Licenziamento per superamento del periodo di comporto (Cass. n. 12233/2013)

Redazione 20/05/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con sentenza del 24.4.2009, la Corte di Appello di Milano rigettava il gravame proposto dalla s.p.a. Poste Italiane avverso la decisione di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a P.D. per superamento del periodo di comporto, condannando la società alla reintegrazione del predetto nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni a titolo risarcitorio. Rilevava la Corte che non era fondata la censura della società e che la dilazione del periodo di comporto, offerta dalla concessione dell’aspettativa, era finalizzata a consentire al lavoratore la ripresa dell’attività lavorativa, con ciò rimanendo preclusa la possibilità dell’esercizio del recesso in relazione al compimento del periodo medesimo, atteso che, diversamente, l’aspettativa sarebbe stata superflua, venendo la stessa fruita senza decorrenza di anzianità e senza corresponsione di retribuzione, trascinando lo stato di quiescenza del rapporto senza alcuna ragione ed utilità.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la società, con cinque motivi, illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste il P., con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 2110 c.c., nonchè all’art. 40 c.c.n.l. 11 luglio 2003 applicabile ai dipendenti della s.p.a. Poste Italiane, ex art. 360 c.p.c., n. 3, richiamando il testo della norma contrattuale per il principio di autosufficienza ed osservando che il tenore dell’art. 40 c.c.n.l. citato è assolutamente chiaro ed univoco e che il combinato disposto di tale articolo e dell’art. 2110 c.c., autorizza il datore a recedere una volta che vengano superati il periodo di comporto e quello di aspettativa, per cui l’applicazione del criterio interpretativo, diverso da quello letterale, adottato dal giudice del gravame, non era consentita anche alla stregua della norma codicistica richiamata.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che l’aspettativa è una concessione ulteriore e facoltativa concordata in sede sindacale, che viene fatta al lavoratore che si trovi in stato di perdurante malattia e che la stessa non è affatto prevista dalla legge come obbligatoria, avendo la funzione di consentire al lavoratore di recuperare l’integrità psico fisica che sarebbe, invece, ulteriormente compromessa qualora intervenisse un immediato provvedimento disciplinare, in un’ottica di favor per il lavoratore.

Il terzo motivo, si incentra sull’asserita tardività del licenziamento irrogato al P. e con lo stesso la società evidenzia che tra il rientro in servizio del lavoratore (28.1.2005) ed il licenziamento del 1.4.2005 è decorso il tempo necessario alle comunicazioni interne ed alle verifiche di prassi tra il Focal point dell’U.D.R. di Milano centro ed il Punto Amministrativo e la Gestione Risorse Umane Regionali Lombardia di Poste, rilevando, altresì, che dalla condotta intesa alla verifica della posizione non era evincibile alcuna volontà di rinuncia al licenziamento. Era, invero, necessario dare corso alle procedure burocratiche che richiedevano del tempo per il relativo espletamento. Pertanto, congruo e ragionevole doveva ritenersi, secondo la ricorrente, il lasso di tempo intercorso tra rientro in servizio del lavoratore e licenziamento intimato al medesimo.

Aggiunge la società che al recesso per superamento del comporto non si applicano i principi di cui alla L. n. 604 del 1966, ma solo l’art. 2 di tale normativa, relativo alle regole formali.

Il quarto motivo verte sulle carenze di allegazione ed offerte di prova avversarie e con lo stesso si osserva che, pure avendo il P. asserito che le assenze per malattia erano y dovute a colpa del datore, il quale l’avrebbe adibito a mansioni incompatibili con il suo stato di salute, il relativo onere probatorio non era stato al riguardo in alcun modo assolto anche attraverso la produzione di certificati medici che consentissero di ricavare il dedotto nesso di causalità.

Il quinto motivo attiene alla reintegrazione del P. ed alle conseguenze economiche, con lo stesso rilevandosi che l’accertamento dell’aliunde perceptum o percipiendum non costituisce un’eccezione riservata alla parte, essendone consentito il rilievo d’ufficio, anche attraverso il ricorso alla richiesta di esibizione di documentazione idonea all’accertamento dei redditi.

Va, preliminarmente, osservato che il terzo, il quarto ed il quinto motivo sono inammissibili ed inconferenti, atteso che le relative questioni sono estranee al decisum dell’impugnata sentenza e che non risulta che le relative questioni, seppure affrontate in memoria di costituzione in primo grado, siano state adeguatamente richiamate in sede di gravame ai sensi dell’art. 346 c.p.c.. A tal fine è sufficiente richiamare giurisprudenza consolidata di questa Corte alla cui stregua, a fronte di questioni sulle quali il giudice di primo grado non si sia espressamente pronunciato, avendole ritenute assorbite da un’altra decisione di carattere logicamente preliminare, l’appellante che questa preliminare decisione impugni non ha l’onere di proporre anche uno specifico motivo di gravame concernente le questioni assorbite, in quanto un siffatto motivo di gravame risulterebbe in realtà privo di oggetto, proprio perchè fa difetto una statuizione contro cui appuntare specifiche doglianze, ma ove intenda tener ferme anche le domande in ordine alle quali non v’è stata pronuncia ha I’ onere di riproporre dette domande all’attenzione del giudice di secondo grado, nel rispetto dell’art. 346 c.p.c. (cfr. Cass. 8.11.2005, Cass. 9.6.2010 n. 13855, che ha confermato il principio in questione pur ritenendo lo stesso non applicabile al caso esaminato che si era concluso con declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado).

Il primo ed il secondo motivo, che possono trattarsi congiuntamente per la evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, se pure nella differente articolazione della deduzione di vizio attinente a violazione di legge e di vizio motivazionale, sono fondati.

Le regole dettate dall’art. 2110 c.c., per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella degli artt. 1256 e 1463 e 1464 c.c., e si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonchè nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso; le stesse regole hanno quindi la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente. Ne deriva che il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente a legittimare il recesso, e pertanto non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo nè dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa nè quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (cfr., tra le altre, Cass. 31.1.2012 n. 1404).

Corollario di quanto detto è che l’inutile completo decorso anche del periodo di aspettativa comporta che, dopo un periodo di sospensione delle obbligazioni sinallagmatiche delle parti, le stesse riprendano vigore alla cessazione del periodo di aspettativa, onde non è configurabile un’incompatibilità logica, desunta da non condivisibili considerazioni di irragionevolezza ed inutilità dell’istituto dell’aspettativa, tra la concessione di quest’ultima e l’intimazione del licenziamento. Ed invero, i limiti temporali per potere procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere oltre che il periodo di comporto anche quello dell’aspettativa se richiesta dal lavoratore e concessa dal datore di lavoro, ma ciò non autorizza conclusioni diverse da quelle consentite da una corretta interpretazione anche della normativa contrattuale, che, all’art. 40, comma 3, prevede che “trascorsi i periodi di assenza previsti dai precedenti commi” – ventiquattro mesi di assenza per malattia e dodici di aspettativa – “la società potrà procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro corrispondendo al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso”. Sicchè il mancato rientro del lavoratore prima della scadenza del periodo di aspettativa, in aderenza al prioritario canone interpretativo dei contratti collettivi di diritto comune, fondato sul significato letterale delle parole – che prevale su quelli interpretativi – integrativi ove il dato letterale riveli con chiarezza e univocità, come nella specie, la volontà dei contraenti – deve ritenersi idoneo a giustificare il recesso datoriale, connesso unicamente al verificarsi del superamento del dato temporale che segna il limite di tollerabilità dell’assenza, preventivamente ed in modo generalizzato valutato dalle parti collettive.

Non può invero, sostenersi, conformemente a quanto prospettato dal controricorrente, che il datore possa recedere dal contratto solo se al termine del comporto e dell’aspettativa la malattia persista ed il lavoratore stesso non sia più in grado di tornare al lavoro, atteso che una tale interpretazione conffligge con la ricostruzione degli istituti del comporto e dell’aspettativa effettuata in dottrina ed in giurisprudenza, che, come già detto, ravvisa nel superamento dei relativi termini la condizione necessaria e sufficiente a legittimare il recesso, escludendo ogni necessità di prova, da parte del datore di lavoro, sia in ordine al giustificato motivo oggettivo, sia in relazione all’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa che a quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.

La causa, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto – costituendo dato pacifico quello che il lavoratore sia rientrato in servizio in data 28.1.2005, dopo la scadenza del periodo di aspettativa (26.1.2005) – può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, seconda parte, con il rigetto della domanda avanzata dal P. nel ricorso introduttivo di primo grado.

La decisione in senso conforme alle richieste del lavoratore adottata all’esito di entrambi i gradi di merito e ritenuta erronea nella presente sede giustifica la compensazione tra le parti delle spese di lite dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di cui al ricorso introduttivo e compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2013.

Redazione