Licenziamento illegittimo se il muratore poteva essere impiegato in altri cantieri (Cass. n. 16228/2013)

Redazione 27/06/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 10.3.2009, la Corte di Appello di Bari, in accoglimento parziale del gravame della società ed in parziale riforma dell’impugnata decisione, rigettava la domanda di D.V.D. di pagamento delle somme di Euro 1327,75 per differenze retributive e di Euro 4157,15 per t.f.r., confermando nel resto la decisione di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato il 30.12.1998 al D.V., condannando la società alla reintegrazione del predetto nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni maturate da tale data alla reintegrazione, nonché al pagamento dei contributi in favore della Cassa Edile per il periodo agosto 1996 – giugno 1998. Rilevava la Corte del merito che meritava di essere confermata la decisione di primo grado quanto alla declaratoria di illegittimità di licenziamento intimato per fine lavori in cantiere edile senza che il datore avesse assolto all’onere di dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore in altri cantieri nei quali era dislocata l’attività dell’impresa, ma che, quanto all’indennità di mancato preavviso ed al t.f.r., una volta ritenuta l’illegittimità del recesso e disposta la reintegra, gli stessi non competessero, come pure non erano dovuti lo straordinario feriale ed il compenso per lavoro domenicale, dovendo, oltre alla mancata presentazione del legale rappresentante della società a rendere l’interrogatorio formale deferitogli, considerarsi l’inesistenza di ogni altro elemento di prova.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’impresa ing. ****************, affidando l’impugnazione a due motivi.
Resiste, con controricorso, il D.V..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, la ricorrente denunzia vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., per l’omesso esame dell’ordinanza del 19.1.2006, sostenendo che la sentenza gravata sia viziata da mancato esame di documenti e da omessa motivazione al riguardo, perché la Corte del merito non avrebbe esaminato l’ordinanza collegiale menzionata, con la quale la difesa della ricorrente era stata autorizzata a depositare note difensive in merito alla legittimità del licenziamento del D.V. ed alla impossibilità di un inserimento di quest’ultimo nell’organico dell’impresa in altri cantieri indicati dal lavoratore e non avrebbe preso in esame né le note autorizzate, né i documenti allegati. Dalla documentazione esibita emergeva, invero, che, era stato impossibile ricollocare il lavoratore nei cantieri di *******, Eboli ed in altri, sia perché alcune opere erano state affidate a ditte esterne, sia perché altre sedi lavorative necessitavano di operai specializzati. Osserva che si trattava di documenti preesistenti al processo, la cui produzione non andava ad incidere sul principio di concentrazione del processo e formula quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..
Con il secondo motivo, la società lamenta, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c., omissione di pronuncia e motivazione su punti decisivi della controversia, fra loro concordanti e concludenti, osservando che non era stato preso in esame l’invito del 25.1.2006, rivolto al lavoratore, di ripresa del lavoro, né era stata valutata la richiesta di informative. Precisa che, nelle note autorizzate con l’ordinanza citata, essa ricorrente aveva rappresentato che, con lettera raccomandata del 25.1.2006, reiterata con nota n. 303 del 21.2.2006, il D.V. era stato invitato presso gli uffici della società per essere avviato al lavoro come muratore di 2 livello, ma che a tale nota il D.V. non aveva dato riscontro alcuno, dimostrando in tal modo di non avere più interesse a prestare attività lavorativa per la Impresa M.. La Corte di Appello ha omesso, secondo la società, ogni e qualsiasi cenno o motivazione sulle circostanze rappresentate all’udienza del 26.2.2009, relative al lavoro espletato dal D.V. presso altre ditte, e sulla richiesta di informative presso l’Ufficio di Collocamento di (…). Anche in relazione a tale motivo formula quesito riguardante, tra l’altro, l’aliunde perceptum.
I motivi vanno trattati congiuntamente, attesa l’evidente connessione ed omogeneità delle questioni che ne costituiscono l’oggetto, tenuto conto che le doglianze in ambedue i motivi sono prospettate ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
Va premesso che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’ultimazione delle opere edili per la cui realizzazione i lavoratori sono stati assunti non è sufficiente a configurare un giustificato motivo di recesso, salvo che il datore di lavoro non dimostri l’impossibilità di utilizzazione dei lavoratori medesimi in altre mansioni compatibili, con riferimento alla complessità dell’impresa e alla generalità dei cantieri nei quali è dislocata la relativa attività, dovendosi peraltro esigere dal lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile reimpiego, mediante l’indicazione di altri posti in cui poteva essere collocato, cui corrisponde l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti, da intendersi assolto anche mediante la dimostrazione di circostanze indiziarie, come la piena occupazione negli altri cantieri e l’assenza di altre assunzioni in relazione alle mansioni del dipendente da licenziare (V., tra le altre, Cass. 22.10.2009 n. 22417).
La Corte di Bari ha ritenuto che l’onere probatorio gravante sul datore non sia stato assolto. Al riguardo sostiene la ricorrente che con ordinanza del 19.1.2006 essa sarebbe stata autorizzata al deposito di note difensive in merito alla legittimità del licenziamento ed in specie in relazione alla impossibilità di inserimento del D.V. nell’organico dell’impresa in altri cantieri indicati da controparte. La doglianza si fonda sull’erronea convinzione che l’ordinanza – della quale, in ossequio al principio dell’autosufficienza, non si riporta neanche il contenuto -, autorizzando il deposito di note difensive rispetto alla questione specifica del reinserimento del lavoratore, uguale autorizzazione avrebbe concesso anche per la produzione documentale. Ma in merito a tale assunto deve rilevarsi che altro è la produzione documentale, rispetto ad un provvedimento con il quale veniva conferita la possibilità di redigere note difensive e, peraltro, come emerge dalla intestazione della sentenza gravata, all’udienza collegiale del 26.2.2009, le parti avevano rassegnato le rispettive conclusioni, nelle quali parte appellante si era riportata a quanto richiesto nel ricorso in appello depositato il 18.2.2005, sicché non potevano poi trovare ingresso in giudizio documenti ulteriori, asseritamente prodotti dall’appellante in conformità all’ordinanza menzionata.
Il combinato disposto dell’art. 416, terzo comma, e dell’art. 437, secondo comma, cod. proc. civ. è stato sempre interpretato nel senso che, nel rito del lavoro, l’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ovvero nella memoria difensiva del convenuto, dei documenti, nonché il loro mancato deposito unitamente a detti atti, anche se in questi espressamente indicati, determinano la decadenza dal diritto alla produzione dei documenti stessi, con impossibilità della reviviscenza di tale facoltà in un successivo grado di giudizio, evidenziandosi, però, che, in materia, deve comunque tenersi conto del potere istruttorio d’ufficio del giudice di cui all’art. 421 cod. proc. civ. (e, in appello, previsto dall’art. 437, comma secondo cod. proc. civ.), onde la suddetta preclusione (riguardante sia le prove costituende che quelle precostituite) può essere superata solo nel caso in cui il giudice del rito del lavoro, sulla base di un potere discrezionale, non valutabile in sede di legittimità, ritenga tali mezzi di prova, non indicati dalle parti tempestivamente, comunque ammissibili perché rilevanti ed indispensabili ai fini della decisione nel giudizio di secondo grado (cfr, in tal senso, tra le tante, Cass. 13.3.2009,; Cass. 13.7.2009 n. 16337; Cass. 5.7.2007 n. 15228, Cass. 23.3.2009 n. 6969; Cass. 19.2.2009 n. 4080). Nelle pronunce di legittimità susseguitesi con riferimento alla specifica questione è stata ribadita la perentorietà della preclusione, sia pure con il temperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della “verità materiale”, attraverso l’utilizzo dei poteri dispositivi del giudice al fine di rendere possibile l’acquisizione dei documenti che rivestano il carattere dell’indispensabilità ai fini della decisione della controversia, sempre che i fatti che si intendono provare con la produzione documentale siano stati ritualmente e tempestivamente introdotti in causa e siano emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.
Questo Collegio presta adesione all’orientamento più recente espresso da questa Corte che prevede un temperamento dei principi in materia, come affermato dalla sentenza delle S.U. 20.4.2005 n. 8202, nella quale, pure affermandosi la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini perentori e decadenziali, che rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di appello, è stato previsto un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo comma (cfr. Cass., s.u., 8202/2005 cit.). Non è questa, tuttavia, la ipotesi verificatasi nel caso esaminato in cui non solo, per quanto detto, l’ordinanza non disponeva nei sensi riportati dall’appellante – il quale nelle conclusioni neanche aveva fatto richiamo a richieste o produzioni diverse da quelle indicate nell’atto di gravame -, ma non risulta neanche precisato il contenuto dei documenti asseritamente depositati, al fine di controllarne la rilevanza e decisività ai fini di causa.
Infine, quanto al motivo di impugnazione relativo all’aliunde perceptum, deve rilevarsi che la censura si fonda sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe omesso di motivare, se non in via piuttosto generica, in ordine ad un fatto controverso ed in parte decisivo per il giudizio e con lo stesso si deduce la violazione del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., nonché dell’art. 421 c.p.c., in ragione dell’omissione di ogni decisione in merito alla richiesta formulata dalla società, volta ad ottenere l’esibizione della documentazione necessaria al fine di consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti dal D.V. per attività svolte alle dipendenze e/o nell’interesse di terzi. Si afferma, poi, che l’aliunde perceptum non possa che essere genericamente dedotto, essendo, se mai, onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, e che, in definitiva, fatti costituenti parte determinante della res controversa non hanno formato oggetto di una valutazione da parte del giudice del merito, con conseguente vizio della sentenza. Osserva questa Corte che la deduzione del vizio come prospettata avrebbe reso necessario trascrivere il motivo dedotto in sede di gravame, al fine di consentire alla Corte di valutare la denunziata omissione valutativa e che comunque, in termini più generali, la stessa non coglie nel segno e risulta formulata in dispregio del principio di autosufficienza, non riportandosi neanche il contenuto preciso delle istanze istruttorie asseritamente avanzate e disattese dalla Corte del merito, in ragione della ritenuta natura astratta delle enunciazioni che si intendevano provare o in relazione alle quali era stato sollecitata l’attivazione di poteri istruttori d’ufficio.
Le ulteriori doglianze oltre a prospettare inammissibilmente per la prima volta nella presente sede di legittimità questioni che l’azienda non ha indicato di avere già portato all’esame dei giudici del merito, si concludono con quesiti che appaiono formulati in dispregio della regola che impone l’indicazione del necessario momento di sintesi in relazione ai vizi motivazionale dedotti, senza considerare che, anche ove si ritenesse che la doglianza integri la deduzione di un vizio di omessa pronunzia, il quesito conclusivo, necessario ratione temporis, sarebbe in ogni caso, per come formulato, inammissibile.
Le svolte considerazioni conducono al rigetto del ricorso.
Le spese di lite del presente giudizio seguono la soccombenza della società ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Redazione