Lite al bar: condannato con l’aggravante dell’uso di un oggetto di cui è vietato il porto (Cass. pen. n. 35237/2012)

Redazione 13/09/12
Scarica PDF Stampa

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 25 gennaio 2011 la Corte d’Appello di Trieste confermava la condanna di B.M. per i reati di lesioni aggravate dall’uso di oggetto di cui è vietato il porto senza giustificato motivo, danneggiamento e minacce, nonché al risarcimento dei danni subiti dalla costituita parte civile.
2. Avverso la sentenza ricorre il difensore dell’imputato articolando due motivi.
2.1 Con il primo motivo denunzia la violazione dell’art. 585 comma 2 n. 2 c.p. in merito alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dell’uso di un oggetto di cui è vietato il porto senza giustificato motivo, rilevando che le lesioni sono state inferte all’interno di un bar utilizzando un bicchiere, luogo nel quale l’oggetto si trova per destinazione e dove dunque il suo porto non potrebbe ritenersi ingiustificato, non rilevando, ai fini dell’integrazione della contesta aggravante, l’esclusiva potenzialità offensiva dello stesso, come invece ritenuto nel provvedimento impugnato.
2.2 Con il secondo motivo il ricorrente lamenta invece carenze motivazionali della sentenza e violazione del primo comma dell’art. 539 c.p.p. in ordine alla conferma delle statuizioni civili, evidenziando la contraddittorietà della valutazione di congruità della quantificazione del danno liquidato svolta dal giudice d’appello sulla base di parametri parzialmente diversi da quelli individuati dal quello di prime cure, nonché l’assenza di motivazione in merito all’individuazione dei presupposti che hanno portato al calcolo dei giorni di inabilità riconosciuti alla vittima del reato e dei parametri utilizzati per determinare il danno estetico e, più in generale, l’arbitrarietà e sommarietà della liquidazione operata in violazione dell’obbligo, in mancanza di dati probatori sufficienti, di pronunziare condanna generica al risarcimento e di rimettere al giudice civile la decisione sull’esatta quantificazione della sua entità.

 

Considerato in diritto

1. Il primo motivo è infondato atteso che il provvedimento impugnato ha fatto corretta applicazione dell’art. 585 comma 2 n. 2 c.p. in merito alla ritenuta sussistenza nel caso di specie dell’aggravante dell’uso di un oggetto di cui è vietato il porto senza giustificato motivo. Va invero ribadito che anche un bicchiere di vetro, adoperato come corpo contundente in un contesto aggressivo, diventa strumento atto ad offendere ed è dunque da considerarsi arma ai fini dell’applicazione dell’aggravante menzionata (Sez. 5 n. 28207 del 21 maggio 2008, p.m. in proc. Mameli, rv 240448). Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ciò che rileva è proprio la potenzialità offensiva dell’oggetto così come qualificata dal legislatore, giacché la norma aggravante non richiede che l’uso dello strumento offensivo integri anche la contravvenzione di cui all’art. 4 della I. n. 110 del 1975 (Sez. 5, n. 12151/12 del 1 dicembre 2012, ******, rv 251144; Sez. 5 n. 9388 del 9 febbraio 2006, Romano, rv 233896). In altri termini il rinvio operato dalla disposizione in questione alla categoria degli strumenti atti ad offendere di cui sia relativamente vietato il porto ha meri intenti classificatori e non anche quello di fondare la fattispecie aggravante sull’ulteriore requisito del porto ingiustificato dello strumento medesimo, atteso che la ratio della norma è unicamente quella di punire più severamente le azioni tipiche poste in essere avvalendosi della intrinsecamente maggiore capacità lesiva di determinati oggetti, per l’appunto individuati dallo stesso art. 585 in quelli il cui porto è vietato senza giustificato motivo.
Risulta del tutto irrilevante, dunque, che il “porto” del bicchiere utilizzato dall’imputato fosse giustificabile nel luogo in cui si è consumata l’aggressione e cioè un bar, ove la presenza ed l’utilizzo di tali oggetti sono del tutto naturali. Infatti ciò che si rimprovera all’imputato non è di aver maneggiato il bicchiere ove ciò è consentito, ma di averlo utilizzato per aggredire la persona offesa e causarle una lesione.
2. È invece fondato, nei limiti di seguito esposti, il secondo motivo del ricorso. Il ricorrente non coglie nel segno laddove lamenta la diversa individuazione da parte della Corte territoriale delle voci di danno risarcibile rispetto a quelle identificate nella sentenza di primo grado. Non può dubitarsi infatti che nei limiti del devoluto il giudice dell’appello possa rimodulare le componenti strutturali del danno individuate nella sentenza impugnata, rilevandone di nuove e scartandone altre che invece erano state prese in considerazione dal primo giudice. In realtà nel caso di specie non può nemmeno dirsi che ciò sia effettivamente avvenuto, atteso che le componenti di danno non patrimoniale elette dai giudici d’appello corrispondono al danno biologico menzionato da quello di prime cure e la relativa liquidazione è correttamente avvenuta in via equitativa.
Come obiettato dallo stesso ricorrente, risulta invece carente – se non addirittura assente – la motivazione del provvedimento impugnato in merito ai criteri seguiti nella determinazione dell’ammontare dei danni patrimoniali liquidati, non avendo la Corte d’appello precisato da quali elementi di prova abbia tratto il calcolo sui periodi di inabilità sofferti dalla parte lesa e sul valore dei beni danneggiati. Non di meno anche nella liquidazione equitativa dei danni non patrimoniali i giudici triestini non hanno, nemmeno in modo sommario, dato conto delle ragioni che li hanno portati alla determinazione della somma di Euro 3.000 assegnata alla parte civile. Infine non è dato comprendere dalla sentenza impugnata a quale voce debba essere imputato il “danno estetico” liquidato, né se lo stesso sia stato determinato in via equitativa o meno e sulla base di quali criteri.
L’accoglimento del motivo di ricorso in relazione al profilo illustrato comporta infine l’assorbimento dell’ulteriore profilo relativo alla violazione dell’art. 539 c.p.p. per la mancata pronunzia di condanna generica al risarcimento del danno.
La sentenza deve dunque essere annullata limitatamente alle statuizioni relative alla quantificazione del danno liquidato alla parte civile con rinvio alla Corte d’Appello di Trieste che in sede di nuovo esame si atterrà ai principi sopra illustrati.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla statuizione di quantificazione del danno e rinvia per nuovo esame sul punto alla Corte di appello di Trieste.

Redazione