Manager condannato per ingiuria per aver rivolto ad un suo sopposto accuse, senza prove, lesive dell’onore (Cass. pen. n. 30502/2013)

Redazione 15/07/13
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RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Reggio Emilia, con sentenza del 27/9/2012, a conferma di quella emessa dal locale Giudice di pace, ha condannato Q. L. a pena di giustizia per il reato di ingiuria continuata nel confronti di P. F. Secondo l’accusa, condivisa dai giudicanti, il Q. che era direttore generale della I. B. spa, nel corso di una riunione convocata per discutere i problemi aziendali, insinuò che il P. fosse autore dei danneggiamenti subiti dal|’autovettura sua e di altri dirigenti aziendali e lo indicò come uno dei responsabili degli insuccessi aziendali.
Alla base della resa statuizione vi sono la registrazione, effettuata dal P. delle conversazioni intervenute nel corso della riunione; le dichiarazioni della persona offesa e di vari testi presenti al fatto.
2. Ha presentato ricorso per Cassazione nell’interesse dell’imputato l’avv. ***** il quale si duole sia della carenza ed illogicità della motivazione che dell’erronea applicazione dell’art. 599 cod. penale.
Deduce, sotto il primo profilo, che il Tribunale ha omesso di valutare le dichiarazioni di testi presenti al fatto, cui il ricorrente attribuisce carattere dirimente nella valutazione del profilo psicologico del reato. Riporta, a tal fine, le dichiarazioni di alcuni dipendenti presenti alla riunione, al fine di dimostrare che le espressioni utilizzate dal Q. erano giustificate dalle inadempienze lavorative del P. e dalla convinzione, propria di alcuni collaboratori, che quest’ultimo fosse l’autore dei danneggiamenti alla autovetture. Pertanto, aggiunge, la “contestualizzazione” della frase consentirebbe di escludere la sua valenza ingiuriosa, trattandosi di una mera intemperanza verbale spiegabile con la gravità dei problemi creati dalla persona offesa. Lamenta, poi, che il giudice d’appello abbia ritenuto ingiurioso il riferimento alle autovetture danneggiate, laddove il giudice di primo grado non aveva riservato a questa parte delle affermazioni dell’imputato alcuna considerazione.
Sotto il secondo profilo lamenta il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 599 cod. pen., di cui sussistono, a suo giudizio, i presupposti, rappresentati dai gravi errori di esecuzione della prestazione lavorativa del P. e dal tono sprezzante da questi assunto nel corso della riunione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I motivi di ricorso sono infondati e non meritano, pertanto, accoglimento.
1. Col primo motivo il ricorrente svolge considerazioni che attengono al carattere delle espressioni utilizzate, di cui nega la valenza offensiva, e all’elemento soggettivo del reato.
Le doglianze sono infondate sotto entrambi i profili.
Nessun dubbio può sussistere, come ritenuto dai giudici di primo e secondo grado, sul fatto che le accuse rivolte al P. fossero lesive dell’onore, in quanto toccavano e mettevano in discussione sia la sua capacità professionale che la sua correttezza umana, giungendo a ipotizzare la commissione di reati da parte sua (il danneggiamento volontario delle autovetture e il sabotaggio della produzione dell’azienda). La motivazione resa sul punto dai giudici di merito è, pertanto, ineccepibile, anche in punto di ricostruzione del fatto, operata attraverso le dichiarazioni non solo della persona offesa, ma anche dei testi presenti (C. e C.), nonché attraverso la trascrizione della discussione intervenuta nel contesto sopra richiamato e registrata dalla persona offesa. Né i giudici hanno mancato di esaminare e apprezzare le dichiarazioni degli altri testi menzionati dal ricorrente, rilevandone la genericità e, in ogni caso, la mancanza di contenuti realmente contrastanti con quelli rilevabili dalle deposizioni dei testi a carico.
Logica e giuridicamente corretta è anche la motivazione resa in punto di elemento soggettivo. Premesso che il reato di ingiuria è integrato dal dolo generico e che per la sua sussistenza non è necessaria l’intenzione di ledere il è bene protetto, la sentenza fa leva, in maniera ineccepibile, sulla incontinenza delle espressioni profferite nella specie per desumere la volontà e la consapevolezza, in capo all’imputato, di offendere il P. in quanto il tono e il contenuto delle accuse erano tali – secondo il comune sentire – da suscitare un moto di riprovazione negli ascoltatori e un sentimento di frustrazione nell’accusato. Gli argomenti utilizzati dalla Corte di merito si lasciano apprezzare per persuasività e congruenza e si sottraggono, perché tali, alle censure di illogicità mosse col ricorso.
Ma anche alle censure di illegittimità, che il ricorrente ricollega ad una insussistente reformatio in peius (per la ragione che il giudice di secondo grado ha fatto riferimento, per motivare la condanna, al carattere ingiurioso della seconda accusa mossa al P. quella di aver danneggiato le autovetture dei colleghi). Il giudice di primo grado, infatti, aveva riconosciuto l’imputato responsabile del reato a lui contestato (quindi, sia per l’accusa di sabotaggio della produzione industriale che per l’accusa di danneggiamento delle autovetture) ed aveva, in motivazione, sorvolato sulla seconda delle accuse suddette, ritenendo pacifico il carattere ingiurioso della stessa. Il giudice d’appello ha riconosciuto l’imputato responsabile del medesimo reato ed ha integrato – com’era suo compito – la motivazione, spiegando perché anche la frase in questione fosse da ritenere lesiva dell’onore. La censura è, quindi, manifestamente infondata, giacché si ha reformatio in peius quando – in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero viene pronunciata condanna per un reato prima escluso, o viene aumentata la pena, e non quando viene colmato un vuoto motivazionale su sollecitazione di parte o d’ufficio.
2. Inappropriato è anche il riferimento al diritto di critica e alla connessa scriminante.
Posto, infatti, che non è consentito, con la parola o con qualsiasi altro mezzo di espressione, ledere l’altrui onore o reputazione, salvo che per tutelare è interessi riconosciuti meritevoli dall’ordinamento, e negli stretti limiti necessari alla tutela di tali interessi, il ricorrente non si è fatto carico né di indicare gli interessi che intendeva tutelare, né di valutare la continenza delle espressioni utilizzate, né di spiegare la pertinenza delle accuse. Non si vede, infatti, né è stato spiegato, quale interesse stesse perseguendo l’imputato, posto che addebitare pubblicamente al P. gli insuccessi aziendali non serviva – contrariamente a quanto opinato – a migliorare l’andamento o il clima aziendale (per la qualcosa sarebbero state necessarie iniziative organizzative o disciplinari), mentre l’accusarlo pubblicamente, senza prova, dei danneggiamenti alle autovetture serviva solo ad esasperare i rapporti lavorativi e interpersonali.
E senza contare che, in assenza di prove, non è lecito accusare chicchessia della commissione di reati.
Giustamente prive del carattere della continenza sono state considerate, poi, le accuse suddette, siccome fatte pubblicamente, in modo perentorio e con l’utilizzo di espressioni eccessive, che non servivano a richiamare il dipendente alle sue responsabilità, ma ad esporlo alla disapprovazione e al ludibrio dei colleghi (“Se qualcuno riceve la macchina sfregiata…lei è uno di quelli che è considerato sotto incriminazione”; “lei è uno dei grandi contribuenti degli insuccessi che ha l’azienda”; “è giusto che i suoi colleghi sappiano se quello che succede non va bene è anche perché P. ci mette tutta la sua volontà perché non vadano bene”); mentre la “pertinenza” delle espressioni relative al danneggiamento delle autovetture è esclusa in radice dalla sua gratuità, giacché si trattava si di un problema aziendale, ma arbitrariamente addebitato al P. in assenza di prova (nemmeno il difensore dell’imputato ha potuto argomentare sul punto) che egli ne fosse l’autore.
3. Giuridicamente corretta e congruamente motivata è l’esclusione della causa di non punibilità prevista dall’art. 599 cod. pen., che ricorre allorché il fatto ingiurioso sia posto in essere come reazione al fatto ingiusto altrui “e subito dopo di esso”. Sebbene questa Corte abbia precisato che, nel reati contro l’onore, ai fini dell’integrazione dell’esimente della provocazione, l’immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell’esimente in questione e di frustarne la “ratio”, occorre comunque, come pure è stato aggiunto, che l’azione reattiva sia condotta a termine persistendo l’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l’insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, così da escludere che il fatto ingiusto altrui diventi pretesto di aggressione alla sfera morale dell’offeso, da consumare nei tempi e con le modalità ritenute più favorevoli.
Ragionevolmente è stata esclusa, quindi, nel caso di specie, la contiguità temporale, posto che il Q. aveva avuto tutto il tempo di metabolizzare le inadempienze lavorative del P. – che risalivano a notevole tempo addietro – e di impostare una reazione. Senza contare, poi, che l’accusa di danneggiamento delle autovetture era, per quanto si è detto, del tutto indimostrata, rappresentando una.mera congettura dell’imputato, mutuata da voci correnti tra il personale dipendente, cui inopinatamente è stata data dall’imputato pubblica e sonante rilevanza.
Ugualmente corretta è l’esclusione della ritorsione, posto che di “tono sprezzante” usato dal P. nel corso della riunione parla solo il difensore dell’imputato, mentre la sentenza impugnata – non adeguatamente contrastata sul punto – fa leva, per escludere questa causa di non punibilità, sulla inidoneità delle espressioni usate dal P. ad offendere il Q., peraltro contenute nell’ambito di una legittima reazione.
Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi € 1.700, oltre accessori come per legge.
Così deciso il 16/5/2013

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