Licenziamento: il rifiuto alla riassunzione può limitare il risarcimento danni (Cass. n. 699/2013)

Redazione 14/01/13
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Svolgimento del processo

D.R.D. adiva il Giudice del lavoro di Salerno per impugnare il licenziamento intimatole dalla datrice di lavoro C. s.p.a. con comunicazione del 2.10.2000 ed effetto dal 21.10.2000 per giustificato motivo oggettivo.
Il giudice adito, in parziale accoglimento del ricorso, dichiarava l’illegittimità del licenziamento; respingeva la domanda di reintegra e riconosceva, a titolo risarcitorio, la misura minima di cinque mensilità dell’ultima retribuzione sul rilievo che la ricostituzione del rapporto era preclusa dal fatto che la ricorrente aveva rifiutato l’offerta di riassunzione formulata dalla società a distanza di pochi giorni dal licenziamento.
A seguito di appello proposto dalla lavoratrice per ottenere l’accoglimento integrale della domanda, la Corte di Appello di Salerno, con sentenza dell’11 giugno 2008, depositata il 5 settembre 2008, in parziale accoglimento del gravame, ordinava alla società appellata di reintegrare l’appellante nel posto di lavoro, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
Osservava la Corte territoriale, quanto al motivo di gravame avente ad oggetto la qualificazione del licenziamento, del quale l’appellante assumeva la natura collettiva, che nessuna allegazione in tal senso era stata formulata nel ricorso introduttivo e dunque la questione era nuova ed inammissibile; quanto al rifiuto opposto dalla ricorrente all’offerta di riassunzione, questo non poteva costituire una implicita rinuncia alla reintegra, ma la circostanza poteva essere valorizzata ai fini della limitazione del risarcimento del danno.
Per la cassazione parziale di tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui resiste con controricorso la soc. C. Parte ricorrente ha depositato note.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 112 e 113 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere la sentenza ritenuto domanda nuova la pretesa tendente ad ottenere una diversa qualificazione del licenziamento in termini di licenziamento collettivo e non individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo e parimenti nuova l’allegazione del profilo di illegittimità costituito dalla violazione dei criteri di scelta di cui alla legge n. 223 del 1991. Dall’esame del ricorso introduttivo era possibile evincere che tale censura era stata svolta, restando irrilevante la mancata enunciazione della norma violata.
Con il secondo e il terzo motivo si censura la sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’art. 18 comma 4 legge n. 300/70, avendo i giudici di appello, con argomentazione contraddittoria, ritenuto legittimo il rifiuto della riassunzione opposto dalla lavoratrice e al contempo fatto discendere da tale rifiuto effetti sfavorevoli, quale la limitazione del risarcimento del danno al minimo di legge in luogo di tutte le retribuzioni maturate successivamente al licenziamento invalido, secondo la regola generale applicabile alla fattispecie.
Il primo motivo è inammissibile per difetto di interesse (art. 100 cod. proc. civ.).
Nessun vantaggio potrebbe trarre l’attuale ricorrente da una diversa qualificazione del licenziamento, in quanto l’eventuale illegittimità di un licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta non potrebbe produrre altro effetto che quello dell’operatività della c.d. tutela reale di cui all’art. 18 legge n. 300/70, già riconosciuta ed applicata dai giudici dei due gradi di giudizio.
Dispone l’art. 5 legge n. 223/91, al terzo comma, che “il recesso…è annullabile in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal primo comma” del medesimo articolo e che al recesso anzidetto di cui si stata dichiarata “l’invalidità si applica l’art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300 e successive modificazioni”. La L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3 ricollega, dunque, la sanzione della annullabilità alla violazione dei criteri di scelta previsti dal medesimo art. 5, comma 1 (cfr. Cass. n. 27101 del 2006). La ricorrente ha dunque già conseguito l’effetto che le sarebbe potuto derivare dall’eventuale accoglimento della censura svolta.
In materia di procedimento civile, l’interesse ad agire ex art. 100 cod. proc. civ. va considerato con riguardo alla domanda proposta in giudizio e nell’ambito dello stesso, ovvero con riferimento al vantaggio che l’istante si è ripromesso nel proporre la domanda, e non anche in relazione a qualsiasi altro vantaggio prospettato dal ricorrente (Cass. n. 18273 del 2006, n. 8236 del 2003).
I restanti motivi hanno ad oggetto la pronuncia con la quale la Corte territoriale ha ritenuto che il rifiuto della riassunzione, pur non valendo come implicita rinuncia della prestatrice ad essere reintegrata nel posto di lavoro, potesse assumere rilevanza in senso riduttivo della misura del risarcimento del danno.
Tale motivazione è logicamente corretta e conforme a diritto, posto che il risarcimento del danno è istituto ontologicamente distinto dalla reintegrazione nel posto di lavoro, pur potendo concorrere con essa, ed è suscettibile, a determinate condizioni, di subire una riduzione, nell’arco compreso tra il minimo e il massimo legale di cui al quarto comma dell’art. 18 legge n. 300/70 (nel testo anteriore alle modifiche recentemente apportate dalla legge n. 92 n. 2012, non applicabile alla fattispecie ratione temporis).
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo affermato che la norma anzidetta costituisce una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale. Ne costituiscono puntuale applicazione le decisioni che richiedono, quale indefettibile presupposto dell’obbligo risarcitorio del datore di lavoro, l’imputabilità a costui dell’inadempimento secondo il precetto generale dell’art. 1218 c.c., fatta eccezione per la misura minima di cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale avente la sua radice nel rischio di un’impresa e può assumere la funzione di un assegno di tipo, in senso lato, assistenziale nel caso di assenza di responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro (cfr. Cass., 21 settembre 1998, n. 9464; 2 maggio 2000, n. 5499; 11 maggio 2000, n. 6041, 23 giugno 2001, n. 8621; 3 maggio 2004 n. 8364) Quanto invece al danno eccedente le cinque mensilità dovute per legge, si presume iuris tantum che questo corrisponda a tutte le retribuzioni non percepite in quel periodo (per tutte vedi Sez. un. 29 gennaio 1985 n. 2761, Sez. lav. 23 novembre 1992 n. 12498), salvo che il datore non provi l’aliunde perceptum o la possibilità del lavoratore di evitare il danno usando la normale diligenza (Cass. n. 3904 16 marzo 2002 n. 3904 e 2 settembre 2003 n. 12798; S.U. 29 aprile 1985 n. 2762, Cass. 23 novembre 1992 n. 12498, 19 febbraio 1992 n. 2073, Cass. 28 luglio 1994 n. 7048).
Il principio della imputabilità del danno al datore di lavoro inadempiente richiede la persistenza del nesso di causalità fra danno e licenziamento e di tale principio costituisce corretta applicazione il rilievo dato dai giudici di merito all’offerta di riassunzione, quale condotta idonea a produrre l’interruzione di tale correlazione causale.
Non è dunque pertinente la difesa della ricorrente che muove dall’erroneo assunto che il medesimo fatto sarebbe stato valutato in modo contraddittorio nella sentenza. Se è vero che l’offerta della società avente ad oggetto la riassunzione non valeva ad escludere gli effetti della illegittimità del licenziamento e l’operatività della tutela reale di cui all’art. 18 l. n. 300/70, non potendo una nuova assunzione equivalere alla ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro, il medesimo comportamento datoriale, successivo al verificarsi della illegittima estromissione della dipendente, ben poteva rilevare ai fini dell’applicazione del principio di non imputabilità del danno (ulteriore rispetto al minimo legale di cinque mensilità), valendo l’offerta di riassunzione alle dipendenze della società ad escludere la persistenza del nesso tra inadempimento derivante da licenziamento illegittimo ed effetti pregiudizievoli da questo indotti.
Il ricorso va dunque respinto.
Quanto all’onere delle spese a carico della parte soccombente ex art. 91 cod. proc. civ., deve farsi applicazione del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’art. 9 del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, conv., con modificazioni, in l. 24 marzo 2012 n. 27.
L’art. 41 di tale Decreto n. 140/2012, aprendo il Capo VII relativo alla disciplina transitoria, stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.
Avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell’art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A, i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Redazione