Mediazione creditizia, la Cassazione precisa i contorni dell’istituto giuridico (Cass. n. 24118/2013)

Redazione 24/10/13
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Svolgimento del processo

1. Nel 2003 il sig. F.F. convenne in giudizio la sig.a G.S., imprenditrice, allegando di avere con essa stipulato nel luglio e nel novembre del 2000 due contratti di prestazione d’opera professionale, aventi ad oggetto l’assistenza e la consulenza finalizzate alla redazione ed alla presentazione di due istanze di finanziamento dell’attività commerciale svolta dalla controparte, istanze rivolte a pubbliche amministrazioni od organi di queste. Aggiungeva che, nonostante il puntuale adempimento a parte propria delle obbligazioni assunte con quei contratti, la convenuta non gli aveva pagato il corrispettivo promesso, e ne chiedeva pertanto la condanna all’adempimento.

2. La sig.a G.S. si costituì eccependo che l’attività per la quale l’attore aveva richiesto il pagamento del compenso era consistita in una mediazione creditizia, consentita soltanto ai soggetti iscritti nel ruolo dei mediatori previsto dalla L. 3 febbraio 1989, n. 39 e, in seguito, dal D.P.R. 28 luglio 2000, n. 287. E poichè l’attore non era iscritto, all’epoca dei fatti, in alcuno dei due suddetti albi o ruoli, i contratti con lui stipulati dovevano ritenersi nulli, ai sensi dell’art. 1418 c.c..

3. Il Tribunale di Pinerolo accolse la domanda con sentenza 4 maggio 2005 n. 279, ritenendo che l’attività svolta dall’attore fosse consistita in una consulenza, e non in una mediazione: di questa, secondo il Tribunale, sarebbe mancato infatti l’elemento principale, ravvisato nella “interposizione neutra ed imparziale” del mediatore.

4. La Corte d’appello di Torino, decidendo l’appello proposto dalla sig.a G.S., riformò tuttavia tale decisione, ritenendo che l’attività svolta dal sig. F.F. dovesse qualificarsi come “mediazione creditizia”, non consentita ai soggetti non iscritti all’apposito albo.

Per pervenire a tale conclusione la Corte d’appello ha ritenuto che l’attività di mediazione non sia esclusa:

– nè dalla circostanza che una delle parti abbia conferito un apposito incarico al mediatore;

– nè dalla previsione che al mediatore sia dovuto un compenso in ogni caso, quand’anche l’affare non fosse concluso;

– nè dalla circostanza che il mediatore, dopo avere messo in contatto le parti, non si attivi per appianare eventuali divergenze tra esse.

Elemento indefettibile della mediazione, secondo il giudice d’appello, è invece la messa in relazione delle parti: e poichè nel caso di specie era stato il sig. F.F. a mettere in contatto la sig.a G.S. con gli enti finanziatori, egli andava qualificato come mediatore. Così qualificata l’attività svolta dall’appellato, la Corte la ritenne a lui inibita:

(a) all’epoca del primo contratto (luglio 2000) dalla L. n. 39 del 1989, cit., la quale imponeva anche ai mediatori creditizi l’iscrizione nel ruolo ivi previsto;

(b) all’epoca del secondo contratto (novembre 2000) dal combinato disposto della L. 7 marzo 1996, n. 108 e del relativo regolamento di attuazione (D.P.R. 28 luglio 2000 n. 287), norme che, nel creare il nuovo albo dei mediatori creditizia, avevano sussunto nell’ambito di tale attività anche la mera consulenza finalizzata alla concessione di finanziamenti.

5. La decisione della Corte d’appello è stata impugnata per cassazione dal sig. F.F., sulla base di quattro motivi.

La sig.a G.S. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso il sig. F.F. lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata avrebbe violato gli artt. 1754 e ss. c.c.; gli artt. 1 e ss. della legge 3 febbraio 1989 n. 38, ed il relativo regolamento di attuazione, approvato con D.M. 21 dicembre 1990, n. 452.

L’errore commesso dalla Corte d’appello, secondo il ricorrente, sarebbe consistito nel qualificare come “mediazione” il contratto stipulato tra le parti nel luglio 2000.

Quel rapporto, invece, secondo il ricorrente non poteva essere ritenuto una mediazione, perchè:

(a) il sig. F.F. non aveva messo in contatto due parti che intendevano concludere un affare, ma aveva assistito la sig.a G.S. nella preparazione e nell’inoltro di una domanda di finanziamento indirizzata ad una società in mano pubblica, la Finpiemonte s.p.a.;

(b) l’attività di finanziamento delle imprese, alle condizioni stabilite dalla legge, svolta dalla Finpiemonte s.p.a. non può essere assimilata ad un “affare” commerciale, sicchè mancando la configurabilità di quest’ultimo, nemmeno poteva ritenersi sussistere un rapporto di mediazione;

(c) l’attività di finanziamento svolta dalla Finpiemonte s.p.a. è resa pubblica attraverso forme di pubblicità legale, e dunque le persone interessate ad ottenere quei finanziamenti non hanno alcuna necessità di essere “messe in contatto” con la finanziaria pubblica, ma solo quella di essere assistite per preparare istanze di finanziamento corrette ed ammissibili.

1.2. Gli elementi di fatto essenziali, posti dalla sentenza d’appello a fondamento della propria decisione, non sono in contestazione tra le parti.

E’ pacifico, in particolare, che:

(a) nel luglio 2000 il sig. F.F. e la sig.a G. S. hanno stipulato un contratto formalmente qualificato “lettera d’incarico professionale”;

(b) tale contratto ha previsto l’obbligo del sig. F.F. di “presentare richiesta di finanziamento a valere sulla legge regionale 28/99 per un importo di lire 116.000.000”;

(c) l’attività svolta dal sig. F.F. è stata qualificata dal giudice di primo grado e da quello d’appello, con accertamento in fatto ormai coperto da giudicato interno, in termini di “consulenza in materia di possibilità di accesso a pubbliche sovvenzioni e contributi” (così la sentenza di primo grado, pag. 7), ovvero di “predisposizione della domanda di finanziamento e presentazione alla Finpiemonte” (così la sentenza d’appello, pag. 12, p. 2.2.2);

(d) in cambio di tale prestazione, la sig.a G.S. si è obbligata a pagare al sig. F.F. una somma di denaro (definita “retribuzione professionale”) divisa in tre parti: la prima da pagarsi per il solo fatto di presentazione della domanda, le altre due da pagarsi quando l’istanza sarebbe stata accolta, ovvero quando il finanziamento sarebbe stato incassato;

(e) il sig. F.F. non ha ricevuto alcun incarico dall’ente finanziatore, nè ha percepito da questo provvigioni di sorta;

(f) la domanda di finanziamento sottoscritta dalla sig.a G. S. è stata effettivamente presentata alla società Finpiemonte.

Sulla base di questi elementi di fatto la Corte d’appello ha ritenuto di qualificare il contratto stipulato tra le parti come “mediazione”, e l’ha di conseguenza dichiarato nullo, per non essere il mediatore iscritto al ruolo previsto dalla L. n. 39 del 1989.

Tale qualificazione non applica correttamente le previsioni di cui agli artt. 1754 c.c. e ss.: sia dal punto di vista letterale, sia dal punto di vista logico.

1.3. Sul piano dell’interpretazione letterale, sia la dottrina, sia la giurisprudenza di questa Corte hanno da tempo individuato gli elementi essenziali della attività di mediazione come delineata dal codice civile. Essi sono:

(a) sul piano strutturale: l’onerosità, la subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare (art. 1755 c.c.); la libertà per il mediatore di attivarsi o meno; l’autonomia e l’indipendenza del mediatore (art. 1754 c.c.);

(b) sul piano funzionale: lo svolgimento di un’attività mirante a mettere due o più parti in relazione, al fine di concludere un affare (art. 1754 c.c.).

Il contratto stipulato tra le parti del presente giudizio è privo in parte di questi requisiti.

1.3.1. In primo luogo, il sig. F.F. aveva l’obbligo, e non la facoltà di prestare l’assistenza e la consulenza promesse alla controparte, e finalizzate alla presentazione della domanda di finanziamento. Mancava, dunque, il requisito della autonomia del mediatore.

1.3.2. In secondo luogo, il compenso promesso dalla sig.a G. S. alla controparte contrattuale era subordinato solo in parte alla effettiva erogazione del finanziamento, mentre per altra parte sarebbe stato comunque dovuto. Mancava, dunque, al rapporto in esame il requisito della subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare.

1.3.3. In terzo luogo, quel che maggiormente rileva, mancava nel caso di specie il più importante degli elementi caratterizzanti l’attività di mediazione: e cioè lo svolgimento di un’attività finalizzata alla messa in relazione delle parti interessate alla conclusione di un affare (ex permultis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 1233 del 04/02/2000, Rv. 533465).

La “messa in relazione” di cui all’art. 1754 c.c., infatti, pur potendo assumere in concreto le forme più disparate, concettualmente non può che ridursi a due attività principali: individuare o la persona con cui contrattare, o l’oggetto della contrattazione.

L’individuazione della persona con cui contrattare, a sua volta, è attività che può teoricamente avvenire con due modalità diverse:

l’avvicinamento od il reperimento.

Si ha la prima quando il mediatore favorisce la conoscenza di due persone che in precedenza erano ignote l’una all’altra; si ha la seconda quando il mediatore appiana le divergenze esistenti tra due intermediati che già si conoscevano, e che avevano fino ad allora impedito la conclusione dell’affare.

1.3.4. Nel nostro caso l’attività svolta dal sig. F.F. non è stata finalizzata nè ad un reperimento della controparte, nè ad un avvicinamento tra contraenti noti l’uno all’altro, ma in disaccordo.

Non è stata finalizzata al primo, perchè il contratto stipulato inter partes prevedeva espressamente che compito dell’odierno ricorrente fosse quello di “presentare una richiesta di finanziamento” ai sensi della L.R. Piemonte 12 novembre 1999, n. 28.

L’art. 18 di questa legge – nel testo vigente ratione temporis – affidava alla regione il compito di agevolare “l’accesso al credito delle imprese operanti nel settore del commercio” ed i “programmi di sviluppo delle imprese inerenti l’innovazione gestionale e tecnologica”.

La Regione Piemonte provvede all’attuazione del piano di sviluppo economico regionale, ai sensi della L.R. Piemonte 26 gennaio 1976, n. 8, art. 2, attraverso l’Istituto Finanziario Regionale Piemontese – FINPIEMONTE s.p.a.; e comunque è incontroverso, nel caso di specie, che il finanziamento richiesto dalla sig.a G.S. non potesse che essere concesso previa approvazione da parte della suddetta società a partecipazione pubblica.

Ora, se al momento della conclusione del contratto di cui è causa era già nota alle parti l’identità del soggetto cui indirizzare la richiesta di finanziamento, l’attività demandata al sig. F. F. non poteva essere qualificata come “mediazione” finalizzata al reperimento di un partner commerciale, per la ovvia ragione che questi era già ben noto ed individuato.

1.3.5. Nemmeno può dirsi che il contratto del luglio 2000 avesse per oggetto l’incarico di avvicinare le posizioni di due potenziali contraenti, che fossero in disaccordo tra loro su un qualche punto dell’affare da concludere. Non è stato infatti mai in discussione tra le parti che, per accedere ai finanziamenti previsti dalla L.R. Piemonte n. 28 del 1999, art. 18 l’istante dovesse rimuovere resistenze, ostacoli o diffidenze da parte dell’ente preposto ad autorizzarne l’erogazione.

1.3.6. In definitiva, poichè il contratto stipulato tra le parti non affidava all’odierno ricorrente alcun compito di “mettere in contatto” l’imprenditore ed il potenziale finanziatore, ma solo quello di assistere il primo nella “predisposizione e presentazione” della domanda (così la sentenza impugnata, pag. 12), esso non poteva essere qualificato come “mediazione”, per la mancanza del primo e più importante elemento di questa.

1.4. Sul piano dell’interpretazione logico-sistematica, la sentenza impugnata incorre poi in un secondo errore: quello di dilatare a dismisura il concetto di “messa in relazione” di cui all’art. 1754 c.c., finendo così per applicare la norma a fattispecie concrete che le sono estranee.

La Corte d’appello infatti, dopo avere accertato in facto che il sig. F.F. assunse l’obbligo contrattuale di assistere la sig. G.S. nella “predisposizione e presentazione” della domanda di finanziamento all’ente a ciò preposto dalla normativa regionale, ne ha tratto la conseguenza che in tal modo il ricorrente avesse “posto in contatto” la persona finanziata e l’ente finanziatore.

In tal modo la Corte ha adottato una nozione amplissima di “messa in contatto”, che non trova riscontro nella lettera della legge.

E’ insegnamento risalente e ricevuto, nella giurisprudenza di legittimità e nella dottrina unanime, che due parti possono dirsi “messe in contatto” dall’intervento del mediatore quando, senza l’opera di quest’ultimo, l’affare non si sarebbe concluso.

L’attività del mediatore, dunque, deve essere “causa determinante” della conclusione dell’affare: se fosse mancata la prima, non vi sarebbe stata la seconda.

E’ noto tuttavia che il concetto giuridico di causalità non coincide con quello naturalistico, e che la sua funzione è in primo luogo quella di delimitare l’ambito delle fattispecie giuridicamente rilevanti (funzione “strutturale”, secondo la definizione della recente sentenza pronunciata da Sez. 3, 17.9.2013 n. 21255).

Pertanto dire che si ha attività di mediazione solo quando l’intervento del mediatore sia stato la causa della conclusione dell’affare non significa elevare al rango di attività mediatoria qualsiasi antecedente causale che ha condotto alla conclusione di quello. Se così non fosse, si dovrebbe pervenire all’irrazionale conclusione di qualificare come “mediatore” ex art. 1754 c.c. sinanche il tassista che accompagni il contraente nel luogo scelto per le trattative, o il cartolaio che fornisca ai contraenti i fogli per la stesura della minuta contrattuale.

Questa evidente reductio ad absurdum dimostra l’erroneità della premessa, e cioè che qualunque collaborazione prestata ad uno dei potenziali contraenti possa essere qualificata come “causa” della conclusione dell’affare. Un affare può dirsi concluso “per effetto” dell’intervento del mediatore (secondo la previsione dell’art. 1755 c.c.) non quando questi abbia svolto un generico ruolo di assistenza, consiglio o consulenza di una delle parti, ma quando abbia svolto un’opera di reperimento od avvicinamento tra queste, nel senso sopra indicato. E’ necessario, quindi, che “tra l’attività del mediatore ed il negozio giuridico ai fini del quale egli ha prestato la sua opera vi sia un rapporto di causalità per cui il contratto principale, nel suo contenuto essenziale, appaia come il risultato utile dell’attività dell’intermediario, e che questa possa ritenersi conseguenza (…) dell’opera dell’intermediario (…), tale che senza di essa, secondo l’ordine normale delle cose, il contratto non si sarebbe concluso” (così Sez. 3, Sentenza n. 3071 del 26/10/1962, Rv. 254531).

Tale conclusione, oltre che dalla lettera della legge e dalla dottrina prevalente, è corroborata dalla stessa Relazione ministeriale al progetto di libro delle obbligazioni del codice civile, la quale al Cap. 52, p. 193, espressamente nega la qualità di mediatore a chi abbia svolto l’attività di “locatore d’opere” (diremmo oggi: prestatore d’opera) a favore di uno dei contraenti.

Da quanto esposto discende che la circostanza in fatto accertata dalla Corte d’appello, ovvero la presentazione all’ente regionale della domanda sottoscritta dalla sig.a G.S., non era di per sè idonea a qualificare il contratto come mediazione, dovendosi piuttosto parificare tale attività a quella del prestatore d’opera, del mandatario o del nuncius.

1.5. Sulle conclusioni appena esposte non incide il tormentato tema concernente la possibilità che un rapporto di mediazione abbia fonte negoziale, nè quello della ammissibilità di una mediazione svolta su incarico di uno solo dei potenziali contraenti (c.d. mediazione unilaterale).

E’ noto infatti come sia la dottrina, sia – in misura minore – la giurisprudenza di legittimità non siano unanimi nell’ammettere l’esistenza della c.d. mediazione contrattuale.

Taluni, infatti, muovendo dal rilievo che la legge accordi al mediatore il diritto alla provvigione per il solo fatto di avere messo in relazione le parti, ne traggono la conclusione che la mediazione sia un rapporto giuridico di fatto, scaturente dalla mera conclusione dell’affare per opera del mediatore, e non da un previo accordo tra le parti intermediate ed il mediatore. Secondo questo orientamento, pertanto, la mera circostanza che il mediatore abbia ricevuto incarico da una delle parti sarebbe di per sè sufficiente ad escludere la sussistenza d’una mediazione tipica (così si è espressa, isolatamente, Sez. 3, Sentenza n. 16382 del 14/07/2009, Rv. 609184).

Altri, all’opposto, ritengono – ma con molte sfumature diverse – che accanto alla mediazione non negoziale (od “anegoziale”) prevista dal codice civile, sia ammissibile e lecita una mediazione preceduta da un accordo tra il mediatore ed una o tutte le parti interessate all’affare: e tale è l’orientamento prevalente di questa Corte (ex plurimis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 9547 del 22/04/2009 (Rv. 608335; Sez. 3, Sentenza n. 24333 del 30/09/2008, Rv. 604883; Sez. 3, Sentenza n. 19066 del 05/09/2006, Rv. 592043; Sez. 3, Sentenza n. 7252 del 07/04/2005, Rv. 581339; Sez. 3, Sentenza n. 7251 del 07/04/2005, Rv. 581454; Sez. 3, Sentenza n. 5952 del 18/03/2005, Rv. 580839; Sez. 2, Sentenza n. 9380 del 27/06/2002, Rv. 555412).

Tali problemi tuttavia non vengono in rilievo nel presente giudizio: ed infatti, anche ove si volesse restare fedeli alla tesi maggioritaria che ammette la mediazione unilaterale e negoziale, comunque tale rapporto atipico, per essere soggetto alle norme sulle mediazione, dovrebbe presentare l’elemento tipico di questo, e cioè la “messa in contatto” nel senso sopra indicato. Elemento la cui sussistenza, per quanto già detto, doveva escludersi sulla base degli stessi accertamenti in fatto compiuti dal giudice di merito.

1.6. A conclusioni analoghe a quelle che precedono questa Corte è già pervenuta in passato.

Fu dapprima Sez. 1, Sentenza n. 2721 del 25/06/1977, Rv. 386375, a qualificare come contratto d’opera, e non mediazione, quello con cui una persona si era obbligata, dietro compenso, ad assistere la controparte nella richiesta di un finanziamento.

In seguito, chiamata a stabilire se potesse qualificarsi come “mediazione” l’attività di consulenza ed assistenza finalizzata all’individuazione di forme di investimento od al reperimento di soggetti cui domandare un finanziamento, la Corte l’ha ripetutamente negato: dapprima con la sentenza pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 6956 del 06/07/1999, Rv. 528303, e quindi con la decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 15200 del 06/08/2004 (la cui massima non è del tutto corrispondente alla motivazione).

In quest’ultima decisione la Corte, chiamata a qualificare un contratto in virtù del quale una società commerciale aveva assunto l’obbligo, dietro compenso, di prestare “consulenza e di assistenza” in favore di un imprenditore affinchè questi ottenesse un contributo pubblico, ritenne “assolutamente pacifico” che quel contratto prevedesse una “prestazione d’opera professionale (attività di consulenza e assistenza), secondo lo schema di cui all’art. 2230 c.c.” (Cass. 15200/04, cit., p. 5.4 dei “Motivi della decisione”).

1.7. Il primo motivo di ricorso deve dunque essere accolto in base al seguente principio di diritto: “L’attività di mera assistenza e consulenza finalizzata alla preparazione ed alla presentazione di una domanda rivolta alla concessione di finanziamenti pubblici, da presentare ad un organo già determinato direttamente dalla legge, non costituisce mediazione tipica nè atipica, ma va qualificata come prestazione d’opera professionale”.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso il sig. F.F. lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata avrebbe violato la L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 16 (c.d. legge antiusura), e art. 2 del relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 28 luglio 2000, n. 287). L’errore commesso dalla Corte d’appello, secondo il ricorrente, sarebbe consistito anche in questo caso nel qualificare come “mediazione” il secondo contratto stipulato tra le parti, quello del novembre 2000. Quel rapporto, invece, secondo il ricorrente non poteva essere ritenuto una mediazione, sia per le ragioni già indicate con riferimento al primo motivo di ricorso (l’attività del ricorrente essendo consistito nella mera assistenza e consulenza finalizzate alla presentazione di una domanda di finanziamento); sia perchè in questo caso il finanziamento in questione era “a fondo perduto”.

2.2. Il contratto stipulato inter partes nel novembre 2000, secondo quanto accertato nella fase di merito e non contestato in questa sede, aveva ad oggetto l’incarico di “eseguire la prestazione professionale consistente nella presentazione di richiesta di finanziamento a valere sulla L. D.M. sic n. 225 del 1998 per un importo di lire 104.215,70”.

Anche in questo caso era previsto l’obbligo, e non la facoltà dell’incaricato ( F.F.) di attivarsi per conseguire il risultato suddetto; e l’obbligo dell’incaricante ( G.S.) di corrispondere un corrispettivo in parte fisso, e in parte subordinato alla effettiva concessione del finanziamento. Il Tribunale ha qualificato anche tale rapporto come “mediazione”, adottando le medesime ragioni riassunte nello “Svolgimento del processo” della presente motivazione, al p.4. Ha tuttavia soggiunto, con riferimento a questo secondo contratto, che all’epoca della conclusione di esso era già entrato in vigore il D.P.R. 28 luglio 2000, n. 287, ai sensi del quale nell’attività di mediazione “rientra anche la sola attività di consulenza”. Sicchè – è la conclusione implicita, ma chiara della sentenza – anche a voler qualificare in termini di “consulenza” l’attività svolta dal ricorrente, essa comunque non poteva essere svolta se non previa iscrizione all’albo dei mediatori creditizi di cui al D.P.R. n. 287 del 2000, art. 2.

2.3. La motivazione della Corte d’appello, appena riassunta, non sembra conforme a diritto, in quanto:

(a) il contratto stipulato tra le parti non presenta le caratteristiche d’una mediazione unilaterale, e dunque vi è stata violazione dell’art. 1754 c.c.;

(b) l’attività di consulenza che non sia strumentale ad una attività mediatoria non richiedeva (all’epoca dei fatti) l’iscrizione all’albo dei mediatori creditizi, e dunque vi è stata violazione del D.P.R. n. 287 del 2000, art. 2.

2.4. Sotto il primo profilo, si è già visto supra, p. 1.3.3. e ss., come l’assistenza nella preparazione di una domanda di finanziamento da indirizzarsi alla pubblica amministrazione non costituisca una “mediazione” ai sensi dell’art. 1754 c.c.: di essa manca infatti l’elemento centrale, ovvero il “reperimento” dell’altro contraente.

Aggiungasi che il contratto stipulato a novembre del 2000, per quanto accertato in fatto dai giudici di merito, aveva ad oggetto l’assistenza nella presentazione d’una domanda di finanziamento ai sensi del D.M. 1 giugno 1998, n. 225.

Tale decreto (conoscibile in questa sede in virtù del principio jura novit curia, trattandosi di atto normativo secondario, attuativo della delega contenuta nella L. 7 agosto 1997, n. 266, art. 14) prevedeva agli artt. 4 e 5 la possibilità per le piccole imprese che avessero formulato progetti di sviluppo in aree di degrado urbano di domandare l’erogazione di un finanziamento all’amministrazione comunale. Il regolamento stabiliva le competenze per l’erogazione, le valutazioni demandate al Comune ed i termini per la presentazione dei progetti.

Anche sotto questo profilo deve pertanto escludersi che l’attività demandata al sig. F.F. sia consistita nel “reperimento” d’un contraente, in quanto l’ente erogatore del finanziamento era già individuato dalla legge e dal relativo regolamento di esecuzione nell’amministrazione comunale; nè risulta che l’opera del sig. F.F. abbia avuto lo scopo o l’effetto di appianare divergenze tra la sig.a G.S. e l’amministrazione comunale.

2.5. Escluso dunque che il contratto del novembre 2000 potesse essere qualificato come “mediazione” ai sensi dell’art. 1754 c.c., resta da esaminare se esso ricadesse comunque nelle previsioni del blocco normativo composto dalla legge antiusura (L. n. 108 del 1996) e dal relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. n. 287 del 2000), come ha ritenuto la Corte d’appello. A tale quesito deve darsi risposta negativa.

2.5.1. La L. n. 108 del 1996, art. 16 (oggi abrogato e rifluito nell’art. 128 sexies del Testo Unico Bancario, approvato con D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, a sua volta modificato dal D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, art. 11, comma 1), al fine di contenere il fenomeno dell’usura, istituì l’albo dei mediatori creditizi, al quale dovevano essere obbligatoriamente iscritti colo che intendessero svolgere l’attività di “mediazione o di consulenza nella concessione di finanziamenti da parte di banche o di intermediari finanziari”. La legge tuttavia non definì la nozione di “mediazione creditizia”, delegandone espressamente la delimitazione ad un futuro regolamento d’esecuzione (L. n. 108 del 1996, art. 16, comma 2).

Tale regolamento, emanato quattro anni dopo D.P.R. n. 287 del 2000, oggi anch’esso abrogato per effetto del D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141, art. 28, comma 1, lett. (b), definì mediatore creditizio “colui che (…) mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari determinati con la potenziale clientela al fine della concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”.

Questa previsione non ha equiparato affatto, nel settore del credito, l’attività di mediazione a quella di consulenza, come ha invece ritenuto la Corte d’appello. Ciò per quattro ragioni.

2.5.2. La prima ragione è l’interpretazione letterale. La chiara sintassi del D.P.R. n. 287 del 2000, art. 2 rende evidente che l’attività di mediazione creditizia consiste nel “mettere in relazione” finanziato e finanziatore. Questa “messa in relazione”, soggiunge la norma, può avvenire “anche” mediante una attività di consulenza.

Non, dunque, la consulenza tout court costituisce una mediazione creditizia ai sensi del D.P.R. n. 287 del 2000, ma solo quella consulenza che sia finalizzata alla messa in contatto delle parti: e dunque, per quanto detto sopra, la consulenza il cui scopo sia quello di reperire un partner contrattuale per l’avanti ignorato, ovvero di appianare divergenze con un partner contrattuale noto ma in disaccordo.

Ma nel caso di specie nè l’una nè l’altra di tali condizioni si sono verificate: come già visto, infatti, la consulenza richiesta al sig. F.F. col contratto del novembre 2000 non aveva lo scopo di individuare un finanziatore (che era già individuato dalla legge nell’amministrazione comunale); nè aveva lo scopo di appianare divergenze tra le parti o di comporre in un punto di equilibrio le contrapposte pretese (in quanto anche in questo caso era la legge stabilire a quali condizioni e su quali presupposti gli imprenditori interessati potevano accedere al finanziamento pubblico).

2.5.3. La seconda ragione per la quale deve escludersi che l’attività di mera consulenza in materia creditizia fosse, all’epoca dei fatti, riservata agli iscritti all’albo dei mediatori creditizi è di ordine sistematico. L’attività finanziaria in senso lato è tradizionalmente divisa nei tre settori del credito, dell’intermediazione finanziaria e dell’assicurazione. Ciascuno di questi tre settori è disciplinato da un corpus organico di norme, rappresentato rispettivamente dal testo unico bancario (D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385), da testo unico sull’intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) e dal codice delle assicurazioni (D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209). Anche il testo unico sull’intermediazione finanziaria (D.Lgs. n. 58 del 1998) ed il codice delle assicurazioni (D.Lgs. n. 209 del 2005) disciplinano la figura del mediatore nei rispettivi ambiti, e tanto l’una quanto l’altra fonte normativa distinguono anch’essi la consulenza meramente “illustrativa” od in senso stretto, volta a facilitare la parte nelle sue scelte, da quella “accessoria” o strumentale, e cioè resa nell’ambito di una attività di intermediazione. Così, il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 18 bis consente l’attività di consulenza in materia di investimenti anche a persone diverse dai soggetti abilitati all’intermediazione finanziaria.

Ancora più esplicitamente, ai fini che qui rilevano, l’art. 106 cod. ass. stabilisce che la consulenza in materia assicurativa rientra nel concetto di “intermediazione assicurativa” soltanto quando sia finalizzata alla “presentazione o proposta” di contratti assicurativi e riassicurativi.

Or bene, evidenti ragioni di coerenza sistematica dell’ordinamento inducono ad escludere che in materia finanziaria ed assicurativa il legislatore abbia voluto distinguere la consulenza pura da quella finalizzata ad una mediazione, e soltanto in materia bancaria e creditizia le abbia volute assimilare.

Tale conclusione è corroborata dal rilievo che anche nel regolamento emanato dall’autorità di vigilanza competente ratione temporis (Provvedimento Ufficio Italiano Cambi 29 aprile 2005, in Gazz. Uff., 20 maggio 2005, n. 116), nel dettare le “Istruzioni per i mediatori creditizi”, al p.4.2.1. stabilisce che costoro debbano informare la clientela che “l’attività di consulenza costituisce parte integrante del servizio di mediazione per la quale non può essere richiesto un autonomo compenso”. Da tanto si ricava la conferma che, sinanche per l’autorità di vigilanza, l’attività di consulenza in quanto tale non costituisce di per sè “mediazione creditizia”, ma lo diventa solo se si inserisce come attività accessoria del servizio di mediazione.

2.5.4. La terza ragione per la quale deve escludersi che l’attività di mera consulenza in materia creditizia fosse, all’epoca dei fatti, riservata agli iscritti all’albo dei mediatori creditizi discende dall’interpretazione finalistica. La L. n. 108 del 1996, come si ricava dai lavori parlamentari, venne promulgata al fine di contenere il fenomeno dell’usura. A tal fine il legislatore concepì un quadro organico di norme concernenti sia i contratti (fissazione del tasso soglia, previsione di nullità); sia l’attività d’impresa finalizzata alla concessione del credito. A questo secondo fine venne istituito l’albo dei mediatori creditizi, il cui scopo era garantire la professionalità e la correttezza di tale figura di mediatore.

Se dunque l’istituzione dell’albo dei mediatori creditizi fu voluto nel quadro più generale di contrasto dell’usura, la L. n. 108 del 1996, art. 16 deve essere interpretato in coerenza con tale scopo: e dunque nel senso che la mera consulenza finalizzata alla concessione di un pubblico finanziamento non rientri tra le attività di mediazione creditizia, in quanto per definizione la concessione di un finanziamento prevista dalla legge (regionale o nazionale non rileva) non può esporre il beneficiario al rischio di pagare interessi usurari.

2.6. Deve pertanto accogliersi anche il secondo motivo di ricorso, in base ad un principio di diritto analogo a quello già esposto al p.1.7.

3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso restano assorbiti.

4. La sentenza va dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino la quale, sulla base dei principi che precedono, procederà ad una diversa qualificazione del contratto stipulato tra le parti.

P.Q.M.

la Corte di cassazione, visto l’art. 383 c.p.c., comma 1:

– cassa con rinvio la sentenza impugnata;

– visto l’art. 385 c.p.c., comma 3, rimette al giudice del rinvio la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 20 settembre 2013.

Redazione