Licenziamento per giusta causa al dipendente che ruba sul posto di lavoro (Cass. n. 802/2013)

Redazione 15/01/13
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 28 marzo 2006 la Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Tribunale di Catanzaro del 1° febbraio 2005 che aveva rigettato la domanda di I. G. volta ad ottenere la dichiarazione di nullità del licenziamento per giusta causa irrogatogli da T. s.p.a. in data 31 marzo 2003. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia considerando provato il fatto addebitato allo I. consistito nel furto di sessanta litri di carburante, sulla base delle prove testimoniali assunte; ha considerato irrilevante l’archiviazione del procedimento penale promosso a carico dello I. per i medesimi fatti, ed ha considerato anche proporzionata alla gravità del fatto, la sanzione in questione.
Lo I. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato ad unico motivo articolato.
Resiste con controricorso T. che ha presentato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 2ll9 cod. civ. e 102 del CCNL di categoria, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ. In particolare si deduce che la corte territoriale non avrebbe interpretato correttamente le prove testimoniali poste a fondamento della decisione impugnata, né avrebbe considerato la pronuncia di archiviazione per il medesimo fatto in sede penale ove, fra l’altro, T. non ha ritenuto neppure di costituirsi parte civile a conferma della assenza di danno patito per il fatto. Inoltre si lamenta che la corte d’Appello non avrebbe esaminato compiutamente la proporzionalità e adeguatezza del comminato licenziamento rispetto alla condotta ascritta al lavoratore.
Il ricorso è infondato. ll ricorrente propone sostanzialmente una rivisitazione del giudizio operato dai giudici di merito sia per quanto riguarda la valutazione delle prove, sia per quanto riguarda la proporzionalità della sanzione. Tali giudizi, riguardanti il merito, sono riservati ai giudici di merito e, come costantemente affermato da questa Corte, non sono sindacabili in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivati come nel caso in esame. Per quanto riguarda la dedotta mancanza di valutazione del giudizio penale subito dal lavoratore per i medesimi fatti che hanno condotto al licenziamento e conclusosi con sentenza di assoluzione, va affermato che il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, che sia stato comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale (per tutte Cass. 9 giugno 2005 n. 12134); ed in ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della “ratio” degli artt. 2119 cod. civ. e della legge 15 luglio 1966 n. 604, e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali, sicché non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi la legittimità del recesso nonostante l’assoluzione del lavoratore in
sede penale pr le medesime vicende addette dal suo datore di lavoro a giustificazione dell’immediata risoluzione del rapporto (Cass. 05 agosto 2000, n. 10315).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del soccombente ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in € 40,00 per esborsi, oltre € 3.000,00 (tremila,00) per compensi oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 10 ottobre 2012.

Redazione