Legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore depresso che non si è presentato più volte al colloquio difensivo con il datore di lavoro (Cass. n. 3058/2013)

Redazione 08/02/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 5 luglio – 23 agosto 2007, la Corte d’appello degli Abruzzi – L’Aquila, in riforma della pronuncia del Tribunale di Teramo, che aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato il 10/9/2003 a D.P.E.P. dalla Spa Intesa SanPaolo (già Spa Banca Intesa), con tutte le consequenziali statuizioni reintegratorie e risarcitorie, rigettava la domanda proposta dal D. P. con il ricorso introduttivo.

A sostegno della decisione osservava che – contrariamente a quanto ritenuto dal primo Giudice – il licenziamento era avvenuto nel pieno rispetto delle regole procedurali di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 sia sotto il profilo dell’immediatezza fra fatti denunciati e contestazione disciplinare sia sotto quello della tutela del diritto di difesa riguardo alla dedotta disattesa richiesta di audizione orale.

Quanto al merito, i fatti oggetto di contestazione con la lettera del 22/5/2003 dovevano ritenersi provati sia perchè non erano stati oggetto di puntuale disconoscimento sia perchè la documentazione prodotta e le deposizioni raccolte in primo grado dimostravano la sussistenza di un inadempimento contrattuale di particolare gravità, tale da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto.

In particolare, l’istruttoria espletata aveva consentito di accertare “che il D.P. aveva messo in atto, quando era responsabile della Filiale di (omissis), una gestione superficiale e spregiudicata, consistita, ad esempio, in movimentazioni di conti correnti non giustificati alla luce del fatturato o del reddito del beneficiano, giro di assegni con sconfinamento dell’affidamento concesso, addebito di operazioni su conti correnti di clienti diversi da quelli che avevano negoziato l’assegno, superamento dei limiti di autonomia previsti dalla Banca, concessioni arbitrarie ed indebite di linee di credito, ecc.”.

Peraltro, l’elevato numero delle posizioni anomale rivelavano, da un lato, un’assoluta carenza di diligenza del lavoratore in ordine alle sue specifiche mansioni (qualifica di Responsabile di Filiale) e, dall’altro, una scarsa attenzione al rispetto delle più elementari norme di prudenza nel settore bancario.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre il D.P. con due motivi, depositando anche memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste Intesa Sanpaolo S.p.A. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo mezzo di ricorso, il D.P., denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione all’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, reitera la propria tesi espressa nei gradi di merito, secondo cui la contestazione disciplinare sarebbe stata tardiva, in quanto essa era avvenuta con lettera consegnata a mano il 21/5/2003 e quindi, ingiustificatamente, oltre due mesi dal termine delle indagini ispettive (14 marzo 2003), disposte dalla Banca. Il motivo è infondato.

Invero, – come da consolidato orientamento di questa Corte – l’accertamento della tempestività del procedimento disciplinare sfociato in una sanzione risolutoria è demandato ai Giudici di merito (ex plurimis, Cass. n. 14113/2006) e, nella specie, la Corte territoriale aveva escluso qualsiasi profilo di tardività, sulla base di un iter motivazionale logico e corretto.

Ha, in proposito, osservato che, al fine di escludere la dedotta tardività andavano prese in adeguata considerazione le seguenti circostanze, che inducevano a ritenere non sussistente alcuna ingiustificata dilatazione temporale: a) la complessità dell’organizzazione aziendale, essendo la ******à Intesa Sanpaolo una grande Banca, articolata in una pluralità di autonome Direzioni, con diversi livelli decisionali e diffusa nel territorio italiano; b) l’avvenuto accertamento dei fatti ad (omissis) mentre le Direzioni interessate del licenziamento (Ispettorato e Personale) risiedevano a Milano; c) l’elevato numero delle infrazioni acclarate, molte delle quali avevano richiesto approfondite elaborazioni, analisi e chiarimenti in sede centrale; d) la sospensione cautelare disposta il 3/4/2003, che dimostrava l’insussistenza di qualsiasi acquiescenza della Banca, e anzi una pronta reazione del datore di lavoro ed una permanente volontà di irrogare (eventualmente) la sanzione espulsiva.

Nell’operare la relativa valutazione, la Corte territoriale si è conformata alla giurisprudenza di legittimità alla cui stregua il principio di immediatezza esprime un’esigenza di continuità cronologica tra la mancanza del lavoratore e la contestazione dell’addebito da parte del datore di lavoro, ed è posto a garanzia del corretto esercizio del potere disciplinare del secondo e della possibilità di un’efficace difesa da parte del primo; lo stesso principio costituisce, poi, estrinsecazione dell’obbligo datoriale di buona fede, dovendosi adeguatamente tener conto del giusto affidamento del prestatore, in caso di ritardo della contestazione in oggetto, che il fatto incriminabile possa non aver assunto rilievo disciplinare (ex plurimis, Cass. n. 11100/2006); con l’ulteriore precisazione che la valutazione del detto principio di immediatezza va effettuata in base al criterio della relatività, nel senso che deve essere considerata la situazione concreta ed i motivi oggetti vi che possano aver giustificato il prolungamento delle indagini accertative da parte del datore di lavoro, avuto anche riguardo al momento in cui quest’ultimo possa ragionevolmente essere venuto a compiuta conoscenza del fatto (ex plurimis, Cass. n. 22066/2007).

In questa prospettiva, la Corte di merito ha rilevato che la lettera di contestazione, su cui si era basato l’intimato licenziamento “- rappresentata da 12 pagine con decine di addebiti-” era datata 13/5/2003, mentre i principali fatti imputati al D.P. erano stati accertati mediante un’ispezione, presso la Filiale di cui quest’ultimo era direttore, iniziata il 17/2/2003 e conclusasi il 27/3/2003. La sentenza della Corte di Appello ha infatti accertato non solo che l’Ispezione era terminata in data 27 marzo 2003 ma anche che in data 3 aprile 2003 la Banca aveva cautelarmente sospeso dal servizio il D.P., così cristallizzando la situazione e dimostrando, in modo assolutamente inequivocabile, che essa intendeva esercitare i propri diritti disciplinari e (eventualmente) risolutori. Così argomentando, la Corte d’appello ha mostrato ancora una volta di adeguarsi alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la sospensione cautelare cristallizza la situazione, impedisce ogni acquiescenza ed esclude ogni tardività (tra le tante, Cass. 19 agosto 2004, n. 16291).

Infondato è anche il secondo motivo, con cui il ricorrente, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, lamenta la sua mancata audizione, da parte del datore di lavoro, nonostante esplicita richiesta, prima della irrogazione della sanzione disciplinare.

In proposito la **** d’appello ha osservato che dalla documentazione versata in atti si evinceva che: a) a seguito della lettera di contestazione degli addebiti, il D.P., con lettera del 22/5/2003, non aveva presentato giustificazioni scritte, ma aveva chiesto di essere ascoltato di persona in presenza di un rappresentante sindacale; b) la Banca, aderendo a tale richiesta, aveva convocato più volte il lavoratore (precisamente, il 16/6/2003, 10/7/2003, 14/7/2003 e 8/9/2003), ma l’invocata audizione non era mai avvenuta a causa dell’indisponibilità ripetuta dell’istante per motivi di salute (attestata da certificati medici inviati al datore di lavoro).

In tale contesto, nulla si poteva addebitare alla ******à appellante, che si era mostrata sempre disponibile (per ben quattro volte) affinchè l’appellato potesse esercitare il diritto di difesa contemplato dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 da esercitarsi secondo opportune modalità e precisi limiti, in modo tale da non paralizzare, mediante l’uso di mezzi dilatori, il potere disciplinare del datore di lavoro; a ciò era da aggiungersi – prosegue la Corte territoriale – la considerazione che la malattia denunciata (stato depressivo) non appariva, in concreto, aver impedito fisicamente al lavoratore di effettuare il colloquio, nè di ragguagliare adeguatamente il rappresentante sindacale sulle giustificazioni da fornire riguardo ai fatti contestati.

Trattasi di un accertamento di fatto, correttamente motivato, che si sottrae alla esposta censura.

Per quanto precede il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Redazione