Motivazione dettagliata della pena superiore alla media edittale (Cass. pen. n. 14087/2013)

Redazione 26/03/13
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 14.6.2011 il Tribunale di Vigevano, in composizione monocratica, condannava M. A. e M. C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche al solo M., alla pena di euro 50.000,00 di ammenda il primo e di euro 80.000,00 di ammenda il secondo, per i reati di cui agli artt. 4, 18 e 28 D.L.vo 276/2003 rispettivamente ascritti; pena sospesa e non menzione per il M..

Rilevava il Tribunale che dalle risultanze processuali era emersa la prova che gli imputati M. e P. si erano limitati a somministrare manodopera alla società del M., con conseguente configurabilità dei reati rispettivamente ascritti ai capi 1), 3) e 4).

Quanto al capo 8, ascritto al M., era stato provato che presso l’unità operativa di F.E. aveva prestato servizio un dipendente della R. srl senza l’autorizzazione prevista dall’art. 4 L. 276/03.

In ordine ai capi 6) e 2) era emersa la prova che i lavoratori a parità di mansioni avevano ricevuto una retribuzione inferiore.

Infine, in ordine al reato di cui al capo 4) risultava provato che i dipendenti della ditta appaltatrice erano gestiti dalla committente.

Non era maturata la prescrizione, in quanto il termine triennale previsto dall’art. 157 c.p. si riferisce a pene di specie diverse da quella detentiva o pecuniaria (nel caso di specie è prevista l’ammenda anche se proporzionale e progressiva).

Manifestamente infondata era l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 18 D.L.vo 276/2003, essendo frutto di discrezionalità legislativa non irragionevole la scelta di una pena “progressiva”.

Il grave precedente del M. non consentiva la concessione al medesimo delle circostanze attenuanti generiche, che andavano invece concesse al M. (incensurato).

2. Avverso la predetta sentenza proponeva appello il M., a mezzo del difensore, deducendo l’erronea interpretazione dei fatti, la mancanza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato e chiedendo, quindi di essere assolto perché il fatto non sussiste.

Dopo aver ripercorso la vicenda processuale, assumeva che non vi era la benché minima prova che si trattasse di intermediazione, essendosi gli Ispettori del lavoro, sentiti a dibattimento, limitati ad affermare che nel corso del sopralluogo avevano trovato gli operai intenti a svolgere attività lavorativa all’interno del capannone di F.E.. Anzi la difesa aveva piuttosto fornito la prova che i contratti di subappalto erano veri.

Inoltre, quanto alla pena da comminare, non vi era prova in ordine al numero dei lavoratori impiegati e delle giornate della presunta prestazione di manodopera. Con il secondo motivo lamentava la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, la eccessività della pena irrogata e l’omessa concessione della sospensione della pena.

Con il terzo motivo, infine, eccepiva la prescrizione, applicandosi a norma dell’art.157 c.p., come riformulato dalla L. 251/05 il termine di anni 3 (per il reato è prevista infatti una pena pecuniaria proporzionale impropria).

3. Appellava anche il M., a mezzo del difensore.

Con il primo motivo deduceva l’erroneità del provvedimento di rigetto della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 D.L.vo 276/2003. Con il secondo, terzo e quarto motivo chiedeva l’assoluzione dal reato di cui al capo 4) perché il fatto non sussiste, non essendo emersa alcuna prova della responsabilità dell’imputato (la circostanza che il lavoro venisse svolto presso il capannone di C. non era univocamente indiziante), dal reato di cui ai capi 5, 7 e 8 (la circostanza che il personale degli appaltatori dovesse seguire le direttive della E. non era univocamente indiziante; le fatture agli atti dimostravano l’esistenza di un reale rapporto di appalto) e dal reato di cui al capo 6) (l’assoluzione dal reato di cui al capo 5, comportava l’assoluzione anche per tale capo; in ogni caso i lavoratori non avevano sollevato questioni in ordine al loro trattamento economico).

Con il quinto motivo deduceva l’illogicità e contraddittorietà della contestuale contestazione e condanna per il capo 4) e per i capi 5, 6, 7, 8 (essendo i fatti avvenuti in luoghi vicini e pressoché contemporaneamente).

Con il sesto motivo deduceva che la fattispecie dell’appalto genuino certificabile di cui all’art. 84 D.L. vo 276/03 non aveva ancora trovato attuazione.

Con il settimo motivo eccepiva la prescrizione del reati. La pena progressiva proporzionale di cui all’art. 18 D.L.vo 276/2003 costituisce una pena diversa da quella detentiva e quella pecuniaria, per cui, a norma dell’art. 157 come riformulato, il termine di prescrizione è di anni 3.

Con l’ottavo motivo, infine, chiedeva l’applicazione del minimo della pena e del minimo aumento per la continuazione.

4. Essendo la sentenza inappellabile, qualificata l’impugnazione come ricorso ex art. 568 co.5 c.p.p., gli atti venivano trasmessi a questa Corte.

5. Con motivi nuovi il difensore del M. eccepisce la illegittimità costituzionale dell’art. 593 co. 3 c.p.p. per violazione dell’art. 3 Cost. Pur essendo sostanzialmente uniforme la posizione di partenza tra somministratore (o utilizzatore) e intermediario, il trattamento sanzionatorio e processuale è gravemente deteriore per il primo, che, pur condannato a sanzione pecuniaria molto grave (è previsto un coefficiente proporzionale fisso di 50 euro, da moltiplicare per il numero di lavoratori ed il numero di giornate di lavoro illecito), non può proporre appello al contrario del secondo (per il quale è prevista una pena fissa dell’arresto fino a 6 mesi e dell’ammenda da euro 750 a 3.750). Deduce, poi, la mancanza di motivazione in ordine al rigetto della questione di costituzionalità sollevata con l’atto di appello (poi convertito), la manifesta illogicità della motivazione in ordine ai capi 4, 5, 6, 7, 8 e la mancanza di motivazione in ordine alla questione sulla fattispecie di appalto genuino certificabile. 

 

Considerato in diritto
 

1. I ricorsi sono manifestamente infondati.

2. Il primo motivo dell’atto di appello (poi convertito) ed il secondo dei motivi nuovi, con i quali si eccepisce dal M. il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine al rigetto della sollevata questione di costituzionalità, sono inammissibili.

Secondo costante giurisprudenza di questa Corte (a partire da quella più risalente) “il provvedimento di rigetto della eccezione di incostituzionalità non è soggetto ad impugnazione, attenendo alla verifica (positiva) di un presupposto processuale (la inesistenza dì una pregiudiziale di costituzionalità) di esclusiva competenza del giudice del processo. L’unico rimedio configurabile è la riproposizione della questione all’inizio di ogni grado del processo da parte dell’interessato dinanzi al giudice superiore, il quale ne valuterà nuovamente la rilevanza” (cfr. Cass. sez. l n. 4200 del 25.1.1985; conf. cass. sez. 3 n. 4604 del 2.4.1986; cass. sez. l n. 1316 del 2.5.1988).

Anche più di recente è stato ribadito che “Non può essere dedotto sotto forma di difetto di motivazione la carente considerazione riservata dal giudice di merito alla questione di legittimità costituzionale prospettata dalla parte. Il provvedimento relativo alla questione di costituzionalità è infatti in sé non impugnabile, riservando la legge la possibilità di riproporre la questione ad ogni successivo grado di giudizio” (Cass.sez.6 n.706 del 19.2.1997).

2. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 co. 3 c.p.p. è manifestamente infondata.

Questa Corte si è già pronunciata in proposito con la sentenza n. 8340 del 18.12.2000, evidenziando che “la esclusione dell’appello per determinate sentenze non configge col principio di ragionevolezza desunto dall’art. 3 Costò, poiché, senza violare tale principio, il legislatore può ragionevolmente escludere l’appello per il caso in cui il giudice abbia condannato l’imputato alla sola pena pecuniaria e conservarlo per il caso in cui il giudice abbia irrogato la pena detentiva: la diversità di trattamento è evidentemente giustificata dalla diversa valutazione della gravità del reato (in tal senso Cass. Sez. 3^, n. 3433 dell’8.4.1993, ed. 11.2.1993, Mosca, re. 194115 relativamente al testo originario dell’art. 593 c.p.p.). La confisca di un grado di giudizio…, quindi, può essere discrezionalmente stabilita dal legislatore, al fine di accelerare i tempi del processo penale, senza vulnerare diritti costituzionali” (cono. Cass. pen. Sez. 3 n. 1552 del 14.11.2002).

Anche in relazione al denunciato specifico profilo di irragionevolezza, che deriverebbe dalla disparità di trattamento tra la posizione di chi somministra illecitamente manodopera e quella dell’intermediatore (essendo i trattamenti sanzionatorio e processuale gravemente deteriori per il primo), il sospetto di illegittimità costituzionale è manifestamente infondato. Infatti il principio di ragionevolezza impone alla legge di trattare in maniera eguale situazioni eguali, ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse. Ed il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto che, a prescindere dall’entità della sanzione pecuniaria, fosse più grave il reato posto in essere dall’intermediatore tanto da sanzionatorio con la pena detentiva. Di qui la previsione dell’appello proprio in ragione della “qualità” della pena, dal momento che, in caso di condanna a pena detentiva, un secondo giudizio di merito trova giustificazione nella maggiore afflittività della sanzione, derivante da una diversa valutazione di gravità del reato, effettuata dal legislatore e, quindi, in definitiva, in ragioni di politica giudiziaria (cfr. Cass. Sez. 5 n.41136 del 15.10.2001 che ugualmente ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 co.3 c.p.p.).

E, difatti, la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione delle pene appartengono alla politica legislativa e, quindi, alla discrezionalità del legislatore, censurabile solo in caso di manifesta irragionevolezza. Ne consegue che quando l’assoggettamento di una determinata condotta a sanzione penale non appaia manifestamente irragionevole né sproporzionato al disvalore della condotta il minimo edittale previsto, non vi è ragione di discostarsi dall’orientamento consolidato secondo il quale non spetta alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie (cfr. Corte Cost. ord. n. 207 del 26.5.1999).

3. Gli altri motivi di entrambe le impugnazioni “risentono” palesemente del fatto che si intendeva proporre appello avverso la sentenza del Tribunale e che, quindi, si chiedeva un riesame del merito della vicenda processuale.

L’art. 568 comma V c.p.p. stabilisce che l’Impugnazione è ammissibile a prescindere dalla qualificazione ad essa data, per un ovvio principio di conservazione del mezzo di impugnazione impropriamente denominato. La diversa qualificazione non determina, però, una modificazione per così dire “funzionale” dell’impugnazione, altrimenti si attribuirebbe sostanzialmente alla parte la possibilità di appellare sentenze ritenute dal legislatore inappellabili. I contenuti possibili dell’impugnazione restano quindi sempre quelli del ricorso ex art. 606 c.p.p.

Anche con i motivi nuovi del M., attraverso una formale denuncia di vizi di motivazione, si ripropongono le medesime doglianze, in tema di responsabilità, di cui all’appello originario.

3.1. Tanto premesso, le censure sollevate sia dal M. che dal M. non tengono conto, che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di rivalutare in una diversa ottica, gli argomenti di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. Anche a seguito della modifica dell’art. 606 lette) c.p.p., con la L. 46/06, il sindacato della Corte di Cassazione rimane di legittimità: la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione anche da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare criticamente le risultanze istruttorie, ma solo quello di valutare la correttezza dell’iter argomentativo seguito dal giudice di merito e di procedere all’annullamento quando la prova non considerata o travisata incida, scardinandola, sulla motivazione censurata (cfr. Cass. pen. sez.6 n. 752 del 18.12.2006). Anche di fronte alla previsione di un allargamento dell’area entro la quale deve operare, non cambia la natura del sindacato di legittimità; è solo il controllo della motivazione che, dal testo del provvedimento, si estende anche ad altri atti del processo specificamente indicati. Tale controllo, però, non può “mai comportare una rivisitazione dell’Iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi ed idonei ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito” (così Cass. pen. sez. 2 n. 23419/2007-*********).

3.2. Il Tribunale, con motivazione pertinente ed immune da vizi logici, sulla base di un esame puntuale delle risultanze processuali, ha ritenuto provata la responsabilità degli imputati.

Ha accertato infatti che i lavoratori delle ditte artigiane del M. e del P. (non ricorrente) lavoravano all’interno del capannone di F.E. insieme a quelli della E., con le medesime mansioni di saldatori e con lo stesso orario di lavoro, e sotto il controllo e le direttive di tale S. A., dipendente della medesima E. con funzioni di capo squadra. Tali emergenze attestavano senza ombra di dubbio che le due imprese artigiane non avevano autonomia gestionale, per cui correttamente ha ritenuto configurabili i reati ascritti ai capi 1, 3 e 5, essendosi gli imputati M. e P. limitati a somministrare manodopera alla società del M. che l’utilizzava. Relativamente al capo 4) ha rilevato il Tribunale che dagli accertamenti dell’Ispettorato del Lavoro era emerso che i dipendenti della ditta appaltatrice erano gestiti dalla committente che aveva anche fatto frequentare ad essi i corsi di sicurezza e messo a loro disposizione i relativi presidi.

In ordine al reato di cui al capo 8) ha rilevato il Tribunale che dagli accertamenti dell’Ispettorato del Lavoro era emerso che presso l’unità operativa di F.E. aveva svolto attività lavorativa un dipendente della R. srl in assenza dell’autorizzazione di cui all’art. 4 L. 276/03.

Quanto ai capi 2) e 6) ha accertato il Tribunale che i lavoratori del M. avevano percepito, a parità di mansioni svolte, una retribuzione inferiore a quelli della E..

Ha quindi esaminato il Tribunale i rilievi difensivi e, con motivazione adeguata ed immune da vizi, ha ritenuto irrilevante il contratto di appalto stipulato tra la committente CO.ME.CF. e l’appaltatrice E., non contraddittoria la circostanza che la E. avesse rivestito il duplice ruolo di utilizzatore a (a F.E.) e di somministratore (a S. D.), ed infine la irrilevanza della mancata adozione del decreto previsto dall’art. 84 comma 2 D. Lvo 276/03.

Con le impugnazioni vengono riproposte le medesime questioni già esaminate e disattese correttamente dal Tribunale, in modo per di più o meramente assertivo oppure attraverso la prospettazione di una non consentita rivisitazione delle risultanze processuali.

4. Quanto al trattamento sanzionatorio il Tribunale ha fatto corretto ed argomentato uso del potere discrezionale riconosciuto in proposito ai Giudici di merito, negando le circostanze attenuanti generiche al M. a cagione del grave precedente penale (estorsione ed incendio doloso) e determinando la pena per entrambi (previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche al M.) in misura congrua tenuto conto del numero dei lavoratori occupati e delle giornate lavorative (dati ricavati non solo dalle dichiarazioni rese all’Ispettorato del Lavoro dal dipendenti delle varie imprese, ma soprattutto dalle risultanze del libro matricola-pag. 9 sent.) e con un aumento contenuto per la continuazione.

Peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, è necessaria soltanto se la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficiente a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 c.p. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” (cfr. Cass.pen. Sez. 2 n. 36245 del 26.6.2009).

In considerazione della precedente condanna e dell’entità della pena irrogata ha ritenuto il Tribunale che non ricorressero i presupposti per concedere anche al M. i benefici di legge.

5. Infine, ineccepibilmente, il Tribunale ha rigettato l’eccezione di prescrizione non trovando applicazione, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, l’art. 157 co. 5 c.p. I reati ascritti sono, infatti, sanzionati con la pena dell’ammenda (anche se commisurata proporzionalmente e progressivamente), per cui il termine di prescrizione è di anni 4, con aumento di un quarto ex art. 161 co.2 c.p.

L’art. 157 co.5 c.p. fa, invece, riferimento a pene (quali ad es. la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità di competenza di Giudice di Pace-cfr.Cass. Sez. 5 n. 17399 del 20.2.2007) diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria (come indicate espressamente dall’art. 18 c.p.).

6. I ricorsi debbono, quindi, essere dichiarati inammissibili, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma che pare congruo determinare in euro 1.000,00 ciascuno ai sensi dell’art. 616 c.p.p.

6.1. Va solo aggiunto che la inammissibilità dei ricorsi preclude la possibilità di dichiarare la prescrizione, maturata dopo l’emissione della sentenza impugnata. Questa Corte si è pronunciata più volte sul tema anche a sezioni unite (per ultimo sent. n. 23428/2005-*******). Tale pronuncia, operando una sintesi delle precedenti decisioni, ha enunciato il condivisibile principio che l’intervenuta formazione del giudicato sostanziale derivante dalla proposizione di un atto di impugnazione invalido perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591 comma 1, con eccezione della rinuncia ad un valido atto di Impugnazione, e art. 606 comma 3), precluda ogni possibilità sia di far valere una causa di non punibilità precedentemente maturata sia di rilevarla d’ufficio. L’intrinseca incapacità dell’atto invalido di accedere davanti al giudice dell’impugnazione viene a tradursi in una vera e propria absolutio ab instantia, derivante da precise sequenze procedimentali, che siano in grado di assegnare alle cause estintive già maturate una loro effettività sul piano giuridico, divenendo altrimenti fatti storicamente verificatisi, ma giuridicamente indifferenti per essersi già formato il giudicato sostanziale”.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento alla cassa delle ammende della somma di euro 1.000,00 ciascuno.

Redazione