Licenziamento: illegittimo per giustificato motivo oggettivo se il dipendente si rifiuta di trasferirsi presso altra società del gruppo (Cass. n. 6/2013)

Redazione 02/01/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 25/10/2007 la Corte d’Appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del maggio 2003 per giustificato motivo oggettivo di V.V.. dipendente della soc 3V Sigma spa ed inquadrata in livello B2.

La Corte d’Appello ha ritenuto che la società datrice di lavoro non avesse fornito la prova dell’impossibilità di ricollocare la lavoratrice in una delle sue aziende o stabilimenti, dove occupava più di 300 dipendenti, in mansioni equivalenti.

La Sigma si era limitata ad affermare che vi era stata una sensibile contrazione dell’organico (da 465 a 319), che non vi erano state assunzioni dopo il licenziamento della ricorrente e che la lavoratrice aveva rifiutato l’offerta di ricollocazione presso altra società del gruppo.

a Corte territoriale ha rilevato, invece, che dall’esame del libro matricola era risultato che la Sigma, prima e dopo il licenziamento, aveva assunto a (omissis) cinque impiegali di cui uno in gennaio in B1 ed uno ad ottobre in C2 con mansioni di segretaria di direzione. e nella sede di (omissis), un impiegato nel marzo 2004 in C2, mansioni impiegatizie che la ricorrente avrebbe potuto svolgere, ma la società non aveva allegato ne provato alcuna ragione giustificativa della necessità di procedere a nuove assunzioni e dell’impossibilità di adibire alle stesse mansioni la lavoratrice.

La Corte ha poi rilevato che la società non avrebbe potuto invocare a giustificazione il rifiuto della lavoratrice ad essere licenziata dalla società e riassunta presso altra società controllata in (omissis) con meno di 15 dipendenti. Rileva infatti che la proposta era stata rifiutata per ragioni di convenienza non sindacabili ed era comunque, irrilevante essendo stata fatta un anno prima del licenziamento mentre si doveva avere riguardo al momento del licenziamento. Osserva ancora la Corte che successivamente alla lavoratrice non era stata l’atta altra proposta e tanto meno le era stato rappresentato che la ricollocazione era legata alla necessità di sopprimere il suo posto di lavoro.

Avverso della sentenza propone ricorso in Cassazione la soc. 3V Sigma, ora con nuova denominazione 3V Chemical Company spa. Si costituisce la V. con controricorso, la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione all’art. 2697 c.c., art. 360 c.p.c., n. 3).

Censura la sentenza nella parte in cui afferma che il datore di lavoro non aveva provalo l’impossibilità al momento del licenziamento di ricollocare la lavoratrice in altra mansione.

Rileva che, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, il lavoratore ha l’onere di allegare e provare le circostanze utili a dimostrare l’esistenza in azienda di un posto di lavoro cui poter essere adibito e che, là dove il lavoratore abbia assolto a tale onere probatorio, il datore di lavoro deve dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore alle posizioni lavorative da quest’ultimo indicate come disponibili.

Con il secondo motivo denuncia violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione all’art. 2103 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5). Censura la sentenza in quanto in contrasto con il principio che l’impossibilità di adibire il lavoratore a diverse mansioni deve essere valutata con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento escludendosi la rilevanza di fatti sopravvenuti, aveva dato rilevanza alle assunzioni relative tuttavia, ad epoche successive al licenziamento (una a gennaio in B1, altra in C2 ad ottobre ed a ***** in C2 nel marzo 2004). Osserva, inoltre, che in modo contraddittorio e senza motivazione la sentenza aveva escluso la rilevanza del rifiuto della lavoratrice di un altro posto di lavoro offertole circa otto mesi prima del licenziamento, in quanto, secondo la Corte, occorreva fare riferimento al momento del licenziamento.

La ricorrente, inoltre, rileva con riferimento alla valutazione di alternative in mansioni equivalenti che la Corte aveva allargato la verifica anche a posizioni alternative in mansioni inferiori (C2) o superiori (B1) e che quanto a tale S.L. non si trattava di una nuova assunzione essendo una lavoratrice già in forza all’azienda con inquadramento in C2, la quale si era dimessa e poi aveva chiesto di essere riassunta.

Le censure. congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate.

Circa il primo motivo deve rilevarsi che la ricorrente non ha dedotto di aver in appello sollevato la questione dell’inadempimento della lavoratrice all’onere di allegazione e che su di essa la Corte d’Appello non si sia pronunciata. Dalla sentenza impugnata emerge invece che la lavoratrice aveva impugnato il licenziamento “con ampie allegazioni in fatto e deduzioni in diritto anche per non avere il datore di lavoro collocato la dipendente in altre mansioni equivalenti per le quali vi erano in azienda posti disponibili “e che l’azienda si era limitata ad affermare che, al contrario, era stato dimostrato che vi era stata una sensibile contrazione dell’organico, che non vi erano state assunzioni dopo il licenziamento e che la dipendente aveva rifiutato l’offerta di ricollocazione presso altra società del gruppo”.

In ogni caso deve osservarsi che la L. n. 604 del 1966, art. 5, pone a carico de datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento e che, in giurisprudenza, è ormai consolidato il principio secondo cui in capo al datore di lavoro incombe, altresì, l’onere di provare l’impossibilità di adibire lo stesso lavoratore da licenziare ad altre mansioni equivalenti a quelle svolte all’interno dell’azienda nell’ambito dell’organizzazione aziendale.

Questa Corte ha, in particolare, precisato (cfr. Cass. n. 6559 del 2010 n 3040/2011) che “Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.. Pertanto, spetta al giudice il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, e l’onere probatorio grava per intero sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego”.

Nella specie la lavoratrice ha adempiuto all’onere di deduzione ed allegazione sulla stessa gravante.

Essa, infatti, da un lato ha esposto (cfr. pag. 43 del ricorso) la situazione dell’ufficio evasione ed ordini dopo il licenziamento l’esistenza di posizioni lavorative di prossima scopertura nonchè nel settembre successivo al licenziamento, l’assunzione di tale S.L.. Dall’altro lato l’acquisizione del libro matricola, dispossta dalla Corte d’Appello su istanza della stessa lavoratrice, ha consentito di appurare l’esistenza delle assunzioni evidenziate dalla Corte stessa nella sentenza.

Avverso dette circostanze la ricorrente ha rilevato con riferimento all’assunzione della S., che non si trattava di una nuova assunzione ma di lavoratrice in forza all’azienda come C2, la quale si era dimessa e poi aveva chiesto di essere riassunta.

Con riferimento alle posizioni evidenziate dalla Corte sulla base del libro matricola deve osservarsi che la ricorrente non si duole dell’esercizio da parte della Corte di un inammissibile esercizio del potere istruttorio in ordine a quale il richiamo alla L. n. 604 del 1966, art. 3, in relazione all’art. 2697 c.c., risulta in conferente, ma osserva l’irrilevanza delle nuove assunzioni in quanto si riferivano a posizioni inferiori e superiori.

Entrambe le argomentazioni non appaiono idonee a fornire la prova da parte del datore di lavoro dell’impossibilità di adibire la lavoratrice in altre mansioni all’interno dell’azienda e dunque di non poter utilizzare la lavoratrice in luogo dei nuovi assunti anche in considerazione del fatto che nessuna censura risulta svolta dalla ricorrente alla sentenza impugnata nella parte in cui ha ricostruito la posizione lavorativa della ricorrente dall’assunzione e da ultimo la sua collocazione in B2 ma con accettazione di svolgere mansioni inferiori in forza di contratto concluso con la società.

Circa il secondo motivo di impugnazione deve rilevarsi che la Corte d’Appello non ha violato il principio in base al quale l’impossibilità di adibire il lavoratore a diverse mansioni deve essere valutato con riferimento all’organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento escludendosi la rilevanza di fatti sopravvenuti. Le assunzioni esaminate dalla Corte si riferiscono infatti, pur sempre a fatti di pochi mesi successivi al licenziamento e, pertanto, in conformità ai principi espressi da questa Corte (cfr. Cass. a 6265/2000) ben dovevano essere valutati.

Quanto all’offerta alla V. di essere licenziata dalla società per essere assunta presso altra società del gruppo con meno di 15 dipendenti deve rilevarsi che la Corte ha sottolineato sia che l’offerta risaliva a circa un anno prima dei licenziamento, sia che alla lavoratrice, in violazione del principio di buona fede, non era stato rappresentato che la proposta di ricollocazione era in relazione alla necessità di sopprimere il suo posto di lavoro. Non si ravvisa, pertanto, pur dovendosi dare atto che l’offerta non era di un anno prima ma di circa 8 mesi antecedente, alcuna contraddittorietà della motivazione rispetto a quanto dalla Corte enunciato circa te nuove assunzioni.

Per le considerazioni che precedono il ricorso va respinto.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla controricorrente Euro 40.00 per esborsi ed Euro 3.000.00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

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