Licenziamento e periodo di prova (CASS.CIV. SEZ. LAV., n. 4347 DEL 4 MARZO 2015)

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Sintesi

In caso di licenziamento di un lavoratore per mancato superamento del periodo di prova, il contratto collettivo, in deroga al principio generale, può escludere dal conteggio le domeniche  'facendo riferimento a sessanta giorni di servizio effettivo'

La Corte di Cassazione si è espressa ribadendo che il principio generale alla base del periodo di prova può essere ridefinito dalla contrattazione collettiva, la quale può disporre diversamente attribuendo rilevanza sospensiva ad eventi non previsti dalla disposizione legale.

IL CASO

Il lavoratore G. M., dipendente di un istituto di vigilanza inquadrato in un livello al di sotto del 1 super del C.C.N.L. del personale degli istituti di vigilanza, proponeva ricorso al Tribunale di Cosenza avverso il licenziamento intimatogli dalla società S. s.r. l. per mancato superamento del periodo di prova, come disciplinato dall’art. 69 del su indicato contratto collettivo nazionale di lavoro.

Il Tribunale in accoglimento dello stesso condannava la società alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno dell’illegittimo licenziamento sino alla reintegra.

La Corte territoriale di Catanzaro rigettava l’appello della società S. s.p.a. che contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione fondato su un unico articolato motivo, cui resisteva G.M. con controricorso.

La Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, ha cassato la sentenza impugnata e rinviato, per le spese, alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.

 

IL COMMENTO

  1. Sul computo dei giorni “effettivi” di lavoro: la posizione dell’azienda e la decisione della  Corte di Appello

Nella fattispecie in esame la quaestio su cui si è espressa la Corte di Cassazione verte sulla definizione del periodo di prova e sul computo dei giorni e, in particolare, sulla interpretazione dell’articolo 69 del C.C.N.L. del personale degli istituti di vigilanza che così prevede «La durata massima del periodo di prova non potrà superare i seguenti limiti:  – personale inquadrato nel livello Quadro e nel I livello super: 150 giorni di effettivo lavoro prestato; – personale inquadrato negli altri livelli: 60 giorni di effettivo lavoro prestato. Tale periodo di prova sarà proporzionalmente ridotto, sino ad un minimo di 30 giorni, in considerazione di eventuali periodi di stage svolti all’interno dell’azienda e derivanti da corsi di formazione riconosciuti dall’ente bilaterale. La riduzione è calcolata secondo la seguente tabella (…). Al lavoratore in prova dovrà essere corrisposta la retribuzione per la qualifica assegnata», nonché sulla interpretazione del contratto di lavoro ai sensi degli artt.  362, 1363 e 1366 c.c..

Il lavoratore contestava l’illegittimità del licenziamento ed esattamente l’interpretazione letterale dell’aggettivo “effettivo” rispetto al calcolo dei giorni del periodo di prova e se fossero o meno computabili i giorni convenzionali di riposo tra cui le domeniche.

Per l’azienda il riferimento ai “60 giorni di effettivo lavoro prestato” a cui faceva riferimento l’art. 69 del contratto collettivo di riferimento e l’analoga espressione presente nella lettera di assunzione del lavoratore, datata 8 giugno 2007, erano da interpretarsi letteralmente con esclusione dei giorni di riposo che, quindi, non si intendevano computati.

La Corte di Appello di Catanzaro, in accoglimento del ricorso del lavoratore, aveva ritenuto tardivo il recesso perché intervenuto successivamente al superamento del periodo di prova e aveva ribadito che nel conteggio dei giorni erano da considerarsi anche i giorni di riposo «in quanto durante tale periodo la mancata prestazione lavorativa inerisce al normale svolgimento del rapporto».

Riguardo agli aspetti pratici ai 53 giorni di effettivo servizio prestato dovevano essere aggiunti gli 8 giorni di riposo goduti dal lavoratore dopo sei giorni lavorativi, per un totale di 61 giorni, quindi, oltre il termine dei 60 giorni previsti dall’art. 69 del contratto collettivo di riferimento.

 

  1. Il ragionamento della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, investita della questione, si è espressa con un giudicato differente rispetto a quello della Corte di Appello rilevando, invece, come sostenuto dal datore di lavoro, che l’espressione in questione “60 giorni di effettivo lavoro prestato” presente nell’art. 69 aveva un senso letterale preciso ossia «la volontà delle parti di includere nel periodo di prova solo i giorni in cui il lavoratore era effettivamente in attività di servizio, con esclusione di tutti gli altri in cui tale attività non era reale ed effettiva». Ne discendeva che mancando una precisa e diversa previsione della contrattazione collettiva non era computabili nel periodo di prova i giorni di riposo legale o convenzionale.

La Corte nel suo ragionamento metodologico di ricostruzione della fattispecie ricorda la finalità del patto di prova che è quella di consentire alle parti di verificare e valutare la reciproca convenienza della prestazione lavorativa, insieme all’accertamento delle capacità del prestatore,  ma allo stesso tempo e indirettamente ribadisce il ruolo importante della contrattazione collettiva, che consente alle parti, concordemente, di regolare in maniera differente il rapporto di lavoro, mentre è in capo al giudice il compito di interpretare le norme dei contratti collettivi nei casi in cui, come nella fattispecie in questione, si verificano ipotesi di denuncia di violazione denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, rispetto ad una errata interpretazione della legittimità delle condotte datoriali in base a norme di ermeneutica negoziale (artt. 1362 e ss., c.p.c.).

Su queste basi la Corte ribadisce un proprio consolidato orientamento [1] per il quale ai fini del computo dei giorni per il periodo di prova sono considerati lavorativi anche quelli inerenti al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività mentre sono esclusi, perché non prevedibili, i giorni della malattia, dell’infortunio, della gravidanza e del puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro e il godimento delle ferie annuali. Tale principio è vero fatta eccezione per i casi in cui sia espressamente e diversamente previsto dalla contrattazione collettiva [2] come, appunto, nel caso in esame.

La Suprema Corte a riguardo, e rispetto al giudicato della Corte di Appello (si veda § 1), che aveva computato nel calcolo dei giorni di lavoro anche quelli di riposo convenzionale, segnala che la Corte territoriale non si era attenuta alla valutazione letterale della espressione “effettivo servizio”, ribadito dalla norme in questione, omettendo ogni valutazione e senza specificare in forza di quale criterio ermeneutico avesse supportato la propria decisione.

Ma vi è di più. I giudici rilevano anche che il riferimento generico al riposo come modalità di svolgimento della attività lavorativa e, quindi, da considerare a tutti gli effetti nel conteggio dei giorni, era da considerarsi insufficiente oltre che apodittica come affermazione alla luce di un orientamento giurisprudenziale non solo generale [3] ma anche specifico rispetto alla interpretazione del C.C.N.L. degli istituti di vigilanza privata (così anche Cass., 18 luglio 1998, n. 7087).

 

2.1. Sulla interpretazione del contratto collettivo e sulla volontà delle parti

 

Gli Ermellini, sulla base delle considerazioni su esposte, si sono espressi accogliendo il ricorso poiché sussistente la violazione dell’art. 1362. c.c il quale così prevede «nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto». In particolare la Corte ha precisato [4] che il ricorso al primo criterio della interpretazione letterale preclude successivi criteri di valutazione in tutti i casi in cui, come in quello in esame, emerge una precisa e comune volontà delle parti che esclusa interpretazioni differenti. 

La norma prevista dal contratto collettivo di riferimento del settore degli istituti di vigilanza ha una portata precettiva e fa riferimento a due criteri: l’effettività della prestazione e i giorni di lavoro che sono considerati come unità temporale di riferimento.

Le parti, a riguardo, hanno espresso in maniera evidente la loro volontà di collegare la verifica della prestazione lavorativa a tali criteri per rendere concretamente valutabile la prestazione.

 

La Corte, pertanto, in accoglimento del ricorso, ha cassato la sentenza e rimesso al giudice di appello la quantificazione delle spese.

 


[1] Sul punro cfr. Cass., 5 novembre 2007 n. 23061; Cass., 13 settembre 2006 n. 19558.

[2] Si leggano in tal senso così Cass., 5 novembre 2007, n. 23061; Cass., 22 marzo 2012, n. 4573.

[3] Cass., 8 ottobre 1999, n. 11310 e Cass., 25 agosto 1999, n. 8859.

[4] Su questo orientamento giurisprudenziale si leggano per tutte Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479; Cass. 22 febbraio 2007, n 4176; Cass. 4 gennaio 2013, n. 110.

Sentenza collegata

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Caragnano Roberta

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