Mobilità fra pubbliche Amministrazioni: non può essere applicato ai docenti universitari (Cons. Stato, n. 4569/2013)

Redazione 16/09/13
Scarica PDF Stampa

FATTO e DIRITTO

Attraverso il ricorso in appello dell’ Università degli studi di Parma qui in esame (n. 1122/13, notificato il 6 febbraio 2013), si contesta il diniego opposto dal Rettore di quella Università ad una istanza di trasferimento, presentata ai sensi dell’art. 33, comma 5, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Nel caso di specie l’interessato, prof. P. S., docente presso il Dipartimento di Scienze veterinarie della Scuola di Scienze mediche veterinarie dell’Università degli studi di ********, aveva richiesto il 30 aprile 2009, con domanda successivamente reiterata, il trasferimento presso l’omologa facoltà dell’Università degli studi di Parma, in qualità di unico familiare convivente in grado di assistere la propria madre, affetta da handicap di grave entità, riconosciuto dall’ASL competente. L’istanza era però respinta, non risultando necessari docenti nel settore di riferimento per l’anno accademico 2010/2011, fatte salve le esigenze da soddisfare tramite un pubblico concorso già bandito. Nessun diritto al trasferimento, inoltre, avrebbe potuto essere riconosciuto, stante l’autonomia dell’Ateneo per la valutazione della propria offerta formativa e della propria organizzazione interna. Detti trasferimenti peraltro, in base all’art. 3 del regolamento del 17 novembre 2008, sarebbero stati ammissibili per la copertura di posti vacanti solo previa valutazione di opportunità dell’Ateneo e con emissione di un bando pubblico, in ottemperanza ai principi di imparzialità e trasparenza.
Il ricorso, proposto dall’interessato avverso le predette determinazioni, veniva accolto con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, I, n. 702/2012 in data 8 novembre 2012, previo rigetto dell’eccezione preliminare di incompetenza territoriale.
Nella citata sentenza si affermava in primo luogo che – pur essendo le università degli studi enti autonomi, sottoposti ai soli poteri di indirizzo e di controllo del Ministero dell’università e della ricerca – le peculiari finalità della legge n. 104 del 1992 renderebbero necessaria un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni applicabili ai docenti universitari, “pena la possibile violazione del precetto di cui all’art. 3 della Costituzione”, in presenza degli altri presupposti applicativi della legge. Nella situazione in esame – pur essendo stato bandito un concorso – alla data della domanda un posto di docente per la disciplina di riferimento sarebbe stato disponibile, con ulteriore prevista disponibilità di altri posti in corrispondenza di casi di collocamento a riposo.
L’Università degli studi di Parma, inoltre, avrebbe continuato ad affidare incarichi esterni, a riprova dell’impossibilità di ricoprire tutte le ore di insegnamento curriculari con i docenti in organico.
Non essendo contestata, pertanto, la sussistenza degli altri presupposti di legge, avrebbe dovuto essere riconosciuto il diritto del ricorrente di essere trasferito presso l’Università dallo stesso indicata.
In sede di appello, l’Università degli studi di Parma contestava la predetta decisione, la cui motivazione era ritenuta insufficiente e contraddittoria. Erroneamente, infatti, sarebbe stato ritenuto applicabile ai professori universitari l’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, che prevede il passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse, stante la deroga di cuiall’art. 3, comma 2, del medesimo decreto legislativo.
L’art. 33 della legge n. 104 del 1992, inoltre, non riconoscerebbe un diritto soggettivo al trasferimento, di modo che la possibilità di attivare procedure al riguardo sarebbe rimessa a valutazioni di opportunità dell’Amministrazione.
L’appellato, costituitosi in giudizio, ribadiva le proprie ragioni, sottolineando come il testo della legge n. 104 del 1992, come modificato dalla legge n. 183 del 2010, non richieda più i requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza.
Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene che l’appello sia meritevole di accoglimento.
Nella sentenza appellata, infatti, il diritto del professor S. al trasferimento risulta affermato, pressoché esclusivamente, sulla base di ravvisate esigenze della professionalità, dal medesimo posseduta, presso l’Università degli studi di Parma e su esigenze di pari trattamento, che imporrebbero l’applicazione al docente di cui trattasi dell’art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Non adeguatamente considerati, tuttavia, appaiono sia i presupposti applicativi della norma da ultimo citata, sia le peculiari condizioni dell’insegnamento prestato presso le università degli studi, stante la riconosciuta autonomia delle medesime, a norma dell’art. 33 della Costituzione.
Il principio di mobilità fra pubbliche amministrazioni, di cui all’art. 30 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, risulta stabilito infatti, anche su base volontaria, per “garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni, che presentano carenze di organico”. Tale principio muove dalla equiordinazione del personale, a seconda dei ruoli di appartenenza e delle qualifiche funzionali possedute, da utilizzare in qualsiasi sede di una pubblica amministrazione.
Appare evidente la non automatica estensibilità di tale principio ai docenti universitari, il cui rapporto di lavoro si inserisce in strutture la cui rispettiva distinzione e autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile è garantita dalla legge (l. 9 maggio 1989, n. 168, art. 6): di modo che per docenti e ricercatori non possono individuarsi ragioni di indifferenziata applicazione, in qualsiasi luogo di lavoro, dei dipendenti amministrativi di pari qualifica. I docenti universitari infatti sono reclutati secondo un insindacabile giudizio espressivo di discrezionalità tecnica presso una singola università, in corrispondenza all’offerta formativa della stessa, nonché in relazione a un richiesto livello scientifico.
E in effetti, in base all’art. 3, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 165 del 2001, il rapporto di impiego dei professori e dei ricercatori “resta disciplinato dalle disposizioni rispettivamente vigenti, in attesa della specifica disciplina che lo regoli in modo organico, in conformità ai principi dell’autonomia universitaria […]”.
Appare non configurabile, pertanto, una diretta applicazione al personale docente universitario dell’art. 33 della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) al pari di un qualsiasi altro settore del pubblico impiego; né – in rapporto a situazioni diverse – trattamenti differenziati possono implicare violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.
A parte queste già conclusive considerazioni, nemmeno vale invocare i principi di carattere generale desumibili dalla citata legge n. 104 del 1992.
Quest’ultima, all’art. 33, comma 5, definisce “diritto” una situazione soggettiva protetta, che a ben vedere il contenuto della norma individua come un mero interesse protetto di tipo pretensivo: si afferma infatti che “il lavoratore ha diritto a scegliere […] la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere”, ma solo “ove possibile”, con evidente subordinazione dell’interesse del dipendente alle esigenze organizzative dell’Amministrazione, il che vale ad escludere che di vero e proprio diritto soggettivo si tratti.
Queste considerazioni nella specie vanno raccordate alle precedenti sulla autonomia organizzativa universitaria circa la definizione dell’offerta formativa e la diretta selezione del personale docente, come è avvenuto, nel caso di specie, con l’indizione di concorso per il reclutamento di un ricercatore per il settore SSD VET/09 presso l’Università di Parma, senza ulteriore ravvisata esigenza di altri docenti per tale settore (esigenza che – ove avesse reso opportune procedure di trasferimento – avrebbe imposto l’emanazione di un bando ai sensi dell’art. 3 del regolamento del 17 novembre 2008).
Per le ragioni esposte, il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto, con gli effetti precisati in dispositivo. Quanto alle spese giudiziali, il Collegio ritiene di poterne disporre la compensazione, tenuto conto della natura degli interessi coinvolti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando, accoglie l’appello, come in epigrafe proposto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso proposto in primo grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 luglio 2013

Redazione