Licenziamento illegittimo per il prestatore di lavoro dequalificato che arriva tardi sul posto di lavoro (Cass. n. 1693/2013

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Massima

Un prestatore di lavoro che venga lasciato in condizioni di non operosità (demansionato) non può essere licenziato nella ipotesi in cui non abbia rispettato l’orario di lavoro (ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 1460 c.c.).

 


1.    
Premessa

Nella decisione in commento del 24 gennaio 2013 n. 1693 i giudici della Corte, nella sezione lavoro, hanno precisato, ricordando precedenti sul tema (1) che il rifiuto da parte del lavoratore, di svolgere la prestazione lavorativa, ad esempio in caso di demansionamento, può essere legittimo, e di conseguenza non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive (art. 1460 c.c.), sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede.

In tal caso il rifiuto imporrà una valutazione comparativa, da parte del giudice di merito, dei comportamenti di entrambe le parti, al fine di accertare la congruità tra le mansioni svolte dal prestatore di lavoro nella sede di provenienza e quelle assegnate nella sede di destinazione.

Tali ultime mansioni dovranno, altresì, essere vagliate indipendentemente dal loro concreto svolgimento, non essendo accompagnati i provvedimenti aziendali da una presunzione di legittimità, che ne imponga l’ottemperanza (fino ad un differente accertamento in giudizio).

Si legge nella sentenza in commento che “…….Questa Corte ha, altresì, affermato (cfr. Cass. 3 luglio 2000 n. 8880; id. 16 maggio 2006 n. 11430) che il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, comma 2, cod. civ..”.

 

 

2. La fattispecie
 

Nella fattispecie concreta il ricorrente era stato privato delle mansioni e lasciato in condizioni di forzata inoperosità (2); dopodichè veniva licenziato con motivazione riferita al “mancato rispetto dell’orario di lavoro”.

Il lavoratore impugnava il licenziamento, e per la dequalificazione subita chiedeva la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno.

Il tribunale rigettava la domanda di annullamento del licenziamento, accogliendo, di contro, quella relativa al risarcimento del danno.

In sede di appello la Corte, accoglieva l’impugnazione proposta dal lavoratore, annullando il licenziamento.

Da qui il ricorso in cassazione da parte del datore di lavoro per vizi di motivazione e violazione di legge..

 

 

3. Conclusioni

Nella decisione in commento i giudici della Corte di Cassazione hanno rigettato il ricorso precisando che il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avendo riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economica – sociale del contratto ed alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse.

Nel caso in cui, quindi, rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave o ha, comunque, scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte (art. 1455 c.c.) deve ritenersi che il rifiuto di quest’ulima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ex art. 1460, II comma, c.c.

In merito, poi, alla tardività della contestazione disciplinare, nella decisione in commento si legge che “…..Secondo il condiviso insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in materia di licenziamento disciplinare la tempestività della reazione del datore di lavoro all’inadempimento del lavoratore rileva sotto due distinti profili: sotto un primo aspetto, quando si tratti di licenziamento per giusta causa, il tempo trascorso tra l’intimazione del licenziamento disciplinare e l’accertamento del fatto contestato al lavoratore può indicare l’assenza di un requisito della fattispecie prevista dall’art. 2119 cod. civ. (incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro), in quanto il ritardo nella contestazione può indicare la mancanza di interesse all’esercizio del diritto potestativo di licenziare; sotto un secondo profilo, la tempestività della contestazione permette al lavoratore un più preciso ricordo dei fatti e gli consente di predisporre una più efficace difesa in relazione agli addebiti contestati: con la conseguenza che la mancanza di una tempestiva contestazione può tradursi in una violazione delle garanzie procedimentali fissate dalla legge n. 300 del 1970, art. 7 (cfr. in termini Cass. 5 aprile 2003 n. 5396)”.

Per quanto attiene alla tardività del licenziamento la Cassazione ha precisato che la tempestività della reazione del datore di lavoro all’inadempimento del lavoratore rileva sotto due distinti profili, ovvero:

–         sotto un primo aspetto (3) il tempo trascorso tra l’intimazione del licenziamento disciplinare e l’accertamento del fatto contestato al lavoratore può indicare l’assenza di un requisito della fattispecie prevista dall’art. 2119 cod. civ. (4), in quanto il ritardo nella contestazione può indicare la mancanza di interesse all’esercizio del diritto potestativo di licenziare;

–         sotto un secondo profilo, la tempestività della contestazione permette al lavoratore un più preciso ricordo dei fatti e gli consente di predisporre una più efficace difesa in relazione agli addebiti contestati; da ciò ne consegue che la mancanza di una tempestiva contestazione può tradursi in una violazione delle garanzie procedimentali previste nello statuto dei lavoratori, ovvero nella legge n. 300 del 1970 (5).


 

4. Giurisprudenza (Procedimento disciplinare)

Deve dichiararsi inefficace per violazione dell’obbligo di buona fede (art. 1175 c.c.) la sanzione disciplinare irrogata dal datore di lavoro dopo il decorso del termine fissato dalla contrattazione collettiva (nel caso di specie art. 23 CCNL Metalmeccanici) per rispondere alle giustificazioni addotte dal lavoratore, intendendosi altrimenti il silenzio come accettazione delle giustificazioni. Trib. Reggio Emilia, 12 aprile 2011, in Lav. nella giur., 2011, 744 

 

Il requisito dell’immediatezza della sanzione deve intendersi in senso relativo, laddove l’accertamento dei fatti abbia richiesto uno spazio temporale maggiore o sia reso difficoltoso dall’organizzazione aziendale. Trib. Milano, 9 dicembre 2010, in Lav. nella giur., 2011, 221

 

In relazione ai principi di immediatezza della contestazione disciplinare e di tempestività della successiva irrogazione della sanzione, entrambi da intendersi in senso relativo, va esente da vizi la sentenza che abbia escluso nel caso concreto che l’intervallo di tempo trascorso tra il verificarsi del fatto ascritto al dipendente e la relativa contestazione attestasse la mancanza di interesse del datore di lavoro all esercizio della facoltà di recesso in una fattispecie in cui questi, avendo emesso un ordine di trasferimento del dipendente a fronte del quale il dipendente aveva rifiutato l’adempimento ed istaurato un procedimento cautelare inteso ad accertare l’illegittimità del trasferimento, abbia preferito attendere l esito del ricorso per poi, dopo aver verificato, attraverso la cognizione sommaria del procedimento ex art. 700 cod. proc. civ. esauritosi in suo favore, la legittimità del trasferimento rifiutato dal dipendente, immediatamente (il giorno dopo) contestare l’infrazione costituente giusta causa del licenziamento e, quindi, provvedere all irrogazione della sanzione espulsiva. Cass. civ., sez. lav., 15 dicembre 2005, n. 2767, in Mass. Giur. It., 2005

 

La garanzia, prevista dal primo comma dell art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, di pubblicità del cosiddetto codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge, trattandosi di infrazioni il cui divieto risiede nella coscienza sociale quale “minimum” etico. App. Roma, sez. lav., 8 settembre 2005

 

 

Giurisprudenza (Demansionamento)

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio – dall’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale. Cass. 23 novembre 2011, n. 24718, in Lav. nella giur., 2012, 191

 

Nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo il rifiuto, opposto dal lavoratore, di eseguire la prestazione a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro offra l’adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal contratto. Cass. 18 marzo 2011, n. 9351, in Lav. nella giur., 2011, con commento di Lorenzo Scarano, 797

 

L’esercizio del c.d. ius variandi da parte del datore di lavoro è legittimo purché avvenga nel rispetto di due fondamentali limiti: un limite di carattere oggettivo, essendo necessario che le nuove mansioni siano incluse nella stessa area di inquadramento del lavoratore; un limite soggettivo, nel senso che le nuove mansioni devono essere professionalmente affini a quelle svolte in precedenza e che tali nuove mansioni devono armonizzarsi con le capacità professionali già acquisite dal lavoratore durante il rapporto di lavoro, consentendone ulteriori affinamenti e sviluppi e impedendo, quindi, qualsiasi degrado e mortificazione (intese come professionalità) del lavoratore. Corte App. Bologna, 29 giugno 2010, in Lav. nella giur., 2010, 952

 

In tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l’equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell’art. 2103 c.c., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Cass. 26 gennaio 2010, n. 1575, in Orient. giur. lav., 2010, 77

 

 

 

Manuela Rinaldi
Avvocato foro Avezzano Aq – Dottoranda in Diritto dell’Economia e dell’Impresa Università La Sapienza, Roma, Proff. Maresca – Santoro Passarelli; Tutor di Diritto del Lavoro c/o Università Telematica Internazionale Uninettuno (UTIU) Docente prof. A. Maresca; Docente in corsi di Alta Formazione Professionale e Master; già docente a contratto a.a. 2009/2010 Diritto del Lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, facoltà Giurisprudenza, corso Laurea Magistrale ciclo unico, c/o sede distaccata di Avezzano, Aq; Docente in Master e corsi di Alta Formazione per aziende e professionisti.

 

 

 

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(1) Cfr. Cass. 26 giugno 1999, n. 6663; Cass. civ., 1 marzo 2001, n. 2948; 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. civ., 8 giugno 2006, n. 13365; Cass. civ., 27 aprile 2007, n. 10086; Cass. civ., 12 febbraio 2008, n. 3304; Cass. civ., 19 febbraio 2008, n. 4060.

(2) Per un periodo di quasi due anni.

(3) Quando si tratti di licenziamento per giusta causa.

(4) Incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro.

(5) All’articolo 7.

Sentenza collegata

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