Legge Pinto: in corso di processo non scatta la prescrizione per l’indennizzo (Cass. n. 16783/2012)

Redazione 02/10/12
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Svolgimento del processo

Mi.Gi. (nato a (omissis)), Mi.Gr. e F., M.S., in proprio e nella qualità di erede di Mi.Gi., e M.G. (nato a Messina il (omissis)), con ricorso del 12 febbraio 2008 hanno chiesto alla corte d’appello di Reggio Calabria la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’equo indennizzo per il pregiudizio subito per l’irragionevole durata di una causa avente ad oggetto diritti condominiali iniziata davanti al tribunale di Messina con atto di citazione del 15, 16 e 18 maggio 1981 definito con sentenza del 6 ottobre 2005, ancora pendente in appello.
L’amministrazione ha eccepito la prescrizione parziale del credito azionato.
La corte d’appello, con decreto del 10 novembre 2008 ha ritenuto che, per la complessità dell’attività istruttoria svolta e la non sollecita riassunzione del giudizio a seguito di due interruzioni, la durata ragionevole del giudizio di primo grado doveva determinarsi in sei anni; che l’eccezione di prescrizione era in parte fondata e che, pertanto, il diritto all’equa riparazione per il periodo anteriore al decennio dal 12 febbraio 2008, data del ricorso introduttivo, si era estinto e che il periodo di durata irragionevole doveva determinarsi in sette anni, sette mesi e 24 giorni, tenendo conto dei periodi di inattività addebitabili all’ufficio giudiziario. Conseguentemente, la corte territoriale, respinta la domanda di indennizzo del danno patrimoniale perchè non provato, ha condannato l’amministrazione convenuta al pagamento di Euro 7.650,03, pari ad Euro 1.000,00 per anno di ritardo calcolato con riferimento all’attualità, in favore di tutti ricorrenti, con gli intereressi al tasso legale dalla data del decreto e le spese legali, compensate fino alla metà. A sostegno dell’accoglimento dell’eccezione di prescrizione la corte territoriale, premesso che per la natura indennitaria e non risarcitoria del credito dovesse applicarsi la prescrizione decennale, ha ritenuto che il termine di prescrizione decorre giorno per giorno dal momento in cui il processo presupposto supera la durata ragionevole, come in tutti gli illeciti permanenti, e pertanto che la prescrizione si era maturata a partire dal sesto anno successivo alla proposizione della domanda di merito fino al decimo anno anteriore alla presentazione della domanda ai sensi della L. n. 89 del 2001, e quindi fino al 12 febbraio 1998.
M.G. e F., quali eredi di Mi. G. (nato a (omissis)), Mi.Gr. e Fl. (nata nel (omissis)) M.S. e F. (nata nel (omissis)) e M.G. (nato a (omissis)) hanno proposto ricorso sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso il Ministero.
Il ricorso, inizialmente assegnato alla prima sezione civile, a seguito di ordinanza del 17 ottobre 2011 che ha segnalato il contrasto tra diverse pronunce in ordine all’applicabilità della prescrizione nelle controversie ai sensi della L. n. 89 del 2001, è stato assegnato alle sezioni unite. In occasione dell’udienza di discussione davanti a queste sezioni unite la difesa erariale ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2934 e 2935 c.c., e vizio di motivazione i ricorrenti, censurano l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione rilevando che la L. n. 89 del 2001, prevede esclusivamente la decadenza e non anche la prescrizione che, peraltro, è incompatibile con la natura indennitaria dell’equa riparazione, il cui presupposto è proprio l’inattività delle parti che dovrebbe fungere da presupposto del credito azionato, e con la circostanza che il dies a quo non può essere individuato con la necessaria certezza, perchè la durata ragionevole del giudizio deve essere determinata caso per caso dal giudice, valutando l’andamento dell’intero giudizio quando lo stesso sia terminato, circostanza che comporterebbe l’inflazione dei giudizi promossi, anche in pendenza dei giudizi presupposti, al solo fine di interrompere l’eventuale prescrizione. Nè potrebbe applicarsi il principio secondo cui nell’illecito permanente il diritto al risarcimento matura giorno per giorno, perchè il pregiudizio da durata irragionevole nasce solo quando è superata la durata ragionevole ed è proporzionale alla durata e si aggrava con il passare del tempo e, pertanto la prescrizione decorrerebbe solo dal momento della cessazione della condotta lesiva. Comunque la prescrizione non potrebbe decorrere da un momento anteriore all’entrata in vigore della legge n. 89 del 2001, perchè è solo con l’art. 4 di tale normativa che è stata attribuita la facoltà di chiedere l’indennizzo per il pregiudizio derivante dall’irragionevole durata del giudizio anche nel corso dello stesso, mentre l’art. 35 della CEDU prevedeva che prima di adire la corte di Strasburgo dovessero essere esaurite le vie di ricorso interne. L’assurda conseguenza della tesi seguita dalla corte territoriale sarebbe che al momento dell’entrata in vigore della L. n. 89 del 2001 si sarebbe già maturata la prescrizione in relazione a tutti i diritti presupposti per i quali la durata ragionevole fosse stata superata già da dieci anni.
Con il secondo motivo, deducendo la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nonchè vizio di motivazione, si lamenta che sia stata determinata la durata ragionevole del giudizio in sei anni, mentre la costante giurisprudenza della corte di Strasburgo e dei giudici nazionali fissano il termine massimo di durata ragionevole in tre anni.
Comunque sarebbe anche erronea la motivazione sulla base della quale è stato determinato il termine più lungo perchè la causa non presentava particolare difficoltà, aveva richiesto solo l’espletamento di una c.t.u. e le interruzioni, verificatesi nel 1995 e nel 1998, debbono ritenersi comprese nel predetto termine perchè eventi fisiologici. Peraltro, essendo gli eventi interruttivi accaduti dopo 14 anni dall’inizio del processo,non avrebbero avuto alcun rilievo se il processo fosse stato definito entro i tre anni.
Il terzo motivo, prospettando un ulteriore profilo di violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e vizio di motivazione di ricorso censura il provvedimento di merito per avere liquidato la somma di Euro 7.650,03 in favore dei sei ricorrenti e quindi la somma di Euro 1.275,00 per ognuno di essi, discostandosi dal parametro di Euro 1.000,00 per anno di ritardo fissato dalla giurisprudenza della corte di Strasburgo.
2. In ordine alla questione prospettata con il primo motivo, come esattamente rilevato dall’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto all’interno della Corte.
L’indirizzo tradizionale e largamente prevalente afferma che in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, nella parte in cui prevede la facoltà di agire per l’indennizzo in pendenza del processo presupposto, non consente di far decorrere il relativo termine della prescrizione prima della scadenza del termine decadenziale previsto nel medesimo art. 4 per la proposizione della domanda, in tal senso deponendo, oltre all’incompatibilità tra prescrizione e decadenza, se relative al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonchè il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione delle iniziative processuali, che l’operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo (Cass. 30 dicembre 2009 n. 27719, e nello stesso senso, 12 febbraio 2010 n. 3325; 22 febbraio 2010, n. 4091; 24 febbraio 2010, n. 4526; 26 febbraio 2010, n. 4760; 4 ottobre 2010 n. 20564, 11 gennaio 2011 n. 478).
Secondo l’ordinanza di rimessione, in senso opposto si sarebbe pronunciata Cass. 24 febbraio 2010 n. 4524 dalla quale è stata estratta la seguente massima: “il diritto di chi ha subito una danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla L. 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione, ad un equa riparazione, secondo quanto previsto dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, ha natura indennitaria e non risarcitoria ed è quindi soggetto all’ordinaria prescrizione decennale e non a quella breve dettata dall’art. 2947 c.c.; la vicenda estintiva matura nel tempo e per effetto del proseguire del processo e del verificarsi dei pregiudizi per i soggetti legittimati a chiedere l’indennizzo, per cui all’attore compete ogni danno dal momento degli eventi lesivi che si susseguono a decorrere dal decimo anno anteriore alla domanda, salvo che questa sia stata proposta oltre il termine di sei mesi di cui all’ultimo inciso della L. n. 89 del 2001, art. 4”. Nella specie, peraltro, era in discussione soltanto la durata del termine ma non l’applicazione della prescrizione già avvenuta. Questa massima è stata espressamente posta a base del provvedimento di merito in questa sede impugnato e ad essa l’ordinanza di rimessione aggiunge l’ulteriore considerazione che la scelta di qualificare come meramente processuale la L. n. 89 del 2001, art. 4, fatta propria dal primo orientamento, non approfondisce le ragioni per le quali al diritto che nasce nel corso del processo per l’indennizzo dei danni prodotti dal prolungarsi di esso, pur non essendovi un esplicita deroga normativa alla regola generale dell’art. 2934 c.c., comma 2, e potendosi comunque far valere nel momento in cui si assume che la violazione del diritto alla giusta durata del procedimento si è verificata (art. 2935 c.c.), non possa applicarsi la prescrizione ordinaria decennale (art. 2946 c.c.), con ogni disposizione accessoria (interruzione e sospensione), per i danni maturati successivamente al 1 agosto 1973, data di inizio del funzionamento dell’organo giurisdizionale sopranazionale che poteva accertare la lesione dei diritti dei legittimati ad agire prima ancora dell’entrata in vigore della cosiddetta legge Pinto. Sottolineare che la decadenza prevista nella citata L. n. 89 del 2001, impedisce che maturi la prescrizione, non tiene conto che il processo presupposto può continuare ed essere pendente anche oltre la data della domanda di equa riparazione, con la conseguenza che l’esame della eccezione di prescrizione può valutarsi prima della definitività della sentenza che conclude il processo presupposto, anche in considerazione del diritto vivente che risulta dalle decisioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo che hanno riconosciuto la prescrittibilità delle posizioni soggettive tutelate dalla convenzione, alle quali possono di regola applicarsi le norme processuali e sostanziali di diritto interno, ove non impediscano la tutela effettiva del diritto di cui alla Convenzione stessa (con riferimento alla prescrizione, cfr. ******* c. Italia 8 dicembre 2009 ric. n. 45291/06, Par. 118, 119 e 123). Conclude l’ordinanza di rimessione che del contrasto appare opportuno investire le sezioni unite della Corte, anche in ragione dei rilevanti problemi di politica giudiziaria che la risoluzione della questione pone, in rapporto agli oneri rilevanti di bilancio che l’applicazione della cosiddetta legge Pinto comporta, che potrebbero variare, secondo che si applichi l’uno o l’altro dei principi sopra enunciati.
3. La Corte ritiene di dover privilegiare l’orientamento largamente prevalente nella propria giurisprudenza.
3.1. Si deve innanzi tutto prendere atto che, qualunque sia la tesi interpretativa preferibile sul piano teorico generale circa la prescrittibilità di ogni diritto, anche se di natura costituzionale o avente base legale in una disciplina sovranazionale (pur se, conseguentemente, debba ritenersi indisponibile), e circa la compatibilità della prescrizione e decadenza di uno stesso diritto, la lettera della L. n. 89 del 2001, art. 4, con norma che ha evidente natura di legge speciale, prevede testualmente che il termine per proporre la domanda di equa riparazione quando il processo è esaurito è termine di decadenza, mentre per proporre la domanda in corso di processo non è previsto alcun termine.
E sempre sul piano testuale una convincente lettura dell’art. 2697 c.c., in coerenza, peraltro con la rubrica dell’art. 2964 c.c., postula appunto l’affermazione dell’incompatibilità tra decorrenza del termine di prescrizione e la pendenza del termine di decadenza per l’esercizio del medesimo diritto, prevedendo che il termine di prescrizione possa iniziare a decorrere solo quando il compimento dell’atto o il riconoscimento del diritto disponibile abbiano impedito il maturarsi della decadenza.
3.2. Omogenea alla disciplina processuale a regime è poi la disciplina transitoria di cui alla L. n. 89 del 2001, la quale, nel consentire la prosecuzione davanti al giudice italiano delle cause di equa riparazioni pendenti davanti alla Corte di Strasburgo, pone due limiti temporali che all’evidenza debbono essere qualificati come di decadenza: quello di sei mesi dalla data di entrata in vigore della L. n. 89 per iniziare il giudizio davanti al giudice italiano e il rispetto del termine di sei mesi, dall’esaurimento delle vie di ricorso interne previsto dall’originario testo dell’art. 36 della CEDU per il ricorso alla Corte EDU. Nè è senza rilievo la genesi della legge interna diretta al tempo stesso ad alleviare il carico di lavoro della Corte di Strasburgo, ma anche a semplificare e rendere più facilmente accessibile l’azione riparatoria contro l’eccessiva durata dei giudizi, come la stessa giurisprudenza di Strasburgo ha più volte riconosciuto, mentre l’introduzione di un termine prescrizionale non previsto certamente dalla legge speciale ne frustrerebbe in modo grave le finalità, contraddicendone la ratio.
Tale argomento non risulta peraltro superato nè dall’osservazione secondo la quale la regola generale della prescrittibilità dei diritti non potrebbe essere superato da una disciplina derogatoria di natura implicita, nè dal rilievo che l’art. 6, così come la L. n. 89, art. 4, riferendosi alla proponibilità dell’azione, limiterebbero i loro effetti al piano processuale, mentre la prescrizione opera su quello sostanziale. Infatti, la disciplina speciale, esplicita o implicita che sia, è sempre idonea a derogare a quella generale e la problematica se la prescrizione colpisca il diritto o l’azione, pur se affrontata dallo stesso legislatore (art. 2934 c.c.), è di natura tutta teorica, come dimostra il fatto che nello stesso ordinamento positivo sono numerosissime le ipotesi in cui diverse disposizioni legislative predicano la prescrizione dell’azione, e pertanto, anche a voler tralasciare il principio generale chiovendiano secondo il quale il processo deve dare a chi ha ragione proprio tutto quello che la norma sostanziale garantisce, la distinzione tra norma sostanziale e processuale, agli specifici fini di cui si tratta, è troppo controvertibile per potervi fondare una conclusione dai riflessi pratici di grandissimo rilievo.
3.4. L’analisi della disciplina positiva conferma pienamente i rilievi che si possono trarre dal dato letterale desunto dalla disciplina speciale, che è di per sè sufficiente a giustificare la soluzione accolta.
Infatti, in tesi generale, pur essendo prescrizione e decadenza connesse all’inerzia del soggetto e dirette a dare certezza ai rapporti giuridici, in un caso viene presa in considerazione l’inerzia protratta per un certo tempo, suscettibile di interruzione e sospensione, mentre nell’altro ciò che rileva non è la durata dell’inerzia, ma il solo fatto che un’inerzia ci sia o sia cessata, tanto che è irrilevante ogni situazione che potrebbe giustificare l’eventuale interruzione o sospensione del termine (art. 2964 c.c.).
Rilievo che trova conferma nella disciplina speciale perchè se la L. n. 89 del 2001, art. 4, ritiene irrilevante l’inerzia fino a che non sia decorso il termine di sei mesi dalla definitività della decisione che conclude il processo, non si potrebbe poi ritenere, contraddittoriamente, che la stessa inerzia, sia pure prolungata per tutta la durata in cui il processo, pur avendo superato la durata ragionevole, non è ancora definitivamente concluso possa provocare l’estinzione del diritto alla ragionevole durata, precludendo al tempo stesso la proponibilità della relativa azione giudiziaria.
D’altra parte, se pure introdotta come istituto generale dal nuovo codice, la decadenza, a differenza dalla prescrizione, non è istituto di applicazione generale, essendo necessaria una previsione legislativa o negoziale specifica che la giustifica e che, in quanto tali, sono destinate a prevalere sulla normativa generale.
3.5. Confermano le conclusioni raggiunte due situazioni processuali che sono state invocate a sostegno dell’opposta tesi.
La prima è quella dell’inoperatività della decadenza dall’opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione in caso di omesso deposito della relazione dell’ufficio tecnico erariale nel foglio degli annunzi legali della provincia. In tal caso, non potendo operare il termine di decadenza, in via alternativa e non cumulativa, la giurisprudenza della corte afferma comunque l’operatività della prescrizione (Cass. 10 settembre 2004, n. 18237; 8 maggio 2001, n. 6367; 20 dicembre 2000, n. 16026).
La seconda ipotesi, in cui si riscontra l’alternatività dell’operatività della decadenza rispetto alla prescrizione, è quella del recupero delle somme che il conduttore abbia versato oltre quelle previste dalla legge (L. n. 392 del 1978, art. 79, comma 2, o dalla L. n. 431 del 1998, art. 13).
In tal caso se il conduttore agisce rispettando il termine di decadenza può recuperare tutte le somme indebitamente versate, ma se non rispetta il termine di decadenza, non per questo l’azione diventa improponibile, salva, tuttavia la possibilità del locatore di eccepire la prescrizione (ex multis v. Cass. 7 luglio 2010, n. 16009: 6 maggio 2010, n. 10964, 3 aprile 2009 n. 8143).
In entrambi i casi, pertanto, è solo il mancato operare della decadenza, vuoi per mancata decorrenza del termine vuoi per scadenza dello stesso, che rende operativo il termine di prescrizione, ma non è mai dato che in corso di termine di decadenza, quando l’inerzia del titolare è giuridicamente irrilevante, lo stesso possa perdere il diritto vantato.
3.6. Di grande rilievo sono infine le ragioni di ordine pratico che militano a favore della tesi accolta.
In primo luogo, imporre a carico dell’interessato l’onere di agire nel termine di prescrizione decorrente dal maturarsi della durata irragionevole del giudizio comporta la difficoltà pratica di accertare tale maturazione, caso per caso, in quanto la valutazione dipende da una serie di circostanze, tra l’altro, suscettibili di variare nel tempo, nel senso che un termine che appare irragionevole in una certa fase del processo potrebbe divenire ragionevole successivamente in seguito all’insorgere di difficoltà processuali o essere riassorbito da un più veloce svolgimento di un grado successivo.
In secondo luogo l’opposta tesi, in una situazione di fatto in cui l’orientamento di questa corte (Cass. 22 gennaio 2010, n. 1101) secondo cui nulla impedisce alla pubblica amministrazione di predisporre i mezzi necessari per offrire direttamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell’eccessiva durata di un giudizio in cui sia stato coinvolto, senza rendere necessario il ricorso al giudice, stenta a diventare diritto vivente e, fatto ancor più rilevante, non ha dato luogo al formarsi di una prassi amministrativa in tal senso. Ne deriva che, a parte la possibilità solo teorica di interrompere la prescrizione con atti stragiudiziali, di cui resterebbe dubbia l’idoneità interruttiva negli orientamenti giurisprudenziali, permarrebbe necessariamente una forte incentivazione alla proliferazione di iniziative giudiziarie che certamente non potrebbero essere qualificate di abuso del processo, essendo dirette a evitare legittimamente il verificarsi dell’ipotizzata prescrizione del diritto, in una situazione fattuale che non prevede in fatto l’esercizio stragiudiziale del diritto stesso. Il tutto con notevole aggravio del carico di lavoro giudiziario, che, solo per quanto riguarda questa Corte ha raggiunto nel 2011 già la soglia dell’undici per cento del numero dei ricorsi che annualmente vengono depositati.
4. L’accoglimento del primo motivo impone l’esame degli altri motivi di ricorso.
Il processo presupposto ha avuto una durata di anni ventisette e mesi 9 (dal 18 maggio 1981 al 12 febbraio 2008, data di proposizione del ricorso ex L. n. 89 del 2001) per due gradi di giudizio, esclusa la prescrizione fino al decennio anteriore alla proposizione del ricorso introduttivo del presente giudizio.
La determinazione della durata ragionevole e la liquidazione dell’equa riparazione può avvenire senza ulteriore accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., non essendovi ulteriori accertamenti di fatto da compiere e non potendosi condividere la motivazione della corte di merito che da un lato è dei tutto apodittica, facendo riferimento all’espletamento di una c.t.u., che è evento processuale ordinario, e dall’altro è illogica, avendo ritenuto rilevanti due eventi come l’interruzione e sospensione del processo intervenuti in un periodo largamente successivo a quello in cui era già maturato il periodo di durata irragionevole.
Applicando quindi, in mancanza di elementi contrari, i criteri ordinariamente seguiti dalla Corte di Strasburgo e da questa Corte, detratti cinque anni di durata ragionevole per i due gradi di giudizio di merito, la durata irragionevole è di anni ventidue e mesi 9. Applicando il parametro di Euro 750,00 per i primi tre anni di ritardo e di Euro 1.000,00 per gli anni successivi l’equa riparazione deve essere determinata di Euro 22.000,00. Tale somma va attribuita, in accoglimento del terzo motivo, a ciascuno dei ricorrenti, salvo che per M.G. e F., che agiscono jure ereditario, ai quali spetta pro quota.
Le spese del giudizio di merito, da riliquidare senza vincolo alla pronuncia cassata, e quelle di questo giudizio, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso e, decidendo nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., condanna l’amministrazione al pagamento di Euro 22.000,00 in favore di M.G. E F., pro quota, e in favore di ciascuno degli altri ricorrenti, G., Fl. (nata nel (omissis)), S., F. (nata nel (omissis)), M. S. E Gi., con gli interessi al tasso legale dalla data della domanda al soddisfo; condanna inoltre l’amministrazione al pagamento in favore dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di merito che liquida in Euro 1.233,00 (di cui Euro 400,00 per diritti, Euro 700,00 per onorari ed Euro 133,00 per esborsi) e in Euro 2.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) per il giudizio di cassazione, in entrambi i casi oltre alle spese4 generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle sezioni unite civili il 27 marzo 2012.

Redazione