Mobbing e dequalificazione: onere della prova (Cass. civ., n. 23949/2013)

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Massima

La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione, emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing.

 

1. Questione

La Corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda della lavoratrice, diretta ad ottenere l’accertamento che gli atti e i comportamenti adottati nei suoi confronti dal Ministero per i beni culturali e ambientali – dopo che il Tar Lazio aveva annullato gli atti con i quali la ricorrente era stata trasferita dall’Ufficio centrale per i beni ambientali e paesaggistici al Gabinetto del Ministro per esigenze del Servizio tecnico e poi all’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione – avevano avuto lo scopo di eludere gli effetti della sopra citata sentenza del giudice amministrativo, assegnandola ad incarichi avulsi dalle competenze proprie della sua qualifica (architetto di nono livello) e caratterizzandosi per un intento persecutorio e punitivo nei suoi confronti.

La domanda della ricorrente era diretta ad ottenere, inoltre, l’accertamento del proprio diritto allo svolgimento effettivo delle competenze ministeriali in materia di tutela ambientale e paesaggistica, il riconoscimento di una posizione funzionale adeguata alla sua qualifica e la condanna dell’Amministrazione (e dei dirigenti preposti all’ufficio) al risarcimento dei danni conseguenti alla perdita dei compensi previsti nel contratto e alla perdita delle opportunità professionali, nonché al risarcimento del danno biologico e del danno all’immagine professionale. Alla statuizione di rigetto la Corte territoriale è pervenuta osservando, in sintesi, che le vicende intervenute nel corso del rapporto non evidenziavano l’esistenza di un intento persecutorio da parte dell’Amministrazione, ma piuttosto l’esistenza di una situazione di conflitto tra le parti, determinata anche da una diversa interpretazione dei diritti e degli obblighi derivanti dai provvedimenti del giudice amministrativo.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la lavoratrice, il quale ricorso è stato rigettato.

 

2. Mobbing e definizione

Secondo le consolidate acquisizioni della giurisprudenza, con l’espressione mobbing si indica una condotta tenuta dal datore di lavoro, o da un superiore gerarchico, nei confronti di un lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro, “che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio” (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2011, n. 3648). L’accertamento delle finalità precipuamente persecutorie o discriminatorie delle condotte cui il lavoratore è sottoposto qualifica l’intera fattispecie, giacché è proprio l’elemento finalistico che “consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione, emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell’enucleazione del mobbing” (così Cons. Stato, sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 815).

 

3. Dequalificazione, mobbing ed onere della prova

E’ noto che dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra.

Prima di scendere all’esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati vale a dire, da quello di cui alle sentenze della Cass. n. 7905 dell’11.8.1998, n. 2561 del 19.3.1999, n. 8904 del 4.6.2003, n. 16792 del 18.11.2003 e n. 10361 del 28.5.2004 – n.d.r.), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno. Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art. 421 c.p.c. – non può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099).

Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.

Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacché questo, che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psico fisica medicalmente accettabile, secondo la definizione legislativa di cui all’art. 5, comma 3, della L. 57/2001 sulla responsabilità civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’art. 13 del D.Lgs. 38/2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003).

Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 Cost. (cd. danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto.

Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del cd. danno morale), ma oggettivamente accettabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso.

Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell’atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psico fisica – necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.

Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del datore, ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva: se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 378 del 1994 per cui “E’ sempre necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato.”

Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente. Mentre il danno biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti – se è vero che la stessa categoria del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva, ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso – all’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all’art. 2727 c.c. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 c.p.c. a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

D’altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell’arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi” (Cass., SS.UU., n. 6572/2006 cit.; cfr. anche Cass. n. 24718 del 23.11.2011; Cass. n. 19785 del 17.9.2010; Cass. n. 15915 del 7.7.2009; Cass. n. 29832 del 19.12.2008; Cass. n. 7871 del 26.3.2008; Cass. n. 21025 dell’8.10.2007; Cass. n. 22551 del 20.10.2006; Cass. n. 10361 del 28.5.2004; Cass. n. 26666 del 6.12.2005; Cass. n. 16792 dell’8.11.2003; Cass. n. 16868 del 12.11.2002; Cass. n. 13580 del 2.11.2001; Cass. n. 2561 del 19.3.1999; Cass. n. 7905 dell’11.8.1998). Quindi, il soggetto che assume essere stato danneggiato da una condotta di dequalificazione professionale, svolgendo conseguente domanda di risarcimento del danno subito, deve fornire la prova sia dell’esistenza di tale danno sia del nesso di causalità con l’inadempimento della parte datoriale: infatti, tanto il danno patrimoniale (qual è quello allegato in giudizio: cfr. Cass. n. 4652 del 26.2.2009), quanto il danno non patrimoniale, non possono ritenersi immancabilmente ed implicitamente ravvisabili per effetto della potenzialità lesiva della condotta illegittima (vale a dire, il demansionamento), dovendo per contro prodursi una lesione aggiuntiva ed autonoma, consistente nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquista dal dipendente e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità professionale, ovvero nel pregiudizio sofferto per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (danno patrimoniale), nonché nella compromissione di valori relativi alla persona e diversi dalla capacità di guadagno del soggetto e, in generale, dagli aspetti economici a questi facenti capo (danno non patrimoniale). Tali pregiudizi non possono essere riconosciuti in concreto se non in presenza di adeguata allegazione con riferimento al pregiudizio effettivamente subito dal soggetto che si assume danneggiato, sia quanto all’effettività delle voci di danno lamentate che in punto di accertamento di nesso causale tra condotta illecita ed evento lesivo.

 

Rocchina Staiano
Dottore di ricerca; Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; Avvocato. E’ stata Componente della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.

Sentenza collegata

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Staiano Rocchina

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