Mancato uso cinture di sicurezza: possibile la riduzione di pena al responsabile dell’incidente ed un minor risarcimento del danno (Cass. pen. n. 42492/2012)

Redazione 31/10/12
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Ritenuto in fatto

C.F. veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di omicidio colposo in danno di P.T., secondo la seguente contestazione: perché per colpa – consistita nel procedere alla guida della sua autovettura Rover 414 targata (omissis) lungo il tratto della strada provinciale S.P. n. (omissis) che collega (omissis) (provenendo da quest’ultimo centro), con imperizia, negligenza e violazione delle norme sulla circolazione stradale, invadendo all’altezza della contrada (omissis) l’opposta corsia di marcia, era entrato in collisione con l’autovettura Fiat Panda targata (omissis), guidata da Co.Pi. (sulla quale prendeva posto sul sedile del passeggero P.T. ) – che procedeva tenendo la propria destra marciando in direzione contraria – determinando così, a seguito dello scontro frontale, il violento impatto del corpo della P. contro il cruscotto della vettura con espulsione fuori dell’abitacolo della vittima che per tale causa era deceduta (fatto avvenuto in territorio di (omissis)).
Il C. veniva condannato dal Tribunale di Modica, con la concessione delle attenuanti generiche valutate equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di un anno di reclusione – con il beneficio della sospensione condizionale della stessa – oltre al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite da liquidarsi in separata sede, con l’assegnazione della somma di Euro 20.000,00 a titolo di provvisionale per ciascuna delle parti civili.
Il giudicante ancorava il proprio convincimento alle acquisite risultanze probatorie, con particolare riferimento ai rilievi effettuati dai verbalizzanti nell’immediatezza dell’incidente, alla perizia espletata, alle osservazioni dei consulenti di parte ed alle dichiarazioni testimoniali. A seguito di gravame ritualmente proposto nell’interesse dell’imputato, la Corte d’Appello di Catania confermava l’impugnata sentenza e, per la parte che in questa sede rileva, dava conto del proprio convincimento con il richiamo all’ampia motivazione del primo giudice, sinteticamente riportata nei punti salienti, e seguendo un percorso argomentativo che può così riassumersi: al di là della lunga, spesso ripetitiva e retorica ricostruzione del fatto contenuta nei motivi di gravame, la dinamica del sinistro mortale appariva assolutamente certa e pacifica alla luce delle emergenze processuali; il C. , provenendo da (omissis), e procedendo in direzione di (omissis) alla guida di una pesante autovettura (Rover 114) ad una velocità certamente non moderata (stimata dal perito nominato dal Tribunale, sulla base di dati e calcoli aritmetici che apparivano di tutta attendibilità, in 112 Km/h a fronte del limite massimo di 70 km/h vigente su quella strada) – aveva percorso un non breve tratto stradale, stimato in oltre duecento metri in totale, in progressiva deviazione, rispetto al suo senso di marcia, percorrendo trasversalmente dapprima l’intera sua corsia di marcia e quindi totalmente quella opposta sino a raggiungere il muro di cinta che delimitava la corsia opposta e lo spiazzo antistante l’industria della società “A.”, impattando di striscio contro detto muro, e con diversi rimbalzi, per oltre 50 metri sotto la pressione dell’azione frenante; successivamente a quell’impatto strisciante, e resosi di certo conto che, proseguendo in quella marcia in parallelo al muro di cinta, sarebbe finito violentemente contro un cespuglio di rovi che copriva i resti del muro in quel punto più basso della sede della detta società, il C. aveva effettuato una manovra di deviazione chiaramente finalizzata ad evitare tale ostacolo, limitare i danni alla sua auto e riguadagnare la carreggiata stradale, manovra che sarebbe di certo riuscita se non fosse sopraggiunta in quello stesso frangente, proveniente dalla direzione opposta, l’autovettura condotta dal Co. il quale, procedendo ad una velocità stimata sui 50 km/h, e forse interpretando la manovra della Rover come ricerca da parte del conducente di un sito sullo spiazzo adiacente la corsia ove parcheggiare la sua auto, o forse come finalizzata ad addentrarsi in qualche apertura nello spiazzo ivi adiacente, resosi poi conto all’ultimo che la stessa Rover stava rientrando nella sede stradale impegnando così integralmente la corsia di marcia della Panda, aveva cercato di effettuare l’unica manovra di emergenza che poteva intraprendere in quella situazione, cioè tentare di guadagnare spazio nella corsia opposta (quella alla sua sinistra), nello stesso momento in cui il conducente dalla pesante Rover cercava di effettuare identica manovra verso la stessa corsia (quella alla sua destra); ne era seguito l’impatto fra le due autovetture, entrambe in manovra di emergenza, pressoché al centro della carreggiata stradale e proprio fra le rispettive fiancate di destra; la dinamica così ricostruita risultava in tal senso documentata in atti ed era stata anche in modo articolato e puntuale recepita dal primo giudice le cui argomentazioni non erano state efficacemente contrastate da quanto dedotto dall’appellante con i motivi di gravame; stando così le cose, non restava che spiegare quale poteva essere stata la causa di quella anomala, improvvisa ed anche rischiosissima manovra di deviazione a sinistra sul percorso stradale che era stata effettuata dal C. alla guida della sua autovettura; orbene, la versione poi sostenuta dall’imputato – secondo cui vi sarebbe stato un black-out della coscienza e libertà di autodeterminazione nel C. che, per pochi istanti, ne avrebbe reso incontrollabili i riflessi umani e che, trascorsi quei brevi istanti di incoscienza, non aveva lasciato alcun segnale visibile e neppure diagnosticabile a posteriori – appariva, così come ritenuto anche dal giudice di prime cure, soltanto una evidente e precisa strategia difensiva finalizzata a portare all’assoluzione di un imputato altrimenti indifendibile: ed invero, tutta la dinamica del sinistro mortale sembrava trovare la sua logica, verosimile e plausibile spiegazione nel c.d. “colpo di sonno” (tra l’altro, si era di (omissis) e neppure poteva escludersi che il C. non si fosse appieno ripreso da una giornata diversa e stressante trascorsa in allegria), oppure nel difetto di attenzione o a causa di distrazione, o ancora, più semplicemente, nella perdita di controllo di un’autovettura che, spinta a velocità elevata, poteva anche avere subito i sobbalzi di un fuoristrada improvviso che aveva portato l’autovettura a rimbalzare incontrollabile sulla carreggiata: stati soggettivi che di certo non avrebbero scagionato il C., così come, quanto meno per la velocità di marcia impressa all’autovettura, non lo avrebbero scagionato neppure qualora si fosse accertata la perdita del potere cognitivo e volitivo in modo temporaneo; ed invece, adattando ad una lettura soltanto a fini difensivi quanto in punto di fatto emerso dagli atti processuali, si era inteso prospettare, quale tesi difensiva, la sola momentanea e temporanea perdita di coscienza (sarebbe durata per pochi istanti, esattamente quelli necessari per percorrere, alla velocità di 112 Km/h, i 150 metri circa che lo avevano portato a strisciare parallelamente contro il muro di cinta della corsia opposta) che avrebbe connotato la condotta a quel punto divenuta inconsapevole ed incontrollabile del C. e che, per di più, avrebbe interessato soltanto la fase iniziale della digressione dal normale percorso stradale; il difensore, infatti, aveva sostenuto che, dopo l’inizio dello strisciamento e confricamento dell’autovettura contro il muretto di cinta del complesso industriale della società “A.”, il C. avrebbe riacquistato il pieno possesso delle sue facoltà di autodeterminazione, tanto da cercare di riportare in assetto pressoché normale la sua auto (manovra che sarebbe riuscita se dal lato opposto non fosse sopraggiunta la Panda del Co. il quale non era riuscito ad evitare l’impatto con la Rover riportata sulla carreggiata stradale); nei lunghi, prolissi ed anche ripetitivi motivi di appello, era stata ancora una volta reiterata quella tesi difensiva finalizzata alla ricerca della causa di non punibilità, sul presupposto che l’incidente avrebbe trovato origine nella perdita temporanea ed improvvisa delle facoltà mentali del C. stesso in conseguenza di una sorta di leggera, temporanea e neppure percettibile ischemia cerebrale (c.d. T.I.A.) sulla quale, per escluderla – con argomenti che si presentavano puntuali, precisi e pertinenti – si era a lungo soffermato già il primo decidente; appariva sufficiente integrare le condivisibili argomentazioni svolte dal giudice di prime cure, con alcune ulteriori considerazioni che, in una valutazione logica e complessiva, valevano a smentire la tesi difensiva: a) la pretesa perdita del potere di autodeterminazione e di controllo delle facoltà mentali nel C. avrebbe portato, nel momento iniziale, certamente ad un diverso comportamento dell’autovettura in marcia (per l’inesistente pressione sull’acceleratore, per la stessa conformazione della carreggiata stradale che avrebbe portato il mezzo, privo di controllo e per forza d’inerzia, verso il lato di destra e non di sinistra ed, ancora, per la reazione al malore del conducente che avrebbe portato a frenare istintivamente il mezzo), rallentandone l’andatura sino a fermarsi ancor prima che questa raggiungesse il centro della carreggiata stradale, posto che il tratto interessato dal sinistro si svolgeva in rettilineo e per una lunghezza di poco più di 200 mt. rispetto al punto d’impatto; b) se vera, di siffatta perdita di coscienza, dovuta ad improvviso e temporaneo malore (che avrebbe allarmato chiunque, anche nella prospettazione di un possibile reiterarsi di analoghe circostanze, con conseguenze anche gravi alla persona), vi sarebbe stata traccia nella cartella clinica dell’ospedale di (omissis) inerente il ricovero del C. nello stesso giorno dell’incidente stradale, ove invece gli era stato riscontrato soltanto un “trauma toraco addominale lieve” con dimissione il … senza alcuna indicazione di dati di rilievo sulle di lui funzioni cerebrali, avendo il C. in quella sede lamentato soltanto dolori all’emitorace destro ed uno stato di sofferenza nella respirazione (ovvero sintomi pienamente compatibili con l’impatto fra le due autovettura); c) anzi – e si trattava di un particolare posto in evidenza dal difensore delle parti civili nel corso della discussione – nella scheda riguardante l’esame chimico-tossicologico sui prelievi effettuati, alla distanza di oltre cinque ore dal sinistro, nell’organismo del C. erano state rilevate tracce di cocaina e di cannabinoidi, in entità tale da farne sospettare il pregresso uso; d) immediatamente dopo il sinistro mortale il C., perfettamente lucido e nel pieno possesso delle sue capacità cognitive e volitive, si era mostrato dispiaciuto (e di questo ne aveva fatto partecipi sia il Co. che un infermiere ed una parente della P. intervenuti sul posto), aggiungendo che un solo attimo di sua distrazione aveva provocato quel grave incidente stradale; e) soltanto il (omissis), alla distanza di un mese dal verificarsi del sinistro stradale, si era profilato quello che poi sarebbe stato il cavallo di battaglia della strategia difensiva allorché, nello stesso ospedale di (omissis), sul C., colà spontaneamente recatosi e senza alcun referto del medico di base, erano stati riscontrati “piccoli focolai ischemia frontali” diagnosticati a seguito della dichiarazione dallo stesso resa di soffrire da “circa un mese di episodi di offuscamento del visus e vertigini” (significativa appariva la delimitazione temporanea nell’insorgenza del preteso disturbo in coincidenza con il sinistro stradale), con conseguente ricovero che si era protratto per tre giorni: e di indubbio rilievo appariva quanto era dato leggere testualmente nel referto e cioè che in fossa cranica posteriore il IV ventricolo appariva “morfovolumetricamente nella norma; non aree di alterato segnale in corrispondenza degli emisferi cerebellari né del tronco….In sede cortico-sottocorticale a livello frontale da ambo i lati ed in corrispondenza della sostanza bianca sopraventricolare bilateralmente si riconoscono alcune puntiformi aree di alterato segnale caratterizzate da ipertensività di segnale nelle sequenze a TR lungo, da riferire verosimilmente a piccoli esiti ischemici. Non aree di alterato segnale in corrispondenza degli emisferi cerebrali esaminati”; f) al di là della terminologia medica usata, anche un profano era nella condizione di comprendere come nulla di serio e soprattutto di collegabile alla perdita di coscienza nel C. in occasione del sinistro stradale “de quo” risultava rilevabile in detto referto: altrimenti, se si fosse trattato di soggetto a rischio, lo stesso sarebbe stato evidentemente trattenuto in ospedale e sarebbe stata fatta segnalazione per i provvedimenti di ritiro della patente di guida od altro; neppure i periti avevano potuto con certezza affermare od escludere quello stato di momentaneo deficit mentale che sarebbe stato all’origine della anomala condotta di guida che, pertanto, doveva escludersi fosse da collegarsi ad un siffatto preteso deficit, il perito nominato dal Tribunale, **********, nella sua relazione medico-legale aveva chiarito come “non sono emersi dati di fatto che facciano ritenere avvenuta una perdita di coscienza da parte dell’imputato al momento dell’incidente per cui è processo. Quanto emerso dal successivo ricovero in ospedale del 31/1/05 non ha significato specifico per patologia cerebro vascolare per precedenti, attuali e prevedali T.I.A.: l’evidenza strumentale è aspecifica e priva di significato. Non si sono evidenziati fattori di rischio cerebrovascolare probanti per cerebrovasculopatia come episodi di TIA (transient ischemie attack)”, mentre anche il consulente di parte, *******..S. , aveva concluso non escludendo “aprioristicamente” che negli istanti immediatamente antecedenti al sinistro il C. fosse andato incontro ad un episodio di TIA che lo aveva reso temporaneamente privo di qualsiasi capacità di intendere e di volere; g) ammesso pure che il C. avesse subito quella temporanea perdita di coscienza, non vi era dubbio che, qualora avesse proceduto ad una velocità di marcia prudenziale e nei limiti fissati in quel tratto di strada (70 Km/h), avrebbe potuto bene controllare l’autovettura nei momenti successivi alla ripresa della capacità di intendere e di volere, coincidenti questi con il primo impatto della sua autovettura contro il muro di cinta cui più volte si era fatto riferimento e quando ancora v’era spazio e tempo per una manovra di emergenza; h) dovevano escludersi profili di colpa nel verificarsi del sinistro mortale a carico del conducente della Panda, in presenza della situazione come sopra ricostruita, atteso il carattere anomalo ed improvviso della manovra eseguita dall’autovettura del C. di impossibile definizione nel momento in cui quegli ne aveva preso cognizione, tentando anzi una manovra, estrema, per evitare l’impatto; conclusivamente, il sinistro mortale non poteva che addebitarsi ad esclusiva colpa del C., con conseguente conferma della sentenza appellata, risultando la pena inflitta, mitigata dalle concesse attenuarti generiche, e sospesa alle condizioni di legge, adeguata al fatto contestato così come ricostruito e nel pieno rispetto dei parametri di cui all’art. 133 del codice penale. Ricorre per cassazione il C., a mezzo del difensore, denunciando violazione di legge e vizio motivazionale, con censure che possono sintetizzarsi come segue:
1) viene innanzi tutto reiterata la tesi del malore improvviso che, a dire del ricorrente, risulterebbe accreditata dal mancato rilevamento di tracce di frenata della Rover, circostanza che, sempre secondo quanto sostenuto con il ricorso, sarebbe stata confermata dal verbalizzante e sarebbe altresì desumibile dalla planimetria; la Corte territoriale avrebbe inoltre fornito una lettura errata della deposizione del perito ********. , posto che questi, secondo la prospettazione del ricorrente, non avrebbe escluso la eventualità che il C. fosse stato colto da un attacco ischemico transitorio, ma avrebbe solo sottolineato la difficoltà, se non la impossibilità, di diagnosticare strumentalmente il T.I.A. attesa la sua transitorietà;
2) quanto alla velocità, il ricorrente evoca gli accertamenti del consulente del P.M. secondo cui la velocità di entrambi i veicoli coinvolti nel sinistro sarebbe stata di circa 70 km/h; con il ricorso si sostiene che la corte territoriale non avrebbe dato risposta puntuale ai rilievi mossi con l’appello alle conclusioni del perito nominato dal Tribunale – geom. P. – in punto di velocità, con particolare riferimento alla circostanza della mancanza di tracce di frenata della Rover secondo l’assunto della difesa dell’imputato;
3) i giudici di merito avrebbero erroneamente valutato le dichiarazioni rese dalla teste V.G.; secondo il ricorrente quest’ultima non avrebbe dichiarato di aver sentito il C. dire di essere stato colto da un momento di distrazione ma avrebbe riferito che il C. aveva detto che “non si spiegava” l’accaduto ed aveva poi proseguito aggiungendo “cosa può succedere con un attimo di distrazione”: secondo la prospettazione del ricorrente l’incapacità del C. di spiegarsi l’accaduto, nell’immediatezza del fatto, sarebbe circostanza “perfettamente coerente con la momentanea perdita di coscienza” (pag. 55 del ricorso); si aggiunge che, contrariamente a quanto affermato in sentenza dalla Corte distrettuale, con i motivi di appello il difensore del C. non aveva sostenuto che lo stato di incoscienza del C. stesso avrebbe interessato solo la fase iniziale dello sbandamento, ma aveva sostenuto la tesi che lo stato di incoscienza si sarebbe protratto fino al punto d’urto;
4) non avrebbe alcun rilievo l’accertata presenza di tracce di cannabinoidi nell’organismo del C. dopo l’incidente, trattandosi di tracce al di sotto del cut-off, e quindi tali da non poter essere poste in relazione all’incidente, tracce che potevano trovare spiegazione anche nell’essere stato il C. in una stanza in cui altri avevano fatto uso di cannabis;
5) vizio di motivazione laddove la Corte territoriale ha ritenuto ravvisabile un profilo di colpa addebitabile al C. nell’elevata velocità della Rover pur a voler ipotizzare un malore: si tratterebbe di motivazione inficiata in radice perché basata su due presupposti da ritenersi invece insussistenti ad avviso del ricorrente secondo le argomentazioni svolte in precedenza con gli altri motivi di ricorso: e cioè, la velocità elevata della Rover e la riacquistata coscienza da parte del C. al momento del primo impatto della sua autovettura contro il muro di cinta;
6) omessa motivazione in ordine alle censure dedotte con i motivi di appello circa la responsabilità, quanto meno concorrente, della vittima e/o del conducente della Panda per il mancato uso della cintura di sicurezza da parte della vittima: vizio di motivazione che si rifletterebbe sull’entità della pena ai sensi dell’art. 133, primo comma, n. 3, cod. pen., e sulle statuizioni civili. Sono state depositate memorie difensive nell’interesse dell’imputato e delle parti civili: per l’imputato, sono state sviluppate ulteriori argomentazioni a sostegno delle dedotte doglianze, con particolare riferimento alle considerazioni svolte dalla Corte territoriale in ordine alla velocità della Rover ed alla ritenuta insussistenza di un improvviso malore del C. quale causa dell’incidente; per le parti civili sono state formulate osservazioni finalizzate a contrastare il ricorso per quel che riguarda la velocità delle auto (e si è al riguardo precisato che la velocità della Rover indicata dal ricorrente sarebbe quella accertata dal perito in relazione non alla fase iniziale dello sbandamento dell’auto stessa bensì al momento dell’urto), all’azione frenante della Rover, alla tesi del malore, all’asserito mancato uso della cintura di sicurezza da parte della vittima: a tale ultimo proposito sono state richiamate e sottolineate la natura e l’entità delle lesioni riscontrate sul corpo della vittima nonché la violenza dell’impatto tra le auto che avrebbe determinato l’arretramento dell’avantreno destro della Panda verso il posto della passeggera andando a sbattere contro le gambe di quest’ultima fratturandole, e si è prospettato che la P. avrebbe battuto violentemente con il lato destro della testa e con il braccio destro contro il montante dello sportello destro, evidentemente proprio perché il suo corpo si trovava bloccato dalla cintura di sicurezza.

Considerato in diritto

Le censure concernenti la dinamica dell’incidente e l’affermazione di colpevolezza dell’imputato risultano infondate, nonché anche tendenti sostanzialmente ad una diversa valutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità. In proposito va sottolineato che, come affermato dalla Suprema Corte, anche a Sezioni Unite (cfr. Sez. Un., n. 6402/97, imp. ********* ed altri, RV. 207944; Sez. Un., rie. *****, 24/11/1999, RV. 214793), esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito. Con riguardo alla specifica materia della circolazione stradale, nella giurisprudenza di legittimità è stato altresì enunciato, e più volte ribadito, il principio secondo cui “la ricostruzione di un incidente stradale nella sua dinamica e nella sua eziologia – valutazione delle condotte dei singoli utenti della strada coinvolti, accertamento delle relative responsabilità, determinazione dell’efficienza causale di ciascuna colpa concorrente – è rimessa al giudice di merito ed integra una serie di apprezzamenti di fatto che sono sottratti al sindacato di legittimità se sorretti da adeguata motivazione” (in tal senso, tra le tante, Sez. 4, n. 87/90, imp. *********, RV. 182960). Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali – quali sopra riportati (nella parte narrativa) e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni – forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l’incidente stradale oggetto del processo. Con le dedotte doglianze il ricorrente, per contrastare la solidità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice del merito, non ha fatto altro che riproporre in questa sede – attraverso considerazioni e deduzioni svolte sostanzialmente in chiave di puro merito – tutta la materia del giudizio, adeguatamente trattata dal giudice stesso. Va sottolineato, in proposito, che quest’ultimo, dimostrando di aver compiutamente anche vagliato le considerazioni difensive, ha esplicitamente ed espressamente richiamato le più significative risultanze probatorie.
Neppure possono assumere rilievo, nella concreta fattispecie, le modifiche apportate dalla legge n. 46/2006 (c.d. Legge Pecorella) all’art. 606 del codice di rito. A fronte dei motivi di ricorso così come formulati, compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione dell’impugnata decisione; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, detto giudice, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte, secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. ********* ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con “atti del processo”, specificamente indicati con il ricorso e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., introdotta dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del “testo del provvedimento impugnato”, anche di “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui detti atti non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella | effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri). Tenendo conto di tutti i principi teste ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure appena esaminate non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto facendo riferimento all’art. 606 lett. e) c.p.p.: pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, il ricorrente, in realtà, ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dal giudice di merito. Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, all’esito della valutazione degli elementi acquisiti, hanno attribuito rilievo decisivo nella determinazione causale dell’evento alla condotta colposa del ricorrente che violando ogni regola di prudenza, e la specifica norma del codice della strada concernente l’obbligo del rispetto dei limiti di velocità, aveva invaso l’opposta corsia di marcia rendendo inevitabile l’impatto con la Fiat “Panda” che procedeva regolarmente sulla propria destra ad una velocità rispettosa del limite vigente in quel tratto di strada. Il giudizio espresso sul punto, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, è conforme alle risultanze dell’istruttoria svolta, con particolare riferimento alle conclusioni del rapporto dell’incidente stradale redatto dai verbalizzanti ed a quelle rassegnate dal perito. Tale giudizio attiene al merito dei fatti e non è sindacabile in sede di legittimità perché frutto di un apprezzamento delle emergenze processuali – in ordine alla condotta del ricorrente, ai profili di colpa in essa ravvisati ed alla loro incidenza sotto il profilo causale – del quale è stata data congrua e coerente giustificazione. Le censure proposte sono dunque infondate perché si risolvono in asserzioni e in considerazioni di merito dirette a contestare il valore probatorio degli elementi utilizzati dal giudice per pervenire al convincimento di responsabilità e non tengono conto degli argomenti e delle indicazioni probatorie contenuti nella motivazione della sentenza impugnata. E va altresì evidenziato che il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dall’imputato, in ordine alla dinamica del sinistro ed alla ritenuta colpevolezza dell’Imputato stesso, seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, i giudici di seconda istanza legittimamente hanno richiamato la diffusa ed articolata motivazione addotta dal Tribunale a fondamento del convincimento espresso, senza peraltro limitarsi ad un semplice richiamo meramente ricettizio a detta motivazione, non avendo mancato di fornire autonome valutazioni ed indicare specifiche risultanze processuali a fronte delle deduzioni dell’appellante: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (in termini, “ex plurimis”, Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. -dep. 23/04/1994 – Rv. 197497; conf. Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 Ud. -dep. 05/12/1997 – Rv. 209145). Con riferimento ai temi riproposti anche in questa sede dal ricorrente è solo il caso di aggiungere, “ad abundantiam”, qualche ulteriore considerazione. Per quel che riguarda le tracce di cannabinoidi rilevate nell’organismo del C., è superflua qualsiasi approfondita valutazione posto che si tratta di circostanza non contestata quale profilo di colpa, della quale in ogni caso i giudici dei merito non hanno tenuto conto ai fini dell’affermazione di colpevolezza dell’imputato in relazione alla dinamica dell’incidente. Quanto alla ritenuta presenza di segni di frenata riferibili alla “Rover” – dalla Corte territoriale ritenuti rivelatori della ripresa di coscienza del C. già nella fase iniziale dell’urto con il muro che costeggiava il complesso industriale della società “AL.CO” ai margini della strada (sulla sinistra per il C.) – i giudici di seconda istanza hanno valutato i rilievi effettuati dai verbalizzanti e le conclusioni del perito e dei consulenti di parte (cfr. al riguardo le pagine 2, 3 e 5 dell’impugnata sentenza). Osserva il Collegio che, peraltro, la questione della presenza o meno di tracce di frenata della “Rover” appare del tutto irrilevante per quel che riguarda il convincimento dei giudici del merito circa la ritenuta infondatezza della tesi difensiva secondo cui l’incidente sarebbe avvenuto per un improvviso malore del C.: ed invero, la Corte distrettuale ha fondato su ulteriori elementi il proprio convincimento, e precisamente: a) la traiettoria tenuta dall’auto del C. : se questi avesse perso il controllo dell’auto per un malore non avrebbe azionato l’acceleratore e quindi l’auto si sarebbe fermata per inerzia ben prima del punto di impatto con la Panda ed avrebbe deviato sulla destra per la stessa conformazione della carreggiata (pag. 5); b) il comportamento tenuto dal C. subito dopo l’incidente, avendo affermato che si era trattato di un attimo di distrazione; c) il mancato accenno, in occasione del ricovero in ospedale in conseguenza delle lesioni riportate a causa dell’incidente, ad un malore improvviso e la mancanza di qualsiasi traccia di tale malore nel referto ospedaliero; d) la prospettazione del malore, quale causa dell’incidente, solo a distanza di circa un mese dall’incidente stesso, tesi ritenuta dalla Corte territoriale riconducibile a mera strategia difensiva; e) le conclusioni del perito ************, nominato dal Tribunale, il quale aveva precisato che non erano emersi dati di fatto tali da far ritenere avvenuta una perdita di coscienza da parte dell’imputato al momento dell’incidente, aggiungendo che quanto emerso dal successivo ricovero in ospedale del 31 gennaio 2005 non aveva significato specifico per patologia cerebro vascolare “per precedenti, attuali e prevedibili T.I.A.” (pag. 7 della sentenza di appello). Si tratta di percorso motivazionale privo di qualsiasi connotazione di illogicità e quindi immune da censura.
Per quel che riguarda la velocità, la Corte d’Appello, in presenza delle conclusioni cui erano pervenuti il perito ed i consulenti di parte, ha considerato convincenti, perché supportate da dati e calcoli aritmetici ritenuti di tutta attendibilità, le conclusioni del perito nominato dal Tribunale, secondo cui la velocità della Rover era di circa 112 km/h e quella della Panda di circa 70 km/h (pag. 4 della sentenza di appello). Orbene, in tema di prova, costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie, l’apprezzamento, positivo o negativo che sia, dell’elaborato peritale e delle relative conclusioni: il giudice del merito può attenersi alle conclusioni del perito, ove le condivida, rimettendo al suo elaborato il relativo supporto razionale. Certo, il giudice di merito ha l’obbligo di motivare il proprio convincimento con criteri che rispondano ai principi scientifici oltreché logici. Ma è altresì certo che il giudice stesso può fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta, e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire (cfr., “ex plurimis”, Sez. 4, n. 11235 del 05/06/1997 Ud. – dep. 09/12/1997 – Rv. 209675). Entro questi limiti, è del pari certo, in sintonia con il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, che non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della perizia, poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento (così, “ex plurimis”, Sez. 5, n. 10835 del 08/07/1988 Ud. – dep. 11/11/1988 – Rv. 179651). Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, laddove la Corte distrettuale ha recepito, e motivatamente condiviso, le indicazioni fornite dal perito di ufficio. È invece fondata, nei termini di seguito precisati, la censura di vizio motivazionale in ordine alla prospettazione difensiva secondo cui la vittima dell’incidente non avrebbe fatto uso della cintura di sicurezza, con conseguenti profili di colpa concorrente. Come si rileva anche dal testo dell’impugnata sentenza (pag. 4) era stata dedotta al vaglio del giudice di seconda istanza specificamente anche la questione concernente l’eventuale mancato uso della cintura di sicurezza da parte della vittima. Orbene, in proposito la Corte territoriale non ha effettuato alcun vaglio, omettendo del tutto di prendere in esame quanto argomentato dall’appellante, così venendo meno, con tutta evidenza, ad un preciso onere motivazionale, e neppure ha svolto argomenti tali da poter inferire una motivazione implicita sul punto; né può dirsi, infine, che si trattasse di doglianza formulata in termini di genericità, tale cioè da non richiedere alcuna motivazione, come si evince dall’esame dei motivi di appello. Nella specie, pertanto, sussiste il denunciato vizio di mancanza di motivazione. Tale vizio, infatti, ricorre non soltanto quando vi sia un difetto grafico della motivazione, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; né può ritenersi precluso al giudice di legittimità, ai sensi della disposizione suddetta, l’esame dei motivi di appello, al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Corte di Cassazione la disamina della specificità o meno delle censure formulate con l’atto di appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte (Cass. Sez. 2, 21.12.1994/2.5.1995 n. 4830).
Mette conto sottolineare che l’eventuale mancato uso della cintura di sicurezza da parte della vittima, se accertato, non varrebbe comunque ad escludere la penale responsabilità del C. , apparendo di tutta evidenza – come motivatamente affermato dai giudici di merito – la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato (in relazione a tutti i profili di colpa, generica e specifica, contestati, con riferimento alle norme della circolazione stradale) e l’evento, non potendo certo considerarsi abnorme né del tutto imprevedibile l’eventuale mancato uso della cintura di sicurezza: “in tema di causalità, la condotta negligente od imprudente originata dall’altrui condotta colposa non costituisce causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, non risultando abnorme né del tutto imprevedibile” (”ex plurimis” Sez. 4, n. 32303 del 02/07/2009 Ud. – dep. 06/08/2009 – Rv. 244865). Donde, ai sensi dell’art. 623, comma 2, cod. proc. pen., la dichiarazione di irrevocabilità dell’affermazione di penale responsabilità del C. .
Va altresì precisato che anche il giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e l’aggravante contestata – quale formulato dai giudici di merito – deve ritenersi irrevocabile, non essendo stata dedotta al riguardo alcuna specifica censura con il ricorso (peraltro sul punto non erano state formulate doglianze nemmeno con l’appello). Di tal che, il mancato uso della cintura di sicurezza, se accertato, potrà riflettersi esclusivamente sulla quantificazione della pena inflitta all’imputato (art. 133, primo comma, n. 3, cod. pen., in relazione al grado della colpa) e sull’ammontare risarcitorio. L’impugnata sentenza deve essere quindi annullata limitatamente a tale specifico punto, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania per nuovo esame al riguardo. Il giudice del rinvio dovrà valutare se, in base agli atti, possano desumersi elementi per poter affermare che al momento dell’impatto la cintura di sicurezza di pertinenza della vittima del sinistro fosse o meno allacciata: nel caso di accertamento del mancato uso della cintura stessa, dovranno essere valutati i conseguenti riflessi sulla quantificazione della pena e dell’ammontare risarcitorio (Sez. 4, n. 1329 del 27/10/1988 Ud. – dep. 01/02/1989 -Rv. 1803539): il giudice del rinvio provvederà quindi alla regolamentazione delle spese tra le parti anche per il presente giudizio.

 

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla omessa motivazione sul punto concernente l’uso della cintura di sicurezza da parte della vittima, ai fini dell’eventuale concorso di colpa, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catania cui rimette anche il regolamento delle spese tra le parti, relative al presente giudizio; rigetta nel resto e dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità penale.

Redazione