criminosa attribuita all’imputato e ai correi separatamente giudicati in riferimento alla possibile riconducibilità della specifica condotta di fornitore della droga destinata ad essere importata in Italia dell’imputato D.N. alla diversa ipotesi della semplice offerta o messa in vendita della partita di cocaina, condotta alternativa sanzionata dalla L. S., art. 73, comma 1, da considerarsi, in tesi, compiutamente consumata dal D.N..

I giudici di primo grado muovono, nell’esame della questione, da una decisione di legittimità (Cass. Sez. 4,10.3.2005 n. 44621, Orlando, rv. 232819), secondo cui, in tema di rapporto istituibile tra il reato di tentata cessione di stupefacenti e il reato consumato di offerta in vendita di stupefacenti, qualora tra venditore e acquirente non si raggiunga un accordo perfezionativo della vendita (su qualità, quantità e prezzo della droga), deve ritenersi ravvisabile a carico del venditore il reato consumato di messa in vendita dello stupefacente e non quello di tentata vendita. Ipotesi, quest’ultima, che non sarebbe configurabile perchè il legislatore, con l’art. 73, L.S., ha anticipato – quanto alla vendita e alla cessione delle sostanze stupefacenti – la soglia di punibilità con la previsione delle condotte di messa in vendita e di offerta che, sicuramente antecedenti alla vendita e alla cessione, si connotano – diversamente dalla vendita e dalla cessione – per la non avvenuta “dazione” della droga. Osserva nondimeno il Tribunale che, come può evincersi dalla motivazione della citata sentenza, la S.C. non ha inteso escludere in maniera assoluta la possibilità di configurare il tentativo di cessione di sostanze stupefacenti. Di tal che l’anticipazione della soglia di punibilità non può riguardare indistintamente tutti i casi di cessione o (come nel caso di specie) di importazione dall’estero di droga, poichè si perverrebbe ad una sostanziale estromissione dall’ordinamento giuridico dell’ipotesi del tentativo punibile di tale reato. Nel caso di offerta in vendita di droga per realizzare la consumazione del reato è sufficiente la mera dichiarazione di disponibilità dello stupefacente da parte dell’offerente venditore, purchè seria e astrattamente realizzabile.

Nel caso di disponibilità immediata e concreta della droga oggetto di una cessione o importazione, per altri versi non conclusasi, rimangono ampi margini per ravvisare l’ipotesi del tentativo, ove di questo ricorrano le condizioni. E al fine di un corretto inquadramento della fattispecie concreta si rende indispensabile prendere in considerazione, per non incorrere nell’errore concettuale di un possibile eccesso di anticipazione della soglia di punibilità, anche il contesto generale in cui si sono svolte le trattative tra venditore e potenziali acquirenti e tutte le attività propedeutiche alla cessione. In base alle emergenze probatorie della regiudicanda ascritta al fornitore e venditore D.N.W. si è in presenza di un’articolata attività di narcotraffico tra il Venezuela e l’Italia, nel cui alveo si colloca anche l’episodio di tentata importazione per cui è processo (sentenza, p. 6: “Non si tratta di pure e semplici trattative tra un fornitore straniero, l’odierno imputato, che si dichiarava in possesso di sostanze stupefacenti e possibili acquirenti italiani, ma di un ulteriore carico di cocaina che andava ad aggiungersi ad altri episodi di importazione di droga già conclusi e perfezionati”).

2. Il Procuratore della Repubblica di Palermo ha appellato la sentenza del Tribunale, deducendo l’erronea applicazione della causa esimente prevista dall’art. 56 c.p., comma 3, per illogico apprezzamento dei motivi che hanno provocato la mancata esecuzione della programmata importazione in Italia di 100 o 200 chili di cocaina. Motivi da reputarsi indipendenti dalla volontà del D. N. e dei coimputati e che lasciano, per ciò, invariati gli elementi strutturali del contestato tentativo punibile di importazione di droga. Motivi che vanno individuati soltanto nell’imprevisto e casuale arresto del coimputato D.B.C., la decisività del cui ruolo nel portare a definitiva conclusione la progettata importazione è evidenziata dallo stesso Tribunale. E’ tale arresto che provoca la stasi e l’abbandono del progetto già in via di elaborazione organizzativa e modale, come ancora osserva lo stesso Tribunale.

In via subordinata l’appellante p.m. ha reintrodotto l’ipotesi della sussumibilità della condotta del D.N. nella alternativa ipotesi di reato consumato della offerta in vendita di droga.

Fattispecie che, come statuito dalla giurisprudenza di legittimità, non implica l’accettazione dell’offerta da parte del potenziale acquirente. Accettazione che, per il principio consensualistico di derivazione civilistica che regola anche la compravendita di droga, ricondurrebbe il fatto nella casistica della cessione o vendita.

L’impugnazione del p.m. è stata contrastata da una memoria dei difensori di D.N.W. che, deducendo l’infondatezza della tesi dell’appellante, hanno segnalato come le posizioni di tutti gli altri coimputati nel medesimo reato ascritto al D.N. siano state definite con il proscioglimento per ritenuta desistenza volontaria. La memoria ha addotto che: 1) i coimputati diversi dai due fratelli D.N. (posizioni entrambe separate per ragioni processuali) sono stati prosciolti in primo grado all’esito di giudizio abbreviato con sentenza 9.2.2007 del g.u.p. del Tribunale di Palermo, sentenza che – impugnata dal p.m. – è stata confermata dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza del 28.10.2008; 2) l’imputato D.N.R. è stato prosciolto dalla stessa accusa di tentata importazione di droga con sentenza della Corte di Appello di Palermo del 24.9.2009, passata in giudicato in parte qua, essendo oggetto di ricorso per cassazione per la sola confermata condanna relativa all’episodio criminoso connesso all’operazione di narcotraffico culminata nell’arresto in Venezuela del correo P. (tutte le citate decisioni sono state versate agli atti del processo).

3. Con la sentenza pronunciata il 14.2.2011, richiamata in epigrafe, la Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado e in parziale accoglimento del gravame del p.m., ha ritenuto la condotta di D.N.W. qualificabile come “offerta in vendita consumata di ingente quantitativo di stupefacente del tipo cocaina” e, in ragione della ritenuta diversità del fatto contestato, ha disposto – ai sensi dell’art. 521 c.p.p., comma 2 – la trasmissione degli atti al pubblico ministero per quanto di competenza.

3.1. I giudici di secondo grado hanno condiviso la ricostruzione delle varie fasi della vicenda criminosa oggetto del processo sviluppata dal Tribunale, ma hanno ritenuto erroneo l’apprezzamento della specifica condotta del fornitore D.N.W.. Se è evidente che non basta il mancato perfezionamento dell’accordo sulla compravendita di droga per escludere il tentativo di acquisto quando risultino compiute – come nel caso di specie – attività idonee e dirette in modo non equivoco alla realizzazione dell’acquisto, diversa valutazione deve svolgersi – osserva la sentenza di secondo grado – per la posizione del potenziale venditore – fornitore. Il suo contegno ricade comunque nell’ambito di una offerta o messa in vendita dello stupefacente penalmente rilevante ai sensi dell’art. 73, comma 1, L.S. In tale diversa fattispecie di “anticipata” punibilità, consumata senza necessità di accettazione dell’offerta, deve ricondursi il comportamento dell’imputato venezuelano.

Come puntualizzato dal Tribunale, è pacifico che il D.N. avesse la reale disponibilità (o l’agevole possibilità di procurarsela) dell’imponente quantità di cocaina (100/200 chili) oggetto delle trattative di vendita con i coimputati italiani.

Sbaglia, però, il Tribunale nell’assimilare la posizione dell’imputato a quella dei correi attivi in Italia (acquirenti della cocaina), non tenendo conto della peculiare diversità dei loro rispettivi ruoli. In altri termini, se per i promissari acquirenti italiani può anche ritenersi ravvisabile una volontaria desistenza dal portare a conclusione l’acquisto di droga, la condotta del D. N. operante a Caracas è già esaurita nei suoi aspetti di rilevanza penale nell’ambito della diversa fattispecie, perfezionata in tutti i suoi elementi (reato consumato), di offerta o messa in vendita della droga.

In questa ottica la Corte territoriale rileva, quindi, un “difetto di contestazione” consistito nella omologazione della posizione del D. N., offerente in vendita, a quella dei potenziali acquirenti e destinatari dello stupefacente, i correi per i quali si è proceduto separatamente. Difetto di contestazione avallato dalla sentenza del Tribunale, “che ha ritenuto non sussistente il tentativo senza distinguere le condotte”. 3.2. Nulla precisandosi nel dispositivo della decisione sulle sorti della sentenza del Tribunale all’esito della “riqualificazione” giuridica del fatto reato ascritto a D.N.W., la Corte palermitana ha chiarito nella motivazione della sentenza la contestualità per dir così automatica dell’effetto di annullamento o caducazione della sentenza assolutoria di primo grado.

Premesso che la mancanza di correlazione tra fatto contestato e fatto risultato nel dibattimento deve essere rilevata dal giudice di appello, sia quando la diversità del fatto non sia stata rilevata dal giudice di primo grado, sia quando essa risulti nel giudizio di appello, i giudici di secondo grado osservano che – in forza del combinato disposto degli artt. 521 e 598 c.p.p. – il giudice del gravame non può che rinviare gli atti al pubblico ministero, non trovando applicazione la specifica disciplina dettata dall’art. 604 c.p.p., comma 1, che impone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado ed è riferibile alla differente ipotesi della nullità sancita dall’art. 522 c.p.p., in cui il giudice di primo grado abbia condannato per un fatto diverso in violazione delle regole sulle contestazioni dibattimentali. A sostegno di tale assunto la sentenza richiama una decisione di questa S.C. (Cass. Sez. 1, 28.2.2006 n. 8831, *********, rv. 233795), alla luce della quale articola il successivo passaggio della motivazione. In essa si aggiunge che, dovendo il giudice di appello che accerti la diversità della regiudicanda annullare – in applicazione analogica dell’art. 604 c.p.p., comma 1 – la sentenza di primo grado, tale esito caducatorio è indotto dal fatto che altrimenti la sentenza di primo grado, in quanto suscettibile di passare in giudicato e di dar luogo alla preclusione di cui all’art. 649 c.p.p., renderebbe inutile la trasmissione degli atti al p.m. perchè proceda per il ritenuto diverso fatto reato.

Di tal che nel caso dell’imputato D.N., la cui condotta si mostra diversa da quella sulla quale si è difeso ed abbisogna di specifica nuova contestazione, l’adottata decisione nella parte in cui dispone la trasmissione degli atti al p.m. serve l’interesse dell’imputato tutelato dall’art. 522 c.p.p., mentre nella parte in cui annulla la sentenza di primo grado ha la funzione di rimuovere ogni possibile preclusione all’iniziativa del p.m. (“il quale tornando ad essere titolare dell’azione penale avrà il solo vincolo di non ripetere la medesima contestazione”). Conseguente è per i giudici di appello la definizione della propria decisione come meramente processuale (“perchè non si pronuncia nè sul fatto contestato, non potendo farlo per non creare preclusioni, nè su quello diverso che emerge dagli atti, non potendo giudicare su un fatto non contestato”). L’annullamento della sentenza di primo grado che si unisce alla restituzione degli atti al p.m. perchè proceda per il fatto diverso non determina, del resto, alcun pregiudizio per l’imputato, posto in grado di difendersi durante le nuove indagini, che possono sfociare anche in una archiviazione, o nel corso del nuovo giudizio (così la citata sentenza di legittimità n. 8831/2006).

Ad avviso dei giudici di appello il fatto che il dispositivo non abbia enunciato formalmente la statuizione di annullamento della sentenza di primo grado impugnata dal p.m. non fa venire meno la certezza della delibata “illegalità della sentenza impugnata per aver ritenuto un fatto diverso”. Per altro l’esplicito riferimento in dispositivo all’art. 521 c.p.p., comma 2, vale a “chiarire senza ombra di dubbio la volontà della Corte di riformare, annullandola, la sentenza impugnata”. Nè argomento contrario potrebbe trarsi dalla mancata indicazione (sempre nel dispositivo) dell’art. 604 c.p.p., perchè nel caso del D.N. la prima sentenza è stata di assoluzione e non di condanna (“per cui, esulando dalla fattispecie le ipotesi disciplinate dall’art. 604 c.p.p., l’esplicito riferimento alla riforma della sentenza non può che essere inteso in senso formale, dovendosi ritenere sul piano sostanziale come vero e proprio annullamento, secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza Paglini” (Cass. S.U., 6.12.1991 n. 2477, *******, rv. 189397, ndr)).

4. Avverso la descritta sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di D.N.W., denunciandone vizi di violazione di legge sotto i due profili di seguito sintetizzati.

4.1. Violazione ed erronea applicazione degli artt. 521, 597, 598, 604 e 605 c.p.p..

Premesso che la statuizione di annullamento della sentenza di primo grado, non indicata nel dispositivo della sentenza e surrogata dalla sua posteriore motivazione, qualifica la specificità dell’interesse impugnatorio del ricorrente (alla conservazione della prima sentenza assolutoria), la decisione impugnata è illegittima e abnorme.

Innanzitutto ai sensi dell’art. 597 c.p.p., in caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento, la cognizione del giudice di appello è limitata alla pronuncia di una sentenza di condanna o di proscioglimento per una causa diversa da quella ritenuta dalla sentenza appellata. La decisione della Corte di Appello di Palermo non rientra in nessuno dei casi previsti dall’art. 597 c.p.p., e fuoriesce dai parametri delimitativi della cognizione del giudice di secondo grado.

In secondo luogo è erroneo il tentativo della Corte di applicazione analogica dell’art. 604 c.p.p., comma 1, al di fuori dei casi tassativamente previsti da tale norma, secondo cui soltanto in presenza di una sentenza di condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo il giudice di appello è legittimato a dichiarare la nullità della sentenza con connessa trasmissione degli atti al pubblico ministero. Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito ogni possibile equivoco, affermando che il giudice di appello può esercitare il potere di annullamento del provvedimento impugnato, tipico della giurisdizione di legittimità, nei soli casi previsti dall’art. 604 c.p.p., al di fuori di tali ipotesi tassative applicandosi i principi di conservazione degli atti e di economia processuale (così Cass. Sez. 4, 17.1.2008 n. 13916, Romano, rv. 239221).

In terzo luogo in base alla lettura coordinata dell’art. 597 c.p.p., comma 2, lett. b), e art. 604 c.p.p. (norma, questa, non suscettibile di applicazione analogica), risulta evidentemente inapplicabile il disposto dell’art. 521 c.p.p., comma 2, nei procedimenti di appello instauratisi esclusivamente a seguito di impugnazione proposta dal p.m. avverso una sentenza di assoluzione. Il principio di correlazione tra accusa e sentenza è, d’altra parte, espressamente previsto a tutela del diritto di difesa e non è impropriamente applicabile per una sentenza di assoluzione. Non sottacendosi, inoltre, che la trasmissione degli atti al p.m. per ritenuta diversità del fatto reato va in ogni caso disposta con ordinanza, sì che la decisione di appello ha utilizzato un tipo di provvedimento (sentenza) non previsto dalla legge per il conseguimento degli effetti di cui all’art. 521 c.p.p., comma 2.

In quarto ed ultimo luogo è incongruo il richiamo all’art. 649 c.p.p., operato dalla sentenza di appello in funzione preventiva di preclusioni all’esercizio dell’azione penale per il presunto fatto diverso, atteso che il c.d. principio del ne bis in idem è efficace soltanto nei confronti del medesimo fatto, seppure diversamente qualificato, oggetto di un procedimento definito con sentenza irrevocabile. Nel caso di specie, essendosi in presenza di un “fatto diverso”, nessuna preclusione potrebbe pregiudicare l’esercizio di una “nuova” azione penale da parte del p.m. Ne consegue che la Corte di Appello, pur rilevando un fatto diverso, avrebbe comunque dovuto confermare la sentenza di assoluzione per il fatto (diverso) originariamente contestato al D.N..

4.2. Violazione dell’art. 56 c.p., e art. 73, comma 1 L.S..

Ad ulteriore prova del concreto interesse del ricorrente al ripristino della originaria imputazione appare evidente che la sentenza di appello ha errato nel formulare a carico del D.N. la diversa ipotesi criminosa dell’offerta in vendita di stupefacente.

Già il Tribunale aveva verificato l’eventuale diversa qualificazione giuridica dell’accusa contestata, affrontando in fatto e in diritto la diversa ipotesi dell’offerta in vendita ed escludendola con adeguata e logica motivazione (segue, nel ricorso, la trasposizione delle pagine 4-7 della motivazione del Tribunale sul punto).

Il Tribunale ha ritenuto che la condotta anticipata di mera offerta in vendita era stata largamente superata da tutta una serie di atti posti in essere dall’imputato e tali da configurare la successiva condotta di tentata importazione non andata a buon fine per desistenza volontaria. Dinanzi alle argomentazioni logiche e coerenti della sentenza di primo grado la Corte di Appello non ha valutato se la condotta di offerta in vendita era da ritenersi superata dalla successiva ipotesi di importazione in forma tentata, in difetto di alcun nuovo elemento tale da modificare la già delineata vicenda processuale.

5. Il ricorso proposto nell’interesse di D.N.W., ammissibile, è assistito da fondamento e l’impugnata sentenza della Corte di Appello di Palermo deve essere annullata senza rinvio per insussistenza del fatto reato ascritto all’imputato in applicazione della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 56 c.p., comma 3. 5.1. Che la composita sentenza di appello definita dalla stessa Corte territoriale meramente processuale, benchè si dilunghi anche nell’esame del merito dell’originaria regiudicanda elevata a carico dell’imputato per affermare la ritenuta diversità del fatto contestato, sia ricorribile per cassazione – in presenza di palese interesse dell’imputato a mantenere ferma la decisione liberatoria di primo grado – è evenienza giuridica non meritevole di particolare commento, atteso il principio generale (art. 111 Cost., art. 568 c.p.p., comma 2) per cui tutte le sentenze, ove non altrimenti impugnabili, sono ricorribili per cassazione senza possibilità di distinzione tra sentenze di merito e sentenze c.d. processuali (cfr.: Cass. Sez. 5, 25.9.2001 n. 38795, *****, rv. 220800; Cass. Sez. 4, 17.1.2008 n. 13916, Romano, rv. 239221, citata nel ricorso dell’imputato; Cass. S.U. 25.6.2009 n. 29529, P.G. in proc. *********, rv. 244108, che ha risolto la questione della ricorribilità per cassazione di una sentenza di annullamento di merito in rapporto agli artt. 607 e 608 c.p.p.; Cass. Sez. 6, 1.7.2009 n. 34828, **********, rv. 244770).

Il richiamo effettuato dalla sentenza di appello all’art. 649 c.p.p., a sostegno dell’affermata duplice natura dell’adottata decisione (sentenza di annullamento processuale; ordinanza di trasmissione degli atti al p.m.) è, del resto, inconferente ed anzi è proprio il principio del divieto del ne bis in idem che concorre a rendere concreto e attuale l’interesse al ricorso dell’imputato. In vero nel caso della decisione di appello in esame difetta per definizione il requisito della “medesimezza del fatto” produttivo della preclusione processuale ad un nuovo giudizio nei confronti del D.N..

Essendosi ipotizzata la diversità del fatto reato ascritto al ricorrente, quale causa della trasmissione degli atti al p.m. per l’esercizio dell’azione penale in ordine al “fatto diverso”, è evidente che, come si osserva in ricorso, nessuna preclusione potrebbe mai incontrare il p.m. nell’esercizio dei suoi poteri di azione. Laddove, invece, palese diviene l’interesse dell’imputato a preservare il passaggio in giudicato della decisione assolutoria sull’altro diverso fatto inizialmente ascrittogli.

5.2. I rilievi di natura processuale formulati con il primo motivo di ricorso sono in gran parte fondati, ancorchè superati e assorbiti dal decisivo accoglimento del secondo motivo di ricorso afferente al merito della decisione impugnata in punto di definizione giuridica (diversa) attribuita alla condotta criminosa di D.N.W..

Messa da canto, perchè non funzionale alla presente decisione, la problematica della discordanza tra il dispositivo (che, solo, integra il decisum della pronuncia) della sentenza di secondo grado, non recante alcuna statuizione sull’annullamento della sentenza di primo grado appellata dal p.m., e la motivazione della sentenza di appello, che indugia nel precisare l’effetto caducatorio della sentenza del Tribunale immanente nella decisione assunta ex art. 521 c.p.p., comma 2, la sentenza impugnata dal D.N. non può definirsi abnorme, ma unicamente viziata da erronea applicazione della legge processuale. Nel senso che erroneamente la Corte di Appello ha sostenuto e giustificato l’avvenuto annullamento della sentenza di primo grado, quando – nella descritta situazione di ritenuta diversità del fatto contestato all’imputato – avrebbe dovuto limitarsi a disporre la trasmissione degli atti al p.m. senza annullare la prima sentenza, non ponendosi nel caso di specie un problema di vanificazione delle garanzie difensive (privazione di un grado di giudizio) del D.N., in quanto prosciolto in primo grado.

5.3. La sentenza impugnata giustifica l’effetto di annullamento della decisione di primo grado riveniente dalla diversa qualificazione del fatto contestato con il supporto della giurisprudenza di legittimità che avvalorerebbe l’illustrata tesi (Cass. Sez. 1, 28.2.2006 n. 8831, *********, rv. 233795 e successive decisioni conformi), sia ponendo l’accento sulle esigenze di salvaguardia dei diritti di difesa dell’imputato, rivelatisi compromessi da una erronea contestazione elusiva del principio di correlazione ex art. 521 c.p.p., sia di evitare, come detto, possibili preclusioni derivanti dal giudicato della prima decisione. Donde la necessità del suo annullamento. A tal fine la sentenza evoca un’applicazione analogica dell’art. 604 c.p.p., comma 1, che, oltre a porsi in contraddizione con l’estraneità del caso del D.N. (assolto dal Tribunale) alla previsione della ridetta norma, pur rilevata dalla stessa Corte di Appello, è quanto meno impropria.

L’indirizzo della giurisprudenza di legittimità in tema di annullamento della sentenza di primo grado, quando il giudice di appello rilevi la diversità del fatto contestato e restituisca gli atti al p.m. per sanare la violazione delle regole in tema di contestazioni dibattimentali (artt. 521 e 522 c.p.p.), indirizzo cui esplicitamente si richiamano i giudici di appello palermitani, non viene in discussione. Nè possono porsi in dubbio i principi affermati pressochè uniformemente dalle decisioni di legittimità che sostanziano tale orientamento interpretativo dell’art. 604 c.p.p., comma 1 (cfr., ex pluribus: Cass. S.U., 6.12.1991 n. 2477/92, *******, rv. 189397; Cass. Sez. 2, 19.11.2004 n. 47976, ************, rv. 230954; Cass. Sez. 1, 31.1.2006 n. 8351, *******, rv. 233512; Cass. Sez. 1, 17.2.2006 n. 11576, *********, rv. 233792; Cass. Sez. 6, 10.10.2007 n. 47549, P.G. in proc. **********, rv. 238323; Cass. Sez. 1, 17.3.2010 n. 18509, P.G. in proc. ********, rv. 247200; Cass. Sez. 4, 9.2.2010 n. 18135, P.G. in proc. C, rv. 247533).

Ciò che rileva, evidenziando l’errore prospettico in cui è caduta la Corte di Appello, è soltanto il dato per cui tali principi non sono applicabili al caso specie concernente l’imputato D.N..

Per un verso, infatti, la casistica contemplata dall’art. 604 c.p.p., comma 1, la sola in nome della quale è consentito al giudice di appello annullare la sentenza di primo grado, ha carattere tassativo, come deve argomentarsi anche da una recente decisione delle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice (Cass. S.U. 27.11.2008 n. 3287/09, rv. 244118), e in tale casistica non possono farsi ricadere vizi diversi da quelli ivi contemplati, quali eventuali vizi della motivazione della sentenza appellata, al pari di quelli ipotizzati dai giudici di appello nella sentenza assolutoria del Tribunale con riguardo alla corretta definizione del fatto costituente la regiudicanda (cfr. ex multis: Cass. Sez. 5, 9.2.2000 n. 727, *********, rv. 215726; Cass. Sez. 5, 8.2.2005 n. 11961, P.C. in proc. **********, rv. 232058; Cass. Sez. 5, 19.2.2010 n. 19051, ********, rv. 247252). Laonde appare quanto meno problematico supporre che del disposto dell’art. 604 c.p.p., comma 1, possa operarsi una applicazione processuale analogica nel senso proprio dell’istituto della analogia (art. 12 preleggi, comma 2).

Per altro e complementare verso la palese inapplicabilità (anche analogica) al caso del ricorrente D.N. delle descritte regole richiamate nella sentenza impugnata discende dal fatto che la sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale nei confronti del D.N. è una sentenza di proscioglimento con formula ampiamente liberatoria (insussistenza del fatto reato), impugnata dal solo p.m. Non già, quindi, una sentenza di condanna o comunque sfavorevole all’imputato, che è la sola decisione considerata annullabile dall’art. 604 c.p.p., comma 1, per violazione del principio di correlazione e della connessa disciplina dibattimentale (art. 516 c.p.p. e ss.). E’ agevole constatare, del resto, quando non ci si limiti alla lettura delle sole massime delle decisioni di questa S.C. – che tutte le sentenze prima citate che, nell’ipotesi di diversità del fatto rilevata in appello, prevedono in uno alla trasmissione degli atti al p.m. il coevo annullamento della sentenza di primo grado, contemplano senza eccezioni casi di sentenze di condanna in primo grado. E ciò è a dirsi anche per quelle isolate decisioni che evocano la possibile applicazione analogica dell’art. 604 c.p.p., comma 1, (Cass. Sez. 5, 27.10.2006 n. 18509, Verde, rv. 247200; Cass. Sez. 4, 9.2.2010 n. 18135, rv. 247533). Applicazione analogica, va precisato per completezza, che è ù tuttavia – calibrata in relazione all’esigenza di prevenire potenziali applicazioni dell’art. 649 c.p.p., in casi in cui la diversità del fatto, non rilevata dal giudice di primo grado, investe condotte punibili non totalmente estranee all’area di “medesimezza” ontologica del fatto storico individuata dagli artt. 516 e 649 c.p.p. (condotte in parte sovrapponibili in più segmenti attuativi ovvero diversamente circostanziate ovvero, ancora, soltanto sussumibili in fattispecie incriminatrici diverse per nomen iuris).

E’ allora chiaro, per concludere, che, in tanto possono correlarsi all’annullamento della sentenza di primo grado pretese esigenze di garanzia dei diritti di difesa dell’imputato, osservandosi – come afferma la sentenza impugnata – che l’annullamento della prima sentenza non pregiudica l’imputato, che può difendersi nel corso delle nuove indagini o nel nuovo giudizio, in quanto la sentenza di primo grado sia una sentenza di condanna (come richiesto dall’art. 604, comma 1). Solo in questo caso la regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari può non essere fonte di nocumento dell’imputato, che in tal caso al disagio di una protratta pendenza giudiziaria (non disgiunto, però, dall’incedere dei termini prescrizionali) si coniuga l’oggettivo beneficio della caducazione di una sentenza che ne ha comunque affermato la penale responsabilità per un determinato fatto reato.

5.4. Ferma l’erronea declaratoria di nullità della sentenza assolutoria di primo grado nei confronti di D.N.W., integrativa di un dispositivo della decisione che a posteriori deve giudicarsi corretto ed esauriente, l’errore più rilevante della sentenza di appello attiene, sul piano sostanziale, alla ritenuta diversità del fatto contestato (rectius contestabile) all’imputato, giudicato riconducibile alla fattispecie incriminatrice della offerta o messa in vendita consumata (le due ipotesi sono lette in giurisprudenza e in dottrina come sinonimi, sebbene non paiano omologabili sul piano strettamente semantico), in luogo del concorso nella tentata importazione di droga in Italia ab origine contestato al D.N..

5.4.1. L’errore della Corte di Appello, che non si è confrontata con la valutazione del tema della corretta qualificazione del fatto pur diffusamente affrontato dal Tribunale, appare indotto da un fuorviato inquadramento del reato previsto dall’art. 73, comma 1 L.S., in base al quale si è finito per valorizzare un segmento dell’azione del D.N. estrapolato dall’interezza della sua condotta e dal complessivo contesto intersoggettivo o relazionale in cui essa si è inserita, contribuendo a dare corpo alla regiudicanda per cui lo stesso D.N. e i suoi coimputati sotto stati tratti a giudizio per rispondere dello stesso reato in concorso tra loro (appunto il tentativo di importazione di droga in Italia). Con ulteriori potenziali conseguenti effetti o sviluppi processuali non considerati dalla Corte di Appello.

Effetti che investono l’applicazione del principio di territorialità della legge penale italiana di cui all’art. 6 c.p., comma 2. Se la condotta del D.N. integra per la Corte di Appello il reato di offerta in vendita di droga a potenziali acquirenti italiani, con cui egli ha avuto contatti telefonici rimanendo in Venezuela, tale reato (consumato a prescindere da ogni possibile o presumibile trattativa negoziale) si perfeziona nel momento e nel luogo in cui avviene l’offerta o manifestazione d’intenti dell’offerente e potenziale venditore. Quindi nel caso del D.N. in Venezuela nel giugno del 2002. Donde l’inesistenza della giurisdizione italiana su siffatto reato, difettando ogni momento di collegamento territoriale (se non astratto o soltanto virtuale) con l’Italia, indispensabile per la punibilità del fatto reato, come prevede l’art. 6 c.p., comma 2, (non ricorrendo le eventuali ulteriori ipotesi di cui agli artt. 7 e 8 c.p.). Ed effetti, ancora, che lambiscono il tema del divieto di reformatio in peius (art. 597 c.p.p., comma 3). Ribadendosi che la sentenza assolutoria di primo grado è stata a suo tempo appellata dal solo p.m., il D.N. – se ritenuto responsabile del reato monosoggettivo consumato di offerta in vendita di droga – potrebbe vedersi infliggere una pena ampiamente superiore a quella prevista nel caso in cui fosse stato giudicato colpevole dell’originario reato di concorso in tentata importazione di droga in Italia.

5.4.2. E’ necessario soffermarsi, allora, sulla esegesi strutturale della fattispecie criminosa prevista dall’art. 73 L.S., rimasta sostanzialmente immutata – quanto alle componenti della materialità del reato – dopo la novella di cui alla L. 21 febbraio 2006, n. 49.

La norma incriminatrice di cui ali art. 73 L.S. sanziona una serie di condotte tipiche equivalenti che si pongono in rapporto di alternatività formale e di progressione criminosa. Quando alcune di tali condotte si susseguono senza soluzione di continuità temporale ed esecutiva e in un medesimo contesto operativo, non si è in presenza di più fatti criminosi (singoli e autonomi reati), ma di una unitaria condotta articolata in più fasi o frazioni esecutive che si fondono inscindibilmente tra loro. E’ soltanto l’analisi del contesto storico in cui si esprimono le condotte antigiuridiche o propedeutiche ad un evento illecito in materia di circolazione di sostanze stupefacenti di uno o più soggetti agenti che permette di decifrare il livello o grado di punibilità delle condotte, cioè delle graduali e crescenti soglie di offensività reale del fatto e, quindi, di inquadrare la fattispecie criminosa, tra quelle alternativamente elencate dall’art. 73, comma 1, L.S., applicabile a quelle condotte.

Come a chiare note emerge dalla ricostruzione sequenziale delle fasi delle complessive condotte collettive dell’odierno imputato D. N. e dei coimputati operanti in Italia sviluppata dalla sentenza del Tribunale in aderenza ai convergenti dati probatori raccolti, ricostruzione che la Corte territoriale sostiene di condividere, è agevole prendere atto di due congiunte e significative evenienze.

L’offerta in vendita della cocaina nell’ingente quantità ipotizzata dalla pubblica accusa riferibile al D.N. non rimane fine a se stessa o isolata sul piano intersoggettivo, ma si inscrive nell’ambito di una serie di rapporti di narcotraffico tra il Venezuela e l’Italia già in atto e di cui sono protagonisti gli stessi D.N. ed i coimputati. Rapporti di cui vi è ampia traccia nelle sentenze versate in atti (e richiamate dal Tribunale) emesse nei confronti di più imputati attivi in Italia. L’offerta in vendita o, per essere più precisi, la messa in vendita della droga (che di questa risulta avere una pronta disponibilità – detenzione e non la sola concreta possibilità di acquisirla) di D.N. W. non si esprime in modo autonomo o individuale, ma si manifesta nel quadro di un contestuale e non scindibile accordo con i coimputati (il “cartello” degli acquirenti italiani con alcuni dei quali già intercorrono “affari” di narcotraffico). Accordo di immediata apprezzabilità penale, anche in ragione del principio consensualistico che regola pure le compravendite (illecite) di sostanze stupefacenti (Cass. Sez.6, 18.4.1995 n.7949, ***********, rv. 201847; Cass. Sez. 5 29.9.2010 n. 39644, Alleanza, rv. 248508), e che fin dall’inizio investe qualità, quantità (100 o 200 chili di cocaina) e perfino il prezzo dell’affare, sviluppandosi poi in trattative e ripetuti contatti intercontinentali per mettere a punto i dettagli organizzativi e logistici del criminoso piano di importazione della droga in Italia, non portato a compimento per la volontaria concorde rinuncia dei soggetti operanti (art. 56 c.p., comma 3).

Le decisioni di legittimità che l’impugnata sentenza di appello richiama per coonestare l’affermata ipotesi dell’autonoma indipendente punibilità dell’offerta in vendita di droga di D. N.W. (per tutte: Cass. Sez. 4, 10.3.2005 n. 44621, Orlando, rv. 232819; Cass. Sez. 1, 25.3.2010 n. 29670, Buffardeci, rv. 248606) valorizzano, non a caso, situazioni e vicende non assimilabili alla regiudicanda coinvolgente il D.N. e i suoi coimputati e nelle quali l’offerta o messa in vendita di droga non si accompagna in termini di contestualità ad alcun vero e serio accordo, sia pure di massima, dell’offerente con i potenziali acquirenti.

5.4.3. Il contegno di offerta in vendita di D.N., insomma, non consuma l’integrale disvalore della sua complessiva condotta di rilievo penale, rappresentandone soltanto un indispensabile previo segmento non separabile dall’unitaria concorsuale vicenda di narcotraffico per cui è processo, che il giudice di primo grado ha correttamente inquadrato nell’ambito del delitto di tentata importazione di droga.

L’art. 73, comma 1, L.S. integra una norma a più fattispecie alternative (condotte plurime), la cui eventuale congiunta realizzazione implica l’assorbimento delle diverse condotte in un unico reato. Quando – come detto – siano poste in essere nello stesso contesto modale e in diacronica e non interrotta concatenazione, più condotte tra quelle sanzionate dall’art. 73, comma 1, L.S. aventi per oggetto materiale un certo quantitativo di sostanza stupefacente, non si determina un fenomeno di concorso formale di reati, ma un unitario fatto criminoso posto in essere nella dinamica esecutiva di un organico ed indivisibile progetto antigiuridico (cfr.: Cass. Sez. 4, 19.11.2008 n. 6203/09, ****, rv. 244101; Cass. Sez. 3, 26.11.2009 n. 8163/10, Merano, rv. 246211; Cass. Sez. 6,11.12.2009 n. 9477/10, *******, rv. 246404). E’ di tutta evidenza che in una situazione di tal genere, in cui le singole condotte illecite afferenti allo stesso progetto di compravendita di droga siano contestuali o cronologicamente contigue e siano riconducibili ad uno stesso soggetto agente o a più soggetti operanti in concorso e previo accordo tra loro, l’unitarietà e la medesimezza del fatto reato, cioè della condotta nel suo complesso e nei suoi segmenti formativi, producono la sussunzione (o assorbimento) del contegno illecito per dir così minore in quello più grave e, in senso lato, onnicomprensivo.

Effetti che assumono una propria specifica significatività quando, come nel caso di specie, una delle frazioni dell’unitario plurisoggettivo comportamento antigiuridico è costituito (come si evince dai dati offerti dalla sentenza di primo grado) da una condotta, più che di semplice offerta o messa in vendita, di reale detenzione illecita dello stupefacente oggetto della concordata transazione. Cioè da una ipotesi criminosa di natura permanente, la cui consumazione si protrae per tutto il tempo in cui si esplica la relazione di disponibilità, materiale e/o giuridica, della droga facente capo al coimputato che, nel quadro dell’accordo criminoso ex art. 110 c.p., inscritto in una collaborazione illecita già in atto, assume il ruolo di fornitore e venditore della sostanza ai coimputati acquirenti (v. Cass. Sez. 4,3.6.2009 n. 34332, ****, rv. 245200).

5.4.4. Nulla ovviamente eccependo il ricorrente D.N. in ordine alla operatività dell’esimente di cui all’art. 56 c.p., comma 3, riconosciuta dalla sentenza di proscioglimento del Tribunale di Palermo (in uniformità alla sua omologa applicazione avvenute per tutti i coimputati del ricorrente separatamente giudicati), non occorre in questa sede – nel rispetto del principio di devolutività dell’impugnazione – soffermasi sull’istituto della desistenza volontaria disciplinato dal citato art. 56 c.p., comma 3. E’ soltanto il pubblico ministero appellante la sentenza assolutoria del Tribunale che ne contesta l’applicazione, ma la sentenza di appello oggi impugnata dal D.N., inquadrando la regiudicanda nell’area della rilevata diversità del reato contestato, coerentemente non ha affrontato tale specifico tema di censura. Il che non esime questa Corte, per le valenze nomofilattiche delle proprie decisioni, dal rilevare incidentalmente che la sentenza di primo grado (derivativamente “confermata” dalla presente decisione) ha offerto ampia e giuridicamente corretta motivazione della ritenuta sussistenza della peculiare causa di risolutiva esclusione della punibilità del contestato reato di tentata importazione concorsuale di droga o, se si preferisce, di esclusione della tipicità normativa del tentativo criminoso per sostanziale difetto del dolo di consumazione dell’azione criminosa.

Dalle osservazioni fin qui illustrare consegue che la palese insussistenza o non configurabilità nella condotta di D.N. M.W.A. dell’ipotesi criminosa alternativa (“diversa”) della “mera” offerta di vendita della droga da esportare dal Venezuela in Italia, ritenuta dalla sentenza della Corte di Appello di Palermo del 14.2.2011, determina l’annullamento senza rinvio di questa decisione per l’insussistenza del predetto fatto reato.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè la condotta di offerta in vendita non sussiste.

Redazione