Licenziamento di un dirigente di un’azienda in crisi: legittimo anche in mancanza di giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 3175/2013)

Redazione 11/02/13
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Svolgimento del processo

C.F., già dirigente della IPM Group spa, venne licenziato con comunicazione del seguente tenore: “La nostra società, nell’ambito di un processo di ristrutturazione e riorganizzazione teso al rilancio della stessa, ha deliberato l’avocazione nelle funzioni di altro dirigente, rivestente altresì la carica di Consigliere nel Consiglio di Amministrazione, delle attività afferenti la direzione del controllo gestione e dei sistemi informativi. Pertanto è stata consequenziale la soppressione della Sua posizione lavorativa, afferente tale direzione. Non essendovi alcuna possibilità di diversa Sua utilizzazione nel contesto aziendale, siamo costretti con la presente a comunicarLe la risoluzione del Suo rapporto di lavoro. Viene dispensata dal preavviso, venendoLe corrisposta la relativa indennità sostitutiva”;

il C. convenne quindi in giudizio la ex datrice di lavoro, impugnando l’intimato licenziamento e chiedendo, fra l’altro, il pagamento dell’indennità supplementare di cui all’art. 19 CCNL dirigenti aziende industriali.

Il Giudice adito, ritenuta l’illegittimità del licenziamento, condannò la parte datoriale al pagamento della suddetta indennità.

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 17.3 – 19.4.2010, accogliendo l’appello proposto dalla IPM Group spa, rigettò la domanda.

A sostegno del decisum la Corte territoriale, per ciò che ancora qui rileva, ritenne quanto segue:

– in aderenza alla giurisprudenza di legittimità, doveva ritenersi che il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 1 e 3, e che la nozione di “giustificatezza” posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del suo licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dalla stessa L. n. 604 del 1966, art. 3; con la conseguenza che, ai fini dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la suddetta “giustificatezza” non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost., che verrebbe realmente negata ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa;

– in base alla disciplina contrattuale collettiva (artt. 22 e 19 CCNL dirigenti industriali) doveva ritenersi che la motivazione addotta a sostegno del licenziamento del dirigente può essere integrata anche in sede giudiziaria dall’azienda e che il giudice può valutare la sussistenza di giustificazione del licenziamento; infatti, dal tenore della norme contrattuali richiamate, può evincersi che le parti sociali hanno disciplinato espressamente l’ipotesi in cui l’azienda non espliciti contestualmente al recesso la relativa motivazione, prevedendo come conseguenza non l’automatica illegittimità o ingiustificatezza del licenziamento, ma la facoltà del dirigente di attivare la procedura avanti il collegio arbitrale, il quale procede alla valutazione del caso, eventualmente accertando la mancanza di giustificazione; conseguentemente il diritto all’indennità supplementare non sorge automaticamente in caso di mancata motivazione contestuale, ma solo a seguito della valutazione da parte del collegio arbitrale dell’assenza di giustificazione, cosicchè la motivazione del recesso può essere fornita dall’azienda per la prima volta in sede di procedura arbitrale; a maggior ragione, essendo la procedura in questione facoltativa, ove il dirigente scelga di adire direttamente l’autorità giudiziaria, in tale sede l’azienda potrà fornire la motivazione del recesso ed il giudice potrà valutare la sussistenza di giustificazione del licenziamento;

– applicando tale principio al caso in esame doveva ritenersi che la ******à, nel costituirsi in giudizio innanzi al primo Giudice, aveva ampiamente dimostrato la sussistenza delle ragioni poste a fondamento del licenziamento, risultando ampiamente documentata l’esistenza di una crisi profonda della IPM Group spa ed essendo stata resa nella memoria di costituzione e risposta una descrizione analitica di tale crisi e delle cause che l’avevano generata (essendo stato ivi precisato, tra l’altro, che l’organico aziendale, nell’anno 2000 di 400 unità e 21 dirigenti, per effetto di successive procedure di mobilità, al 30.4.2008 si era ridotto a 143 unità di cui 5 dirigenti e, quindi, ulteriormente ridotto a circa 100 unità ed a soli 4 dirigenti, ed essendo stato evidenziato, altresì, che la crisi aveva travolto anche le società controllate);

– dal contenuto delle difese della ******à era emerso in modo inequivoco che le ragioni addotte per “giustificare” il licenziamento del C., così come riportate nella missiva del 4.6.2007 ed integrate con le motivazioni espresse innanzi al Tribunale, dimostravano: che effettivamente il “processo di ristrutturazione e riorganizzazione” era inteso ad un drastico ridimensionamento dell’organico (sia dei dirigenti che delle categorie inferiori); che detta ristrutturazione era necessitata dalla profonda crisi che aveva investito il settore in cui operava la ******à stessa, come dimostrato dalle varie procedure di cassa integrazione ordinaria e straordinaria cui l’azienda era stata ammessa; che, quindi, le circostanze allegate;

– sia pure in modo generico – nella suddetta missiva erano del tutto veritiere; che, quindi, nessun motivo discriminatorio era individuabile nel licenziamento intimato; che, infine, l’avocazione delle funzioni del C. in quelle svolte da altro dirigente, peraltro componente il consiglio di amministrazione della ******à, era più che giustificata dalla ampiamente dimostrata esigenza di riduzione del personale (dirigenziale e non);

– peraltro, non poteva non rilevarsi che, proprio per la posizione ricoperta all’interno dell’azienda, il C. era ben a conoscenza e della profonda crisi che l’azienda stava attraversando, e delle misure attuate per farvi fronte (massicce riduzioni di personale con ricorso a CIG e a CIGS) allo scopo di attuare il rilancio della ******à, altrimenti destinata a cessare l’attività (come dall’ampia documentazione prodotta dalla IPM Group spa);

– il licenziamento in questione era quindi sorretto da motivi ragionevoli e seri costituiti dal processo di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale che aveva comportato la soppressione del posto di lavoro occupato dal C.;

– in merito al cosiddetto repechage, doveva rilevarsi che il posto ricoperto dal C. era stato effettivamente soppresso e che le funzioni da lui svolte erano confluite, per avocazione, in quelle di altro dirigente (ciò che rientrava nel potere discrezionale dell’imprenditore di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell’impresa), dovendo comunque considerarsi che, con riferimento alla categoria dei dirigenti, non sussiste alcun obbligo di repechage, essendo la tutela unicamente convenzionale ed esclusivamente monetaria (pagamento di una indennità supplementare);

doveva peraltro rilevarsi che il C. non aveva neppure allegato la possibilità di un suo repechage che non fosse quello di essere preferito all’altro dirigente nelle cui funzioni erano confluite quelle in precedenza da lui svolte;

– per completezza andava evidenziato che il C. non aveva mai avanzato, neppure in via subordinata, la domanda di attribuzione della indennità supplementare riconosciuta dall’Accordo Interconfederale del 27 aprile 1995 (inferiore a quelle prevista dall’art. 19 del CCNL perchè pari a quella di preavviso) in presenza “delle specifiche fattispecie di ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione ovvero crisi aziendale di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, riconosciute con Decreto del Ministro del Lavoro di cui alla L. 19 luglio 1994, n. 451, art. 1, comma 3 nonchè delle situazioni aziendali accertate dal Ministero del Lavoro ai sensi della L. 9 dicembre 1984, n. 863, art. 1”.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale C. F. ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.

L’intimata IPM Group spa ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; in particolare deduce che la ******à appellante non aveva eccepito la possibilità di una diversa interpretazione dell’art. 22 CCNL dirigenti settore industria che consentisse di motivare il licenziamento in sede processuale, avendo per contro invocato la sufficiente capacità esplicativa della lettera di licenziamento;

pertanto la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto, pur in assenza di una qualsivoglia eccezione in tal senso, la possibilità della parte datoriale di integrare in sede giudiziale la motivazione del licenziamento, con ciò violando l’art. 112 c.p.c. e, subordinatamente, gli artt. 345 e 437 c.p.c.; in ulteriore subordine, la Corte territoriale era incorsa nella violazione dell’art. 101 c.p.c., non avendo assegnato termine alle parti pur ritenendo di porre a fondamento della propria decisione una questione rilevata d’ufficio; inoltre, in assenza di specifica impugnazione sul punto, doveva ritenersi essersi formato il giudicato interno sulla statuizione del primo Giudice secondo cui l’art. 22 CCNL imponeva la contestuale comunicazione dei motivi del licenziamento; infine ulteriore violazione dell’art. 112 c.p.c. doveva essere ravvisata nella omessa pronuncia sulla circostanza afferente alla ingiustificatezza del licenziamento di un dirigente posto in essere in forza di intervenuta riorganizzazione aziendale.

1.1 Deve anzitutto escludersi l’avvenuta formazione di un giudicato interno in ordine alla statuizione del primo Giudice secondo cui l’art. 22 CCNL imponeva la contestuale comunicazione dei motivi del licenziamento, posto che tale affermazione in diritto era finalizzata alla decisione inerente alla ritenuta illegittimità del licenziamento, la quale, indubitabilmente, era stata oggetto di motivo di gravame in sede di appello; le ragioni per cui il primo Giudice aveva ritenuto tale illegittimità (ivi compresa l’interpretazione data all’art. 22 CCNL) non si erano tradotte in una statuizione su una diversa domanda, ma attenevano piuttosto alla interpretazione della normativa (nella specie di natura collettiva pattizia) applicabile alla fattispecie; come tali non necessitavano di uno specifico motivo di gravame, risultando la contestazione della loro giuridica fondatezza logicamente ricompresa nella rituale devoluzione al Giudice del gravame della questione afferente alla legittimità del licenziamento.

1.2 Parimenti infondati sono altresì, nei distinti profili in cui si articolano, le censure inerenti alla pretesa violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

Nella giurisprudenza di questa Corte risulta infatti reiteratamente affermato il principio secondo cui il vizio di ultra ed extra petizione ricorre solo quando il giudice, interferendo indebitamente nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi di identificazione dell’azione o dell’eccezione, pervenendo ad una pronunzia non richiesta o eccedente i limiti della richiesta o eccezione, dovendosi escludere la violazione dell’art. 112 c.p.c. tutte le volte in cui la pronunzia vi corrisponda nel suo risultato finale, sebbene risulti fondata su argomentazioni giuridiche diverse da quelle prospettate, ovvero sul rilievo, indipendentemente dall’iniziativa della parte, della presenza degli elementi caratterizzanti l’efficacia costitutiva od estintiva della pretesa avanzata, attenendo tale accertamento all’obbligo di esatta applicazione della legge (cfr, tra le tantissime, Cass., nn. 1940/1998; 4923/1998; 9887/1998; 961/2000; 15321/2002; 14552/2005; 6945/2007); nella presente controversia la Corte territoriale ha giudicato nell’ambito della domanda inerente alla spettanza o meno dell’indennità supplementare, ravvisando tra l’altro la giustificatezza del recesso in relazione al dedotto processo di ristrutturazione e riorganizzazione e con ciò, all’evidenza, pronunciandosi proprio sulla riconducibilità della nozione di giustificatezza del licenziamento anche a tale circostanza (in linea, del resto, con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità: cfr, ex plurimis, Cass., n. 3628/2012), cosicchè deve escludersi che si sia concretizzata una violazione dell’art. 112 c.p.c..

1.3 Non avendo dunque la Corte territoriale pronunciato sulla base di eccezioni non rilevabili d’ufficio, nè avendo sollevato essa stessa, d’ufficio, una questione non dedotta in giudizio (tale non potendo essere considerata l’interpretazione della normativa collettiva di riferimento su cui si fonda la domanda), vanno escluse anche le pretese violazioni degli artt. 345, 437 e 101 c.p.c..

2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, violazione di plurime norme di legge (artt. 1362, 1363, 1366, 1367, 1368, 1369, 1371 e 1375 c.c.) e di contratto collettivo (artt. 19 e 22 CCNL dirigenti settore industria), si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto che le motivazioni del licenziamento potessero essere specificate fino al momento della costituzione del rapporto processuale, dovendo al contrario essere considerata la previsione del ridetto art. 22 CCNL dirigenti settore industria, che, al comma 2, impone l’obbligo di motivare contestualmente il licenziamento; in subordine si duole altresì che sia stata ritenuta l’estensione del principio della integralità dei motivi dal collegio arbitrale al giudizio ordinario.

2.1 Osserva il Collegio che l’art. 22, comma 2, CCNL dirigenti settore industria, pur prevedendo che, in caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima sia tenuta a specificarne contestualmente la motivazione, non prevede, quale automatica e diretta conseguenza, la spettanza dell’indennità supplementare; per contro il successivo terzo comma dispone che il dirigente, ove non ritenga giustificata la motivazione addotta ovvero nel caso che detta motivazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione del recesso, possa ricorrere al collegio arbitrale di cui all’art. 19, il quale, ove riconosca che il licenziamento è ingiustificato, disporrà a carico dell’azienda un’indennità supplementare.

Ne discende, ai sensi degli artt. 1362 e 1363 c.c., che:

– la spettanza della suddetta indennità non è direttamente ed automaticamente ricollegata alla omessa (ovvero insufficiente) esplicitazione, contestualmente al recesso, della motivazione dello stesso;

– anche in ipotesi di mancanza di motivazione contestuale è data possibilità al dirigente licenziato di ricorrere al collegio arbitrale;

– quest’ultimo, “anche in assenza di motivazione” (art. 19, comma 12), emetterà il lodo nel termine ivi indicato;

– l’attribuzione dell’indennità potrà essere disposta ove il collegio arbitrale, con motivato giudizio e all’esito dell’istruttoria contemplata dall’art. 19, comma 13, riconosca che il licenziamento è ingiustificato;

– la richiesta valutazione della giustificatezza o meno del licenziamento presuppone quindi che, pur nell’ipotesi in cui la motivazione non sia stata resa contestualmente al licenziamento (e, a fortiori, ove la stessa sia stata insufficiente o generica), il collegio possa riconoscere la sussistenza o meno delle ragioni giustificative del recesso del datore di lavoro e che quindi la parte datoriale possa esplicitarle e provarle, fermo il rispetto del principio del contraddittorio ai sensi dell’art. 19, comma 13. Deve allora convenirsi che la spettanza dell’indennità supplementare non discende direttamente ed immediatamente dall’eventuale inosservanza del disposto dell’art. 22, comma 2, e che il datore di lavoro è facoltizzato ad esplicitare la motivazione del licenziamento ovvero ad integrarla, nel rispetto del principio del contraddittorio, nell’ambito del giudizio arbitrale.

2.2 Il carattere alternativo del ricorso al collegio arbitrale rispetto a quello avanti all’autorità giudiziaria ordinaria (cfr, ex plurimis, Cass., 3023/1990; 8700/2000) comporta poi che analoghe facoltà di esplicitazione o integrazione della motivazione debba essere riconosciuta alla parte datoriale laddove il dirigente abbia autonomamente scelto di adire direttamente il giudice ordinario, posto che, diversamente opinando, la posizione del datore di lavoro verrebbe ad essere compromessa per effetto di una autonoma ed insindacabile determinazione della controparte.

2.3 Poichè la Corte territoriale si è conformata alla suddetta interpretazione della normativa collettiva di riferimento, anche il motivo all’esame non può trovare accoglimento.

3. Con il terzo motivo, denunciando falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3,, il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia affermato l’insussistenza di un obbligo di repechage in favore dei dirigenti, assumendo che un tale obbligo sarebbe stato invece assunto convenzionalmente dalla parte datoriale allorchè, con la comunicazione di licenziamento, aveva affermato l’insussistenza di alcuna possibilità di una sua diversa utilizzazione nel contesto aziendale.

3.1 Osserva il Collegio che la pretesa assunzione da parte della ******à datrice di lavoro di un’obbligazione convenzionale di repechage configura una questione non trattata nella sentenza impugnata (che ha invece osservato, in linea generale, l’insussistenza di un tale obbligo per la categoria dei dirigenti), nè dal ricorso risulta quando e in che termini la stessa sarebbe stata devoluta al Giudice del gravame (nella parte espositiva del ricorso, a pagina 8, viene infatti detto che il dirigente, con la memoria costitutiva in appello, aveva soltanto dedotto la “mancanza di qualsivoglia tentativo di repechage”).

Sotto il suddetto profilo la censura, che del resto implica una valutazione fattuale della portata della comunicazione di recesso estranea all’ambito del giudizio di legittimità, è dunque inammissibile.

3.2 Più in generale va comunque rilevato che, secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, l’eventualità di repechage di un dirigente licenziato per esigenze di ristrutturazione aziendale è inconciliabile con la stessa posizione dirigenziale del lavoratore, posizione che, d’altro canto, giustifica la libera recedibilità del datore di lavoro senza che possano essere richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza per la diversa ipotesi del licenziamento per giustificato motivo del non dirigente (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14310/2002; 322/2003; 2266/2007).

3.3 Anche il motivo all’esame non può pertanto trovare accoglimento.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione sotto plurimi profili, deducendo che:

– la motivazione della sentenza impugnata doveva ritenersi inesistente o comunque viziata laddove aveva dichiarato legittimo il licenziamento integrando la motivazione dello stesso con una circostanza (la volontà della parte datoriale di risolvere una situazione di crisi) estranea a quanto ritenuto nella lettera di recesso;

– non era stato considerato che l’assegnazione delle mansioni del soggetto licenziato ad altro dipendente non comportava di per sè la soppressione del posto e, comunque, non poteva essere qualificata come atto di riorganizzazione o ristrutturazione;

– all’indomani del licenziamento la struttura facente capo ad esso ricorrente era rimasta immutata nella sua organizzazione;

– quand’anche vi fosse stata soppressione del posto di esso ricorrente, ciò non avrebbe giustificato il licenziamento;

– la Corte territoriale aveva dato per acquisita e pacifica l’intervenuta crisi aziendale in assenza di qualsivoglia attività istruttoria;

– la Corte territoriale aveva trascurato di considerare che, al momento del licenziamento, il numero dei dirigenti in servizio era in crescita, ancorchè nel corso delle procedure di mobilità;

– la ritenuta conoscenza da parte di esso ricorrente della situazione di crisi aziendale nulla aveva a che vedere con la motivazione della lettera di licenziamento.

4.1 Osserva la Corte che le doglianze poggiano sull’assunto, non condivisibile per le ragioni già espresse, della impossibilità per la parte datoriale di integrare in sede giudiziale le motivazioni espresse nella comunicazione di recesso.

Per contro, sulla base della già ricordata e condivisibile interpretazione della normativa pattizia, la Corte territoriale ha evidenziato, come diffusamente esposto nello storico di lite, l’effettiva sussistenza di un processo di ristrutturazione e riorganizzazione necessitato da uno stato di profonda crisi aziendale, cosicchè doveva essere ritenuta la veridicità delle circostanze allegate, seppure in modo generico, nella missiva di recesso e, al contempo, che l’avocazione delle funzioni del C. in quelle svolte da altro dirigente era da reputarsi giustificata dalla esigenza “ampiamente dimostrata” di riduzione del personale.

Deve dunque escludersi la sussistenza di elementi di contraddittorietà nella motivazione della sentenza impugnata e, tanto meno, la sua dedotta inesistenza.

4.2 Gli ulteriori profili di censura involgono accertamenti di fatto inammissibili in questa sede di legittimità (ove è consentita soltanto la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti: cfr, fra le moltissime, Cass., SU, nn. 13045/1997; 5802/1998); ovvero configurano presunti errori di diritto (così, in particolare, l’assunto secondo cui, quand’anche vi fosse stata soppressione del posto di esso ricorrente, ciò non avrebbe giustificato il licenziamento) non denunciagli ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, posto che il vizio di motivazione ivi contemplato può dar luogo soltanto al controllo della giustificazione del giudizio sulla ricostruzione del fatto (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 228/1995; 5271/2002); ovvero, ancora, si risolvono nell’affermazione della insussistenza di un’attività istruttoria in ordine all’intervenuta crisi aziendale, che, viceversa, la Corte territoriale, nell’ambito del giudizio valutativo del materiale probatorio spettante al giudice del merito, ha riconosciuto “ampiamente documentata”.

4.3 Il riferimento della Corte territoriale alla conoscenza della situazione di crisi aziendale da parte del dirigente licenziato costituisce poi una considerazione aggiuntiva, priva, in sè considerata, di valenza decisoria, onde le argomentazioni svolte al riguardo dal ricorrente non sono idonee ad inficiare il complessivo impianto motivazionale che, privo di elementi di illogicità, sostiene la decisione impugnata.

4.4 Anche il motivo all’esame non può pertanto trovare accoglimento.

5. In conclusione il ricorso va rigettato, con conseguente condanna alle spese, nella misura indicata in dispositivo, della parte soccombente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 4.050,00 (quattromilacinquanta), di cui Euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre accessori come per legge.

Redazione