Licenziato per infedeltà all’azienda l’ufficiale di riscossione che dà consigli ai debitori sull’opposizione all’esecuzione (Cass. n. 10959/2013)

Redazione 09/05/13
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Svolgimento del processo

F.V., premesso di aver lavorato dal 1.4.1973 alle dipendenze del Monte dei Paschi di Siena con mansioni di ufficiale di riscossione preposto alla notifica delle cartelle esattoriali ed all’attività di recupero delle somme iscritte a ruolo, esponeva di essere stato licenziato il 13.9.2000 per giusta causa ex art. 127 c.c.n.l. lett. d) in relazione ad una serie di contestazioni disciplinari.

Deduceva l’illegittimità del provvedimento, assunto intempestivamente in esito ad un procedimento non ispirato a principi di correttezza e buona fede, sulla base di fatti privi di rilevanza disciplinare o, comunque, di gravità non tale da giustificare la risoluzione in tronco del rapporto.

Il Tribunale respingeva la domanda di annullamento del licenziamento e di reintegrazione e la Corte d’appello, adita dal F., dopo aver con sentenza non definitiva respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello per sopravvenuto difetto di interesse, ha poi accolto il gravame e, riformando la sentenza di primo grado ha dichiarato illegittimo il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione del lavoratore ed ha condannato la banca datrice al risarcimento del danno, parametrato alle retribuzioni globali di fatto dal recesso alla scadenza del terzo anno dalla sua intimazione oltre accessori, ed al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

La Corte territoriale, preso atto dell’intervenuta assoluzione del F. da parte della Corte di Appello di Roma, con la formula “perchè il fatto non sussiste”; rammentato che il giudicato penale non vincola il giudice civile che può, però, con autonoma valutazione, verificarne la rilevanza in sede disciplinare; ripercorsi analiticamente i fatti oggetto delle diverse contestazioni, ha ritenuto che gli stessi non avessero trovato conferma nelle prove acquisite, ed è pervenuta, all’accertamento della illegittimità del recesso.

Quanto all’indennità risarcitoria, l’ha limitata nell’ambito di un triennio dalla data del licenziamento ritenendo che, in applicazione delle regole generali in tema di risarcimento del danno e dell’obbligo del danneggiato di non aggravare l’entità dei danni, ritenendo che tale misura fosse compatibile con l’ordinaria diligenza nel reperire una nuova occupazione, tenuto conto dell’età e delle mansioni svolte.

Per la cassazione della sentenza limitatamente al capo della decisione relativo alla liquidazione del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18 ricorre il F. sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.

che propone a sua volta ricorso incidentale, affidato a sette motivi con i quali insiste per la cassazione della sentenza in relazione all’inapplicabilità della tutela dell’art. 18 dello Statuto nei confronti di chi abbia già conseguito il diritto alla pensione di anzianità, ovvero ne possegga i requisiti, censurandola per violazione di legge e difetto di motivazione (primo e secondo motivo di ricorso incidentale). Per l’erroneità dell’accertata insussistenza di una giusta causa di licenziamento, in violazione di legge (L. n. 604 del 1966, art. 1 e L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 2119 c.c.) e per vizio di motivazione.

Il F. si è difeso con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti il ricorso principale e incidentale e quest’ultimo va esaminato con precedenza, avendo ad oggetto la sussistenza dello stesso interesse ad agire del F. e la sussistenza della giusta causa di licenziamento.

Tanto premesso, rileva la Corte che è infondata eccezione formulata dalla società controricorrente di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione per avere il F. conseguito il diritto alla pensione.

La Corte di merito ha correttamente evidenziato che l’interesse alla decisione persiste per il periodo intercorrente tra il recesso ed il conseguimento del diritto alla pensione.

E’ vero che l’esistenza di un concreto interesse ad agire si coniuga con la perdurante possibilità, anche nel corso del giudizio ed al momento della decisione, di ottenere il bene richiesto, ma è altrettanto vero che proprio la peculiarità della tutela reintegratoria dell’art. 18 dello Statuto, che comprende una ricostituzione del rapporto ex tunc e determina una continuità giuridica del rapporto, con ripristino della posizione economica e contributiva del lavoratore illegittimamente licenziato, giustifica la persistenza dell’interesse ad ottenere una pronuncia che accerti l’illegittimità del recesso anche ove, in ipotesi, la effettiva ricostituzione del rapporto non sia più possibile.

Venendo quindi all’esame delle censure del ricorso incidentale relative all’accertamento della sussistenza o meno della giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro, il cui esame è logicamente prioritario rispetto a quelle del ricorso principale, che riguardano l’estensione delle conseguenze economiche della ritenuta illegittimità del recesso, ritiene la Corte che le stesse siano fondate.

Va premesso che la Corte territoriale, seppur con un inciso, ha affermato che “il fatto, come accertato, sarebbe, con evidenza, del tutto diverso da quello contestato, per il quale il F. è stato licenziato”. Si potrebbe trattare di una autonoma ratio decidendi, inidonea a sorreggere l’accertamento della illegittimità del recesso.

Tale affermazione è stata oggetto di specifica censura da parte della società che, con il primo motivo di ricorso incidentale, si duole proprio di una violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 1 ed alla L. n. 300 del 1970, art. 7, anche sotto il profilo della carenza di motivazione.

Sostiene la società datrice che, nel rispetto del principio della immutabilità della contestazione, non sarebbe precluso al giudice di merito di procedere ad una valutazione dei fatti emersi nel corso dell’istruttoria (nella specie anche confermati dallo stesso dipendente) per valutare la legittimità del licenziamento.

Osserva al riguardo il Collegio che in tema di licenziamento disciplinare, ciò che conta è che il fatto sia stato nella sua materialità contestato, che il lavoratore sia stato posto in condizione di difendersi in sede disciplinare e che questo coincida con quello posto a base del provvedimento di risoluzione del rapporto.

La circostanza che nel corso del processo i fatti addebitati risultino solo in parte confermati non preclude al giudice di merito di procedere ad una valutazione complessiva della gravità del comportamento accertato onde verificare se il provvedimento espulsivo che sullo stesso comunque si fonda sia o meno legittimo. In tal caso, infatti, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto. Ed infatti la Corte d’appello ha solo incidentalmente riscontrato una diversità nella qualificazione giuridica dei fatti contestati e posti a base del recesso rispetto a quelli accertati ma ha, seppur implicitamente, essa stessa ritenuto irrilevante tale circostanza procedendo all’esame della gravità del comportamento risultante sia dall’istruttoria svolta in sede penale sia dalle prove acquisite in sede civile in tal modo accertando la sostanziale corrispondenza tra fatti materiali addebitati e quelli posti a base del licenziamento.

Sono fondate invece le censure formulate dalla società nel ricorso incidentale con le quali si lamenta la carenza della motivazione in relazione alla gravità dei fatti accertati sia in sede penale che in sede civile, in particolare con riguardo alla valutazione del comportamento tenuto dal F. nel corso delle operazioni di riscossione delle quali era incaricato. L’omessa motivazione circa l’incidenza delle condotte accertate sulla persistenza del vincolo fiduciario tra le parti e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 1, sempre con riguardo alle circostanze di fatto sopra richiamate.

La Corte infatti nell’esprimere un giudizio di sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata ed accertata, ha, per un verso, del tutto omesso di valutare alcune circostanze di fatto, emerse nel corso dell’istruttoria e, per altro verso, mancato di verificare se le stesse, poste in relazione con le altre condotte accertate, fossero, ove complessivamente valutate, rivelatoci di un comportamento del dipendente che violava i doveri di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto, così giustificandone la risoluzione.

Tale carenza emerge evidente ove si consideri che è lo stesso giudice d’appello (cfr. il passo della sentenza riportato a pag. 18 del controricorso) che, con riferimento ad uno degli episodi oggetto del giudizio, risoltosi con l’assoluzione in sede penale, pur dichiarando che la condotta tenuta dal F. – comportamento consistito nel dare suggerimenti a debitori esecutati circa le possibilità concrete di opporsi all’esecuzione, prospettando i limitati rischi economici connessi ad un eventuale esito negativo del procedimento – si presentava ambigua ed equivoca, ha poi del tutto omesso di valutarne l’incidenza nell’ambito della pluralità degli episodi rispetto ai quali erano state evidenziate delle irregolarità e che lo stesso giudice di merito ha ritenuto confermati.

La sentenza, in sostanza, ha omesso di rapportare tra loro i comportamenti impropri tenuti dal dipendente.

Osserva la Corte che, ove, come nel caso in esame, la prestazione attenga all’esercizio di una funzione delicata qual è quella dell’ufficiale di riscossione di tributi e si svolga a contatto diretto con i soggetti tenuti all’adempimento di obbligazioni connesse ad un pubblico interesse, al lavoratore è richiesto un comportamento improntato ad una particolare correttezza e trasparenza nell’esecuzione della prestazione.

Premessa la necessità di utilizzare, per le ragioni esposte, un parametro di valutazione particolarmente rigoroso, si osserva che il giudizio di proporzionalità della sanzione da irrogare in relazione a comportamenti inadempienti non si può basare sulla valutazione di singoli episodi ma deve riguardare la condotta tenuta dal lavoratore nel suo complesso, attraverso l’esame dei comportamenti estranei ed eccedenti rispetto ai compiti propri affidati al dipendente (notifica delle cartelle, esecuzione dei pignoramenti, in generale servizi di riscossione dei tributi per conto della banca concessionaria).

Per tale aspetto la sentenza, insufficientemente motivata, deve essere cassata.

Il giudice del rinvio dovrà provvedere nei termini sopra indicati, a verificare se, nella misura in cui risultano accertati, i comportamenti tenuti dal F. ed oggetto della contestazione e poi del licenziamento, questi siano nel loro insieme espressione di una condotta superficiale e negligente nell’esecuzione del rapporto di gravità tale, in relazione alla natura ed all’oggetto delle mansioni svolte, da ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia tra le parti. Dunque anche ad una nuova determinazione del risarcimento del danno.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi.

Accoglie il ricorso incidentale e, assorbito quello principale, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2013.

Redazione