Licenziato il manager della clinica che tace all’amministratore gli abusi sessuali verificatisi sul posto di lavoro (Cass. n. 17247/2012)

Redazione 10/10/12
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Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Reggio Calabria, con la sentenza n. 443/2010, del 19 agosto 2010, decidendo nei procedimenti di appello riuniti promossi, tra le odierne parti, avverso le sentenze emesse dal Tribunale di Reggio Calabria n. 2111/07 e n. 2296/08, così provvedeva:

accoglieva in parte l’appello proposto dalla Casa di Cura Caminiti srl nei confronti di G.R., in ordine alla sentenza n. 2111/07, così rigettando l’impugnativa del licenziamento intimato con lettera datata 27 settembre 2005 e la domanda risarcitoria proposta dal G.; dichiarava improcedibile l’appello incidentale proposto dal G. avverso la medesima sentenza;

rigettava l’appello principale proposto dal G. avverso la sentenza n. 2296/08 e, accogliendo l’appello incidentale proposto dalla Casa di Cura Caminiti srl, avverso la medesima sentenza, rigettava integralmente la domanda originariamente proposta da G.R..

2. Il G. aveva adito il Tribunale, con il ricorso originario chiedendo:

che fosse accertato che esso ricorrente era stato alle dipendenze della Casa di Cura Caminiti srl con mansioni di direttore amministrativo nel periodo luglio 1998-16 dicembre 2001, chiedendo la condanna alla corresponsione del corrispondente trattamento economico e del calcolo dell’anzianità sugli anni successivi, secondo il CCNL di settore;

che fosse dichiarata l’illegittimità dei licenziamenti irrogatogli per giusta causa con i provvedimenti del 20 agosto 2005 e del 27 settembre 2005, con condanna al pagamento delle retribuzioni non corrisposte e della somma ritenuta di giustizia per i danni subiti, con interessi e rivalutazione dal dovuto al soddisfo.

Il Tribunale, con la sentenza n. 2111 del 2007, accoglieva in parte la domanda e dichiarava l’illegittimità di entrambi i licenziamenti con condanna della resistente alla reintegrazione del G. nel posto di lavoro dal tempo di efficacia del primo licenziamento, nonchè alla corresponsione, a titolo di risarcimento, di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del primo licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione ed al versamento dei contributi assistenziali per tale periodo.

La sentenza n. 2296 del 2008 decideva sull’opposizione a decreto ingiuntivo, emesso in forza della suddetta sentenza n. 2117/07, proposto dalla Casa di Cura Caminiti avverso il decreto ingiuntivo n. 32/08 del 25 febbraio 2008, con il quale le era stato intimato di pagare la somma di Euro 138.742,4 in favore del G..

Il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo e dichiarava dovuta la somma di Euro 118,921,20, oltre rivalutazione e interessi legali sulla somma originaria annualmente rivalutata.

3. Per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria ricorre G.R., prospettando otto motivi di ricorso in ordine alle seguenti statuizioni:

declaratoria di legittimità del licenziamento del 27 settembre 2005 e al conseguente rigetto della domanda di reintegrazione nel posto di lavoro e di risarcimento del danno, nonchè al mancato riconoscimento del danno comunque dovuto a seguito della conferma della declaratoria di illegittimità del primo licenziamento del 20 agosto 2005;

conseguenti e connesse statuizioni oggetto della sentenza del Tribunale n. 2296/08;

declaratoria di improcedibilità dell’appello incidentale proposto.

4. Resiste con controricorso la Casa di Cura ********, che ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Occorre premettere in fatto, con riguardo al licenziamento ritenuto legittimo dalla Corte d’Appello, che, con la lettera del 20 agosto 2005, veniva contestato al G. che, nei primi giorni dell’aprile 2004, aveva convocato la signora M.P., il direttore sanitario ( P.) e il responsabile del personale (dottoressa A.C.Z.), per trattare la vicenda denunciata dalla M., consistente nell’avere subito gravi molestie, denunciate ai carabinieri, da parte del tecnico di radiologia D.A. ( D.).

In particolare, si contestava, secondo quanto riferito dal P. e dalla Z. in data 9 agosto 2005, che lo stesso aveva invitato la M. a non dare eccessiva importanza all’episodio riferito e a ritirare la denuncia penale, ed aveva chiesto ai presenti di non riferire all’amministratore della società nè l’episodio in danno della M., nè la suddetta riunione.

Con successiva lettera del 27 settembre 2005, in relazione alla suddetta contestazione, veniva irrogato licenziamento per giusta causa.

1.1. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

2. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione del CCNL 1998/2001 art. 33, lett. J).

Il ricorrente richiama il passo della sentenza d’appello che inquadrava il comportamento allo stesso addebitato come “minacciare in modo esplicito di possibili conseguenze la persona vittima del comportamento molesto ed indecente di altro dipendente rispetto al quale era viceversa suo dovere specifico anche a termini di contratto collettivo, non tollerare alcun abuso” ai sensi dell’art. 33, lett. J), del CCNL. Ad avviso del G., la Corte d’Appello avrebbe confuso l’abuso di cui alla suddetta lett. J), da intendersi nel senso di abusi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, con le molestie sessuali di cui alla lett. l) dello stesso CCNL, unificando condotte diverse. Considerato, altresì che mentre la molestia, anche di carattere sessuale, non è punita con il licenziamento, ma con la sospensione dal lavoro, la tolleranza di abusi verrebbe ad essere sanzionata con il licenziamento.

“Espone il ricorrente che non poteva essere addebitato “ad esso di avere tollerato molestie sessuali, in quanto tale tema era rimasto estraneo alla riunione dei primi di aprile 2005, destinata invece all’esame dell’abuso posto in essere dalla M., rappresentato dall’aver ostentato materiale fotografico sconcio, a quanto sembrava.

La eventuale conoscenza da parte di esso G. dei comportanti penalmente rilevanti avuti dal D. nei confronti della M., non avrebbe integrato la conoscenza e tolleranza di un abuso consumato nei confronti della Casa di Cura, ma un fatto privato tra due dipendenti.

1.1 Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Con lo stesso il ricorrente, senza contestare direttamente l’articolata motivazione della Corte d’Appello avente ad oggetto la ricostruzione dei fatti di cui alla lettera di contestazione del 20 agosto 2005, pone alla base della dedotta violazione e falsa applicazione del contratto collettivo, la propria ricostruzione dei fatti in questione, come già esposta nella lettera 30 agosto 2005 di risposta alle contestazione stessa, che ha costituito oggetto di esame da parte del giudice d’appello che la ha ritenuta inveritiera in ragione delle risultanze istruttorie (documentali e testimoniali) e dalle risultanze del procedimento penale, specificamente richiamate in sentenza.

La Corte d’Appello affermava, infatti, che non solo il G. aveva omesso di avvertire immediatamente l’amministratore unico (sig.ra Mi., suocera del G., poi era intervenuta separazione) dei fatti gravissimi venuti a sua conoscenza, ma con evidente abuso della posizione a lui derivante dall’essere ad un tempo direttore amministrativo e affine della Mi., invitava i presenti a non riferire alcunchè a quest’ultima, giungendo addirittura a minacciare in modo esplicito di possibili conseguenze la persona vittima del comportamento molesto ed indecente di altro dipendente, rispetto al quale era suo dovere specifico, anche a termini dell’art. 33, lett. J), di non tollerare alcun abuso.

A fronte di tale motivata statuizione, il G., con il suddetto motivo di ricorso, ribadisce assertivamente che la riunione verteva su una condotta sanzionarle della M., circostanza argomentatamente smentita dalla Corte d’Appello con congrua motivazione.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare, con giurisprudenza costante, con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente; l’apprezzamento dei fatti e delle prove, infatti, è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che nell’ambito di detto sindacato, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., ord. n. 7921 del 2011).

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 436 c.p.c., in relazione alla declaratoria di inammissibilità dell’appello incidentale proposto dal G..

Ad avviso del ricorrente, la mancata notifica dell’appello incidentale non comporta l’improcedibilità dello stesso quando la controparte ha accettato il contraddittorio controdeducendo sullo stesso.

Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 436 c.p.c., comma 3, l’appellato può proporre appello incidentale nella memoria di costituzione incidentale e deve notificarla alla controparte, almeno dieci giorni prima dell’udienza fissata.

La notificazione costituisce adempimento non derogabile tenuto conto, altresì, che essa è richiesta anche per il contumace.

Occorre ricordare come secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disposizione di cui all’art. 292 c.p.c., per la quale devono essere notificate al contumace le comparse che contengono domande nuove o riconvenzionali va applicata anche alle comparse contenenti l’appello incidentale, ponendosi in tale situazione la stessa esigenza di rispetto del principio del contraddittorio, onde consentire al contumace di prendere conoscenza dell’appello incidentale a tutela del suo diritto di difesa (Cass., n. 4747 del 2000, n. 26852 del 2006). Sicchè l’omessa notifica al contumace dell’appello incidentale determina una nullità che, sebbene relativa, può essere fatta valere con ricorso per cassazione dallo stesso contumace (Cass., n. 7307 del 2009).

Correttamente, quindi, la Corte d’Appello ha dichiarato improcedibile l’appello incidentale non risultando in atti la notificazione della memoria di costituzione, circostanza non contestata con il presente motivo di impugnazione.

3. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata mancanza e/o manifestà illogicità, contraddittorietà della sentenza impugnata in relazione al fatto controverso e decisivo per il giudizio costituito dalla riunione dei primi giorni di aprile 2005 (recte: 2004), come addebito mosso al ricorrente con lettera del 20 agosto 2005, seguita dalla lettera di intimazione del licenziamento in data 27 settembre 2005.

Espone il ricorrente che il giudice territoriale poneva a base della decisione risultanze che non costituiscono prova, quali gli esiti dei procedimenti penali e le informazioni verbalizzate in sede di ispezione interna. Vizio di motivazione sussisterebbe, altresì, in ordine all’aver ritenuto che la riunione dell’aprile 2005 (recte: 2004) era finalizzata ad impedire che l’amministratore unico potesse acquisire conoscenza delle molestie, e all’affermazione che la versione del G. era smentita dalla risultanze istruttorie.

4. Con il quarto motivo d’impugnazione sono dedotte ulteriori contraddizioni e travisamento dei fatti come risultanti dalle prove in atti.

Il ricorrente contesta il rilievo attribuito alle informazioni verbalizzate in sede di ispezione interna e richiama passi delle risultanze istruttorie ( Z., M. e R.) a sostegno del mancato raggiungimento della prova, non essendo stato dimostrato nè che alla riunione partecipò la M., nè che la stessa fosse stata invitata dal G. a ritirare la denuncia, nè che oggetto della riunione fossero state la gravi molestie subite dalla M. medesima.

5. I suddetti motivi terzo e quarto devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.

Come questa Corte ha più volte affermato (ex multis, Cass., n. 6288 del 2011), il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

Occorre, altresì, rilevare che in ordine alle circostanze apprese da terzi, anche quando non vi siano allegati i verbali delle informazioni assunte che costituiscono la fonte della conoscenza riferita, si è in presenza di elementi che il giudice può valutare in concorso con gli altri elementi probatori (Cass. 11946 del 2005) e che il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento anche gli elementi probatori raccolti in un giudizio penale, ed in particolare le risultanze della relazione di una consulenza tecnica esperita nell’ambito delle indagini preliminari, soprattutto quando la relazione abbia ad oggetto una situazione di fatto rilevante in entrambi i giudizi (Cass., n. 15714 del 2010).

La valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass., n. 21412 del 2006).

Nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello, con congrua e logica motivazione che fa corretta applicazione dei suddetti principi, ha ritenuto comprovata la storicità dei fatti di cui all’addebito disciplinare dalle risultanze dei procedimenti penali documentati in atti, e circa 1′ effettuazione della riunione e dei suoi specifici contenuti attribuiva rilievo, alla ulteriore concordanza delle dichiarazioni rese dal P. in sede di ispezione interna, nonchè a quanto riferito dalla Z., nonchè dalla M. in primo grado.

Pertanto le censure del G. si sostanziano nella richiesta di un riesame nel merito.

Come già ricordato sub n. 1 è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte che con la proposizione del ricorso per Cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito (cfr., al riguardo, explurimis, Cass., ord. n. 7021 del 2011).

5. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 1 e ss., della L. n. 300 del 1970, art. 18, in relazione alla nullità e/o illegittimità o inefficacia del licenziamento intimato con lettera del 27 settembre 2005, per violazione del principio di proporzionalità e parità di trattamento e, comunque, nullità della sentenza per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione su tale punto.

Deduce esso ricorrente di avere subito un trattamento del tutto sproporzionato e sperequato rispetto a quanto adottato dal datore di lavoro nei confronti degli altri protagonisti della vicenda in esame.

Ed infatti, qualsiasi cosa lui avesse suggerito nella riunione, spettava al direttore sanitario e al direttore delle risorse umane stabilire come comportarsi con l’amministratore unico. Nei confronti degli stessi, che in piena autonomia avevano scelto di non riferire all’amministratore unico, tuttavia, non era stato assunto analogo provvedimento disciplinare il licenziamento nei propri confronti, quindi, si connotava come discriminatorio, dal momento che per il medesimo illecito disciplinare veniva inflitta una sanzione conservativa ad altri dipendenti.

5.1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato. Ed infatti lo stesso si fonda sul presupposto di una erronea ricostruzione dei fatti oggetto dell’addebito da parte della Corte d’Appello, come già prospettato nei motivi che precedono, ritenuti non fondati.

Può, altresì rilevarsi, che come questa Corte ha avuto modo di affermare la valutazione relativa alla proporzionalità della sanzione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivata. Nella specie la Corte d’Appello con motivazione congrua e corretta ha ritenuto che le condotte contestate al G. fossero così lesive dei doveri del direttore amministrativo da far venir meno il rapporto fiduciario col datore di lavoro, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto lavorativo e che non emergeva alcun elemento che potesse far ritenere che lo stesso avesse agito nell’interesse della società datoriale. Vi è dunque uno specifico riferimento alla posizione lavorativa del G. stesso, direttore amministrativo posto in posizione apicale nella struttura della casa i cura, che già di per sè esclude la prospettata identità di situazioni. Comunque, ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore è tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è irrilevante che analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; solo l’identità delle situazioni potrebbe, infatti, privare il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe (Cass., n. 5546 del 2010).

6. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e ss., della L. n. 300 del 1970, art. 18 e dell’art. 33 del CCNL;

omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo e controverso relativo alla tempestività della lettera di licenziamento intimato con lettera del 27 settembre 2005.

Deduce il ricorrente che il giudice di appello ha ritenuto tempestiva la comunicazione in quanto il datore di lavoro sarebbe venuto a conoscenza dei fatti solo nell’agosto 2005, ma ciò è contraddetto dal fatto che la Mi. non poteva che essere a conoscenza dei fatti dal settembre 2004, quando ebbe il colloquio con la M., e che il direttore sanitario e il direttore delle risorse umane venivano a conoscenza del comportamento asseritamente sanzionabili del G. dal momento in cui lo poneva in essere nell’aprile 2004.

Il motivo non è fondato e deve esser rigettato.

In tema di licenziamento per giusta causa, l’immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore; peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichi o meno il ritardo (Cass., n. 15649 del 2010).

La Corte d’Appello, con accertamento di fatto congruamente e correttamente motivato che si sottrae alle denunciate censure ha affermato che nel settembre 2004 la Mi. apprendeva direttamente dalla M. unicamente delle molestie sessuali subite dal D., non della riunione indetta dal G., circostanza emersa a seguito degli accertamenti operati dal dott. R.L. divenuto Direttore generale nell’aprile del 2005, che apprendeva della riunione nell’agosto 2005 dai dottori P. e Z..

Quest’ultimi riferivano, nei verbali ispettivi dell’agosto 2005, di non avere mai parlato di quella riunione prima di allora. Pertanto, argomentatamente, riteneva la Corte che la Mi. avesse avuto conoscenza della condotta del G. gravemente violativa dei propri doveri, solo nell’agosto 2005, con la conseguente tempestività della contestazione.

7. Con il settimo motivo di impugnazione è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1325, 1372, 1373, 2118 e 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e ss., della L. n. 300 del 1970, art. 18, in relazione alla nullità e/o illegittimità e/o inefficacia del licenziamento intimato con lettera del 27 settembre 2005 successiva al licenziamento intimato con la precedente lettera del 20 agosto 2005.

Ad avviso del ricorrente il secondo licenziamento poichè intimato in corso di causa e prima della sentenza che avesse disposto la reintegra nel posto di lavoro doveva considerarsi privo di ogni effetto per l’impossibilità di adempiere alla sua funzione. Il giudice di appello non aveva rilevato ciò, mentre in precedenza il giudice di primo grado aveva ritenuto tale questione implicitamente assorbita dalle ragioni di illegittimità del licenziamento.

Il motivo non è fondato e deve essere rigettato. Nello stesso non vi è alcun riferimento al contenuto delle doglianze formulate in appello, in ordine alle quali si deduce l’omessa statuizione.

Come già affermato da questa Corte (Cass. n. 1755 del 2006), un vizio di omessa pronunzia atta a integrare una violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, non deve essere formulato, con il ricorso per cassazione, mediante la denuncia di un error in iudicando per violazione di norme di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, o per inidoneità della motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto tali doglianze, da un lato, presuppongono che il giudice di merito abbia preso in esame la questione prospettatagli e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto, oppure senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa al riguardo; dall’altro, consentono alla parte di chiedere al giudice di legittimità di verificare, sulla base del solo esame della sentenza impugnata, unicamente la correttezza giuridica della decisione e la sufficienza e la logicità della motivazione. La censura del vizio in questione deve essere, invece, formulata mediante la denunzia del pertinente error in procedendo di cui all’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, dacchè solo tale specifica differente deduzione consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto in se processuale – di effettuare l’esame, altrimenti preclusogli, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello.

La deduzione di un vizio che ridonda in omessa pronunzia implica, infatti, la necessità di accertare se e in quali termini il preteso motivo di gravame fosse stato proposto e, di conseguenza, se esso avesse posseduto quei requisiti di specificità, imposti dall’art. 343 c.p.c., la cui ricorrenza rende obbligatori l’esame del motivo e la pronunzia su di esso da parte del giudice del merito e, quindi, censurabile l’omissione dell’uno e dell’altra, ovvero se tali requisiti non avesse posseduto e, quindi, la denunciata omissione risultasse invece inesistente, per non essere stata richiesta alcuna pronunzia, oppure giustificata, per essere espressione della reiezione implicita di un motivo inammissibile in quanto non idoneamente proposto.

Tuttavia, (Cass., sentenza n. 23420 del 2011), anche in ipotesi di denuncia di un error in procedendo, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè il ricorrente è tenuto, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale, non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata.

Pertanto, il ricorrente deve indicare il tema su cui mediante il motivo d’appello il giudice di secondo grado era stato chiamato a statuire, anche tenuto conto (Cass., n. 5351 del 2007) che non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo.

La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro ex actis dell’assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo.

Peraltro, in tema di rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sè astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente (Cass., n. 1244 del 2011).

8. Con l’ottavo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e ss., della L. n. 300 del 1970, art. 18 e comunque omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione al mancato riconoscimento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto nella misura non inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto conseguente al primo licenziamento intimato con lettera del 20 agosto 2005, che è stato ritenuto illegittimo dal giudice d’appello.

Prospetta il ricorrente che tale indennità risarcitoria costituisce una misura minima inderogabile, per la cui attribuzione non può assumere rilievo la circostanza che lo stesso fosse in aspettativa sindacale. Nè la stessa poteva essere esclusa, come affermato dalla Corte d’Appello, sul presupposto del breve tempo intercorso tra i primo licenziamento ritenuto illegittimo e il secondo ritenuto legittimo e sulla circostanza che al recesso non fosse seguita l’interruzione del rapporto.

8.1. Il motivo è fondato e deve essere accolto.

Ed infatti, è giurisprudenza consolidata che la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4, nel testo sostituito della L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1, nel prevedere, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione “iuris tantum” di lucro cessante il cui presupposto è l’imputabilità al datore di lavoro dell’inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa (cfr., tra le tante, Cass., n. 1950 del 2011; Cass., n. 1977 del 2009 e, da ultimo, Cass., n. 28703 del 2011).

9. Il ricorso deve essere accolto solo in relazione all’ottavo motivo, rigettati gli altri motivi. La Corte pertanto cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte d’Appello di Messina che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato per l’ulteriore corso della controversia.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie l’ottavo motivo di ricorso. Rigetta gli altri motivi di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte d’Appello di Messina.

Redazione