Legittimo il trasferimento del lavoratore in caso di lieve disabilità (Cass. n. 10338/2013)

Redazione 03/05/13
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Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Torino, parzialmente accogliendo l’appello proposto da Banca Intesa s.p.a. nei confronti di C.A., respinta l’eccezione di incompetenza territoriale riproposta in sede di gravame, ha ritenuto che il lavoratore, che aveva ottenuto, per effetto di un infortunio sul lavoro la perdita di gran parte delle dita della mano destra con grave limitazione funzionale delle restanti dita, il riconoscimento del 40% di invalidità, pur avviato al lavoro come invalido ai sensi della L. n. 482 del 1968, non rientrava nella categoria prevista dalla L. n. 104 del 1992, art. 3, che a norma dell’art. 33 della stessa legge non consente al datore di lavoro di trasferire il dipendente senza il suo consenso.

Rilevava il giudice d’appello che la L. n. 104 del 1992, art. 3, riconosce la sussistenza di handicap rilevante ai fini dell’applicazione della legge stessa, non a qualsiasi invalidità, ma solo a quelle che comportano una difficoltà fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, “che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”.

Ne consegue che lo stato di invalidità che giustifica l’avviamento al lavoro ai sensi della L. n. 482 del 1968, non è necessariamente equiparabile alla definizione di “handicap” della L. n. 104 del 1992, la quale prevede, tra l’altro, una specifica procedura per il suo accertamento affidata a commissioni mediche costituite presso le unità sanitarie locali ai sensi della L. n. 295 del 1990, art. 1, integrate da un operatore sociale e da un esperto (L. n. 104 del 1992, art. 4).

Ha poi precisato che tale accertamento amministrativo, nella specie mancante, non può essere sostituito da un accertamento processuale se non nel caso in cui nel giudizio si impugni proprio il diniego da parte della commissione, ed ha verificato che nel caso in esame lo stesso, al momento della proposizione del ricorso introduttivo del giudizio non era intervenuto.

Per tale sola ragione la Corte ha ritenuto che l’appello avrebbe potuto essere accolto e la domanda del lavoratore respinta.

Tuttavia la Corte territoriale ha verificato che, sebbene tale certificazione fosse intervenuta successivamente alla definizione del giudizio di primo grado, il 26.7.2005, tuttavia nella stessa era precisato che “la minorazione non riduce l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente continuativo e globale della sfera individuale o in quella di relazione non conferendo alla situazione connotazione di gravità secondo le previsione della L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3. Il quadro patologico obicttivato non determina una grave limitazione permanente della capacità di deambulare”.

Precisa quindi la Corte che l’art. 33 subordina il trasferimento al consenso del lavoratore solo in caso di handicap che determina “una situazione di gravità” e poichè l’handicap accertato per il C. non presenta queste caratteristiche la disposizione non trova applicazione.

Neppure ha ritenuto applicabile l’accordo del 16 luglio 2004 evidenziando che questo richiama proprio le disposizioni della L. n. 104 del 1992, ed il C., come accertato, non rientrava nella categoria degli handicappati gravi per i quali è necessario il consenso al trasferimento.

Per la cassazione della sentenza ricorre il signor C.A. affidandosi a cinque motivi.

Resiste con controricorso Intesa San Paolo s.p.a. che ha depositato anche memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso viene censurata la sentenza di primo grado per avere, in violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost., negato la illegittimità del trasferimento al dipendente nonostante il suo stato di portatore di handicap ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3.

Chiede che la corte accerti se “la corretta applicazione ed interpretazione dell’art. 3 Cost., in ambito giuslavoristico faccia si che situazioni di fatti differenziate abbiano in concreto trattamenti diversi”.

Con il secondo motivo, poi, viene denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 Cost., sul rilievo che il bene salute tutelato comprenda oltre all’integrità fisica personale anche l’ambito più esteso e qualificante del mantenimento e/o recupero dello stato di benessere per garantire il quale è necessario che sul luogo di lavoro siano applicate regole diverse a seconda delle condizioni dei dipendenti e nel rispetto delle loro patologie.

Chiede quindi di accertare se “la corretta applicazione ed interpretazione dell’art. 32 Cost., comporta la massima tutela della salute in ambito lavorativo dei soggetti portatori di handicap”.

Le prime due censure sono inammissibili stante la assoluta genericità dei quesiti non rapportati alla fattispecie concreta.

Come è noto, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “il quesito di diritto, previsto dalla richiamata norma di rito (n.d.r. art. 366 bis ratione temporis applicabile al caso concreto), ha lo scopo precipuo di porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n. 5353)” A tal fine è imposto al ricorrente di indicare, nel quesito, l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo tale che dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in maniera univoca l’accoglimento od il rigetto del ricorso (Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360).

In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420).

Pertanto questa Corte ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l’indicazione sia della regula iuns adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044). Nella specie rileva la Corte che, relativamente alla dedotta violazione di legge, la formulazione dei relativi quesiti di diritto o dei principi di cui si chiede l’applicazione, prescinde del tutto dall’indicazione, come si desume dalle riportate trascrizioni degli stessi, della diversa regola mris posta a base della sentenza impugnata sicchè non è consentito a questa Corte di valutare, sulla base dei soli quesiti, se dall’accoglimento dei motivi possa o meno derivare l’annullamento della sentenza impugnata. Come è stato più volte rammentato “L’affermazione di un principio di diritto da parte di questa Corte, del resto, non è fine a sè stessa, ma è necessariamente strumentale, pur nella funzione nomofilattica, alla idoneità o meno del principio da asserire a determinare la cassazione della sentenza impugnata”. (Cfr. recentemente Cass. 13.2.2012 n. 2011 e 20.06.2011 n. 13483).

Poichè i quesiti relativi ai due primi motivi di ricorso, assai generici anche i motivi nella loro formulazione, non contengono nè la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, nè la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice, nè la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie, ne deve essere dichiarata l’inammissibilità.

In ogni caso proprio la Corte costituzionale, nel verificare la legittimità della disposizione in concreto applicabile (la L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6) ha affermato che “non vi è lesione del principio di uguaglianza, perchè non vale il richiamo, quale tertium comparationis, della L. n. 104, art. 33, comma 5, che riguarda una fattispecie diversa da quella in esame e che, inoltre, è stato interpretato da una parte della giurisprudenza m senso restrittivo, per la sola assistenza continuativa di un disabile grave. Nè è fondata la censura mossa con riguardo all’art. 2 Cost.: la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo è proprio il fine ispiratore della legge n. 104; e non se ne può isolare una singola disposizione – che introduce una disciplina favorevole al disabile, seppur circoscritta dai requisiti prima illustrati – per ipotizzare la lesione del citato parametro costituzionale.

La garanzia della vicinanza del luogo di lavoro rispetto alla residenza è strumento che agevola la tutela dell’integrità fisica del disabile, ma non può certo dedursi la violazione dell’art. 32 Cost., con riferimento alle condizioni poste al “diritto di precedenza” nell’assegnazione della sede. Considerazioni analoghe valgono per ì parametri concernenti la tutela del diritto al lavoro (artt. 4 e 38 della Costituzione) che vanno interpretati riconoscendo al legislatore uno spazio per operare la ragionevole ponderazione degli interessi in gioco, e dunque l’introduzione di Emiti nell’attribuzione di diritti e nel riconoscimento di altre situazioni soggettive di garanzia dei lavoratori disabili.”(cfr. cfr. Corte cost. n. 406 del 1992).

Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata, poi, la violazione e/o falsa applicazione della L. 5 febbraio 1992, n. 104 “legge – quadro per l’assistenza e l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.

Sostiene il ricorrente che l’analisi delle norme proposta dal giudice d’appello è fondata su presupposti erronei in quanto la L. n. 104 del 1992, art. 3, dopo aver definito le caratteristiche del soggetto portatore di handicap come “colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilitata o progressiva che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svaniamo sociale o di emarginazione” (comma 1) nel proseguo (comma 3) afferma che se la minorazione “abbia ridotto l’autonomia personale correlata all’età in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazioni di gravità” che determinano la priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici. Aggiunge poi il ricorrente che la stessa L. n. 104 del 1992, art. 4, che gli accertamenti sono effettuati dalle unità sanitarie locali per il tramite delle commissioni mediche di cui alla L. n. 295 del 1990, art. 1, integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi in cui si tratta di personale in servizio presso le stesse unità sanitarie locali ed infine che la L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6, stabilisce che “la persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità (…) ha diritto a scegliere, ove possibile la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in un’altra sede senza il suo consenso”.

Da tanto consegue, ad avviso del ricorrente, che essendo stato accertato dalla Azienda USL di (OMISSIS) competente il suo stato di portatore di handicap ai sensi della citata L. n. 104 del 1992, deve poter godere dei benefìci previsti dal richiamato art. 33, e dunque non poteva essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso.

Tanto premesso chiede che questa Corte accerti se “la corretta applicazione ed interpretazione della L. n. 140 del 1990, artt. 1, 3, 4, 5 e 33, prevede la massima tutela dei soggetti portatori di handicap ed il divieto di trasferimento senza il loro consenso”.

Si osserva al riguardo che, anche a voler prescindere dalla genericità del quesito formulato, ancora una volta non corrispondente ai canoni previsti dall’art. 366 bis c.p.c., in ogni caso esso è privo di fondamento in quanto il motivo, nella sua articolata ricostruzione, non tiene conto del fatto che la L. n. 104 del 1992, art. 33 comma 6, fa espressamente riferimento ad una situazione di “gravità” che nel caso in esame il giudice di merito ha ritenuto, con motivazione ampia, articolata e in questa sede incensurabile, non sussistente escludendo così il dipendente dall’accesso al beneficio reclamato.

Il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può prescindere dall’accertamento della gravità della disabilita che, come ha esattamente evidenziato la Corte territoriale, è caratteristica il cui accertamento è demandato alla Commissione costituita presso la ASL che, nel caso in esame non è stata ritenuta sussistente.

Il requisito dell’accertata gravità dell’handicap si compendia con un attento bilanciamento degli interessi contrapposti, tutti a copertura costituzionale.

D’altronde l’inamovibilità è connessa alla gravità dell’handicap del lavoratore e si giustifica per la particolare gravosità che lo spostamento, imposto, potrebbe generare in un lavoratore proprio a cagione della grave incidenza del suo handicap con riguardo, ad esempio, alla sua autonomia, alla necessità di avvalersi di particolari presidi sanitari non reperibili in ogni sede ovvero o di ausili da parte di terzi che un trasferimento imposto potrebbe compromettere. Sul piano sistematico, come già affermato con condivisa motivazione dalle sezioni unite della Corte (cfr Cass. s.u. n. 16102/2009 in motivazione), la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma, e i limiti del relativo esercizio all’interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale che – collocando le agevolazioni m esame all’interno di un’ampia sfera di applicazione della L. n. 104 del 1992, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacenti, la tutela dei soggetti con disabilita – destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sull’integrazione scolastica – ha precisato la discrezionalità del legislatore nell’individuale le diverse misure operative finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante l’interrelazione e l’integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale (cfr. Corte cost. n. 406 del 1992; id., n, 325 del 1996).

Con il quarto motivo di ricorso, poi viene denunciata la violazione dell’accordo sindacale del 16.7.2004 con il quale è stata introdotta una norma di miglior favore che estende in via generale con l’art. 5, la massima tutela ed il divieto di trasferimento senza il loro consenso oltre i 25 km a tutti i soggetti portatori di handicap. Sostiene quindi che l’accordo sindacale 16.7.2004, essendo disposizione di maggior favore, prevale sul disposto della L. n. 104 del 1992, art. 33, fondando così il suo diritto a non essere trasferito in mancanza di un suo consenso.

L’errata interpretazione dell’accordo sindacale è oggetto anche del quinto motivo di ricorso con il quale si denuncia l’omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per aver omesso la corte territoriale, di prendere in considerazione il tenore testuale e l’incidenza sulla disciplina legale della normativa collettiva citata.

Le censure che attengono entrambe alla valutazione dell’accordo sindacale del 2004, possono essere esaminate congiuntamente e, tuttavia, devono essere dichiarate inammissibili.

Ed infatti il ricorrente, in violazione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, ha omesso di produrre “gli (…) accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” e neppure ha indicato la sede processuale nella quale l’atto era stato eventualmente prodotto (ex art. 366 c.p.c., n. 6).

E’ noto che sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, l’adempimento previsto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a pena di improcedibilità, può essere soddisfatto quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3. Sotto tale profilo le censure sarebbero procedibili poichè la parte dichiara in ricorso di produrre i fascicoli di parte di primo e secondo grado e deposita l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio.

E tuttavia, come più volte affermato anche dopo la pronuncia a sezioni unite n. 22726 del 3/11/2011, resta ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi, adempimento al quale il ricorrente, come si evince dalla lettura del ricorso, non ha adempiuto essendosi limitato a trascrivere passi della disposizione invocata ma omettendo di precisare se e dove l’accordo era stato depositato.

In conclusione il ricorso deve essere respinto e la sentenza confermata.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in applicazione del nuovo sistema introdotto con il D.M. 20 luglio 2012, n. 140, Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giunsdizionale dei compensi per le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9 (conv., con modificazioni, in L. 24 marzo 2012, n. 27), disposizioni che applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012.

Pertanto, tenuto conto dello scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell’art. 4, del D.M. e delle fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) ed effettivamente svoltesi, i compensi sono liquidati nella misura omnicomprensiva di Euro 2.500,00 e di Euro 40,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio liquidate in Euro 40 per esborsi ed in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2012.

Redazione