Licenziamento: è illegittimo se l’inesatta prestazione del dipendente è prassi nota al datore di lavoro (Cass. n. 2013/2012)

Redazione 13/02/12
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Svolgimento del processo Con sentenza in data 28.1/4.2.2010 la Corte di appello di Catanzaro, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta da C.R. per far accertare l’illegittimità del licenziamento intimatole in data 29.3.2006 dalla Intesa Sanpaolo spa, alle cui dipendenze aveva prestato attività lavorativa. Osservava in sintesi la Corte territoriale, quanto alla mancata affissione del codice disciplinare, che i fatti contestati trovavano riscontro non solo nelle norme della contrattazione collettiva, ma anche nell’art. 2104 c.c., e che, determinando la violazione di disposizioni regolamentari di primario interesse per la Banca (quali quelle poste a presidio della regolare erogazione del credito agrario), erano ben comprensibili, nel loro disvalore, dalla lavoratrice, a prescindere dalla affissione del codice disciplinare; quanto alla tempestività della contestazione, che la società intimata aveva provveduto ai prescritti adempimenti non appena aveva avuto modo di realizzare, a seguito dei reiterati inadempimenti dei mutuatari e della conseguente k indagine ispettiva disposta, le violazioni contestate; ed infine, che l’esito dell’istruttoria dava riscontro alla sussistenza, nel merito, di ciascuna delle contestazioni.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso C.R. con tre motivi.

Resiste con contri corso l’Intesa Sanpaolo.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente lamenta violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, ed, al riguardo, osserva che Corte territoriale aveva ritenuto superflua la predisposizione e l’affissione del codice disciplinare, pur trattandosi, nel caso, del rispetto di direttive specifiche di carattere tecnico poste dal datore di lavoro, non costituenti condotte contrarie alle fondamentali regole del vivere civile.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge (art. 360 c.p.c., in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 7, e all’art. 2119 c.c.) e vizio di motivazione, rilevando che la Corte di merito aveva ritenuto che la Banca si fosse accorta degli inadempimenti contestati solo a seguito dell’ispezione disposta agli inizi del 2006, laddove, invece, era emerso che le condotte addebitate, che risalivano, in massima parte, agli anni 2003 e 2004, non differivano da quelle da sempre tenute dalla lavoratrice e ben note alla Banca, in conseguenza delle periodiche visite ispettive operate (da ultimo nel maggio del 2004), che non avevano mai evidenziato alcuna inadempienza o irregolarità nelle pratiche trattate dalla dipendente. Con l’ultimo motivo, infine, la ricorrente denuncia ancora violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2104 e 2119 c.c.) e vizio di motivazione, per avere affermato, ai fini della valutazione della giusta causa del recesso, la doverosità di controlli ulteriori a quelli prescritti nelle disposizioni regolamentari della Banca (fra l’altro in punto di accertamento della produzione lorda vendibile e di verifica della situazione lavorativa dei richiedenti il credito), se non addirittura estranei alla sua stessa competenza funzionale (quali il contestato omesso controllo sull’impiego del finanziamento successivamente alla sua erogazione).

2. Il primo motivo è infondato.

Costituisce indirizzo interpretativo consolidato di questa Suprema Corte che il principio di tassatività degli illeciti disciplinari non può essere inteso in senso rigoroso, al pari di quanto avviene per gli illeciti penali, ai sensi dell’art. 25 Cost., comma 2, dovendosi, invece, distinguere fra illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente inerenti all’organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e, quindi, conoscibili solo se espressamente previste nel codice disciplinare, da affliggere ai sensi dell’art. 7 dello Statuto, e comportamenti incompatibili con le fondamentali regole del vivere civile, o manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori o che implicano la violazione di doveri fondamentali che qualificano la prestazione di lavoro, nei quali casi il disvalore del comportamento del lavoratore, non solo è immediatamente percepibile dallo stesso, ma è sanzionabile in via diretta dalla legge, per determinare l’insorgere di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, senza necessità di alcuna forma di specifica e predeterminata forma di pubblicità.

La sentenza impugnata è coerente con tali principi, essendo i fatti per come contestati riferiti, alla luce della posizione professionale della dipendente ed delle conseguenze che gli stessi avrebbero determinato per l’interesse organizzativo del datore di lavoro, ad una grave violazione dell’obbligo di diligenza, e, quindi, di doveri fondamentali del lavoratore, insuscettibili di assumere rilievo, ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, solo attraverso una conforme previsione del codice disciplinare e la sua pubblicità, nelle forme prescritte dall’art. 7 dello Statuto.

3. Il secondo ed il terzo motivo ben possono essere esaminati congiuntamente, per la connessione delle argomentazioni e delle problematiche, giacchè relativi alla valutazione della gravità delle infrazioni addebitate e della loro idoneità ad integrare una giusta causa di licenziamento, ed, oltre che ammissibili (in quanto specifici ed attinenti al decisum), si palesano anche fondati.

4. Giova premettere, con riferimento al principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, come la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. n. 14551/2000; Cass. n. 16260/2004), sicchè quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Ne deriva che la proporzionalità della sanzione non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa sia destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza eminentemente discrezionale, e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano I’ fatti contestati, alla luce di ogni circostanza utile (in termini soggettivi ed oggettivi) ad apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale.

Solo a queste condizioni, del resto, il principio di proporzionalità risulta in grado di influire sul comportamento degli altri dipendenti senza assumere un valore di “esemplarità” disgiunto dalla misura della responsabilità del dipendente e dalla conseguente realizzazione dell’interesse aziendale in termini proporzionati alla portata della prima, garantendo in tal modo, per come si è detto, la reale eticità del rapporto.

Sulla base di tale configurazione, spetta, pertanto, al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia (v. ad es. Cass. n. 14586/2009).

5. La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di tali principi. Nell’affermare, infatti, la gravità della condotta della ricorrente, sia per il grado di diligenza richiesta dalla natura dei compiti affidati, che per la reiterazione delle condotte, che per i danni subiti dal datore di lavoro, la Corte territoriale ha, da un lato, omesso di valutare se la condotta della lavoratrice, da oltre quindici anni addetta al settore del credito agrario e mai in precedenza attinta da alcun rilievo o da sanzioni disciplinari, fosse conforme non solo alle disposizioni regolamentari dell’azienda, ma anche alla prassi in concreto seguita per l’attuazione delle stesse;

ha, dall’altro, considerato come determinanti per l’affermazione di responsabilità adempimenti che esorbitavano dai suoi compiti professionali, sottovalutando, al tempo stesso, l’insussistenza di ulteriori violazioni regolamentari, pur contestate, certamente assai rilevanti ai fini di una valutazione complessiva, e non parcellizzata, della idoneità della condotta addebitata a ledere il vincolo fiduciario.

Così pervenendosi alla conferma della legittimità di una sanzione che appare, in realtà, sperequata rispetto all’effettivo disvalore della condotta della lavoratrice ed al grado di intensità della violazione della buona fede contrattuale che la stessa richiede in relazione alla necessaria prognosi di un futuro proficuo svolgimento del rapporto di lavoro.

In particolare, emerge dalla sentenza impugnata che le erogazioni di credito concesse dalla ricorrente non abbisognavano (contrariamente a quanto contestato in sede disciplinare) della preventiva autorizzazione della direzione di area competente, per risultare in tal senso una prassi consolidata, ben nota alla Banca, e che, in pari modo, non era nemmeno inibito l’utilizzazione di intermediari; ha, altresì, dato atto la sentenza che la ricorrente si era attenuta, quanto alla verifica del titolo di proprietà o di affittanza del fondo, alle pertinenti istruzioni, che prevedono che tale controllo dovesse essere eseguito attraverso l’acquisizione delle visure ipocatastali, del titolo di proprietà e Tesarne del contratto di affitto.

Ha ritenuto, tuttavia la corte che “…la ratio di tale attività istruttoria, che è quella di erogare il mutuo di scopo a chi effettivamente ne abbia le qualità” imponeva che il controllo dovesse essere “maggiormente accurato”, e non limitarsi all’acquisizione di tali documenti, specie allorchè dalle carte di identità prodotte emergesse lo svolgimento di attività di lavoro diverse da quella agricola e non risultasse documentata l’iscrizione alla camera di commercio (situazioni che avrebbero dovuto indurre la ricorrente “a svolgere ulteriori accertamenti sia in ordine all’esistenza dei fondi, che alla loro coltivazione da parte dei richiedenti”); così come ulteriori verifiche avrebbero dovuto essere svolte in ordine alla produzione vendibile da parte dei richiedenti il mutuo, non potendo a tal fine ritenersi sufficiente la mera allegazione di dichiarazione sostitutiva di atto notorio relativo al tipo di coltura. Da ultimo, ha ritenuto la corte che fondata appariva la contestazione relativa all’omesso controllo sull’impiego del credito, apparendo sul punto “decisiva la natura di scopo del suddetto credito, che avrebbe dovuto indurre il funzionario a tale controllo sia pure a campione”.

A fronte di tali accertamenti, si deve osservare che non solo non si è dimostrato che tali ulteriori obblighi comportamentali (si pensi, in particolare, alla verifica della situazione lavorativa dei richiedenti il credito, ai controlli a campione sull’impiego del mutuo o sull’esistenza e coltivazione dei fondi) fossero conformi al contenuto delle prescrizioni aziendali – e non solo alla loro ratio – oltre che alle competenze della dipendente, la quale ha, sul punto, dedotto che da sempre i finanziamenti venivano concessi senza chiedere l’iscrizione alla Camera di commercio, ma acquisendo le prescritte visure catastali ed applicando le tabelle regionali ufficiali alle colture risultanti dalla dichiarazione sostitutiva di atto notorio e restando, per il resto, del tutto estranea alle vicende successive alla concessione del credito. Ma, sopra tutto, non si è considerato che i criteri complessivi con cui veniva erogato il credito agrario (al pari di quanto si è appurato con riferimento al difetto di autorizzazione della direzione di aerea e all’utilizzo di intermediari) non potevano non essere conosciuti dal datore di lavoro, tenuto conto del lungo periodo di applicazione della ricorrente a tali mansioni, delle periodiche verifiche eseguite dalla Banca (l’ultima delle quali nel maggio 2004), del tempo stesso dei fatti addebitati (risalenti, in larga parte, anche agli anni 2003 e 2004).

Il che appare decisivo, non solo ai fini della tempestività della contestazione, ma, innanzi tutto, per la valutazione della esigibilità della condotta della dipendente e, comunque, della sua buona fede, a fronte della tolleranza manifestata verso criteri di gestione che sono stati valutati come fonte di inadempimento da parte del datore di lavoro solo a seguito della situazione di sofferenza manifestatasi in alcune pratiche per effetto di comportamenti fraudolenti di alcuni mutuatari.

Al pari di come sono state erroneamente considerate quale fonte di inadempimento pure condotte successive all’erogazione del finanziamento, che, per essere essenziali e doverose, avrebbero richiesto un espresso quadro regolamentare, la cui esistenza non è stata documentata nel processo, e che, in difetto, non possono certo farsi risalire ad un obbligo di diligenza integrativa, connessa alla esecuzione della prestazione lavorativa della ricorrente.

In definitiva, deve, quindi, ritenersi che la sanzione irrogata appare non proporzionata al grado di responsabilità che esprimano i fatti accertati, dovendosi al riguardo ribadire che il grave inadempimento degli obblighi contrattuali che costituisce il presupposto della nozione legale di giusta causa risulta incompatibile con comportamenti del lavoratore che, per le loro concrete modalità e per il contesto di riferimento, ed in particolare per l’esistenza di una conforme prassi aziendale, nota al datore di lavoro, appaiono insuscettibili di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e di determinare la irreparabile lesione del vincolo fiduciario che ispira la relazione di lavoro.

6. La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione alle censure accolte e la causa rimessa ad altro giudice di pari grado il quale provvederà in ordine alle statuizioni conseguenti all’accertata illegittimità del recesso, regolando anche le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Reggio Calabria.

Redazione