Lecito il licenziamento della lavoratrice madre che non rientra a lavoro dopo la maternità (Cass. n. 14905/2012)

Redazione 05/09/12
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Cagliari ha confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata respinta la domanda di S.N. tendente ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole dalla società Angemax sas di ************** in data (omissis) per non essersi presentata al lavoro al termine del periodo di astensione dal lavoro per maternità.

A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta osservando che la condotta della lavoratrice doveva essere ricondotta all’ipotesi della “colpa grave” prevista dalla L. n. 1204 del 1971 ai fini della legittimità della risoluzione del rapporto e che l’eccezione di inadempimento formulata dalla ricorrente in relazione al mancato pagamento della retribuzione doveva ritenersi infondata, trattandosi del pagamento di una sola mensilità della retribuzione (quella di giugno 2004), ed anche pretestuosa, considerato che il comportamento della lavoratrice, che aveva dichiarato di non avere intenzione di riprendere l’attività lavorativa alla fine del periodo di astensione dal lavoro ed era stata invitata più volte a ritirare le proprie competenze o a comunicare le proprie coordinate bancarie, non poteva ritenersi improntato ai principi di correttezza e buona fede.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione S.N. affidandosi a quattro motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società Angemax sas di ************** & C..

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 33 del 1980, art. 1, artt. 2119 e 1460 c.c., nonchè vizio di motivazione, lamentando che la sentenza impugnata non abbia preso in considerazione i ripetuti inadempimenti del datore di lavoro nel pagamento della retribuzione, non abbia considerato che, in ogni caso, anche il mancato pagamento della sola mensilità di giugno 2004 costituiva grave inadempimento da parte del datore di lavoro al proprio obbligo fondamentale e non abbia, altresì, considerato che era dovuta anche la tredicesima mensilità del 2003.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 33 del 1980, art. 1, nonchè vizio di motivazione, in ordine all’affermazione della sentenza impugnata secondo cui il datore di lavoro era tenuto solo ad anticipare la corresponsione dell’indennità di maternità dovuta dall’ente previdenziale, sì che, nella fattispecie, non era dato riscontrare il nesso di corrispettività delle prestazioni che costituisce il presupposto dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c..

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione degli artt. 1175, 1375 e 1460 c.c., nonchè vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con cui la Corte territoriale ha affermato che l’eccezione di inadempimento era stata sollevata solo in sede giudiziale ed allo scopo di lucrare indebiti vantaggi, laddove nessun rilievo poteva essere mosso alla lavoratrice, che aveva sospeso la propria prestazione a fronte di un inadempimento conclamato del datore di lavoro all’obbligo di corresponsione della retribuzione.

4.- Con l’ultimo motivo si denuncia violazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, relativamente alla statuizione con cui il giudice d’appello ha rigettato la doglianza della lavoratrice secondo cui il licenziamento era da considerarsi nullo o illegittimo perchè intimato per giustificato motivo e non per giusta causa, e cioè per l’unica ipotesi in cui, nella fattispecie, sarebbe stato consentito il licenziamento della lavoratrice.

5.- Tale motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per riguardare problematiche strettamente connesse, sono infondati.

6.- Con specifico riguardo alla eccezione di inadempimento, questa Corte (cfr. Cass. n. 6564/2004, cui adde Cass. n. 6656/2005, Cass. n. 13969/2006) ha già affermato che nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca a giustificazione del proprio rifiuto di adempiere l’inadempimento o la mancata offerta di adempiere dell’altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell’elemento cronologico, ma anche di quello logico, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, tra l’inadempimento dell’uno e il precedente inadempimento dell’altro. Peraltro, il rifiuto di adempiere, come reazione al primo inadempimento, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata.

7.- Questi principi di carattere generale trovano applicazione anche nell’ordinamento lavoristico, essendo il negozio che da vita al rapporto di lavoro subordinato un contratto sinallagmatico di scambio, e, in proposito, va richiamato l’ulteriore principio già enunciato in materia da questa Corte, secondo cui non costituisce giusta causa di licenziamento il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione quando esso sia motivato dall’inadempimento della controparte o dalla mancanza di una reale offerta di adempimento, salvo il limite della buona fede, con la conseguenza che non può considerarsi ingiustificato o contrario a buona fede il rifiuto di adempiere del lavoratore a fronte del mancato pagamento delle retribuzioni a causa delle difficoltà economiche in cui versa i datore di lavoro (cfr. ex plurimis Cass. n. 11181/2002).

8.- Occorre aggiungere che, per costante giurisprudenza (cfr., tra le altre, la già citata Cass. n. 6564/2004), la valutazione di tutti gli elementi della complessa fattispecie, ivi compresa la gravità del dedotto inadempimento e la buona fede di colui che si avvale dell’eccezione, deve essere compiuta dal giudice del merito, il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.

9.- Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata – che ha motivatamente escluso che il rifiuto di adempiere la propria prestazione da parte della lavoratrice, concretizzatosi in un periodo di assenza dal lavoro di quaranta giorni dopo la scadenza del termine del periodo di astensione dal lavoro per maternità, potesse considerarsi giustificato e conforme ai principi di correttezza e buona fede a fronte di un inadempimento datoriale che, a quella data, e cioè alla scadenza del termine del periodo di astensione dal lavoro, riguardava una sola mensilità della retribuzione – non merita le censure che le sono state mosse con il primo ed il terzo motivo di ricorso.

10.- La ricorrente ha contestato che, alla data presa in considerazione dal giudice d’appello, l’inadempimento della società fosse limitato al mancato pagamento di una sola mensilità della retribuzione e, con il secondo motivo, come si è detto, ha contestato anche l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui, essendo il datore di lavoro obbligato solo ad anticipare la corresponsione dell’indennità di maternità, indennità che era dovuta dall’ente previdenziale, non vi era nesso di corrispettività fra la prestazione che si assumeva non adempiuta e quella di cui era stato rifiutato l’adempimento.

11.- Tali censure non possono tuttavia trovare ingresso in questa sede, atteso, in primo luogo, che l’affermazione secondo cui alla data della contestazione la lavoratrice era in credito di almeno due mensilità della retribuzione si pone in contrasto con l’accertamento di fatto compiuto dal giudice d’appello e si risolve, in sostanza, in una denuncia di travisamento del fatto che non può costituire motivo di ricorso per cassazione, poichè, risolvendosi in una inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, costituisce un errore denunciabile unicamente con il mezzo della revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 (cfr. ex multis Cass. n. 10123/2009). In ogni caso, è assorbente il rilievo che, come risulta chiaramente dalla motivazione della sentenza, la decisione impugnata – pur affermando anche la mancanza del rapporto di corrispettività tra le prestazioni dell’una e dell’altra parte, e rilevando che l’inadempimento del datore di lavoro si riduceva al mancato pagamento della retribuzione del mese di giugno del 2004 – si fonda essenzialmente sull’affermazione che, nella fattispecie, il rifiuto della prestazione da parte della lavoratrice non era stato conforme ai principi di correttezza e buona fede, ma era stato determinato da motivi non corrispondenti alle finalità per le quali esso è concesso dalla legge, essendo emerso che la mancata presentazione al lavoro, giustificata ex post con il richiamo al principio inadimplenti non est adimplendum, “poteva essere giustificata da tacite dimissioni, preannunciate ancor prima dell’inizio della astensione per maternità”, così come risultava dalle deposizioni di alcuni testimoni (che avevano pure dichiarato che la ricorrente era stata più volte invitata, durante il periodo di astensione dal lavoro per maternità, a ritirare le proprie competenze o a comunicare le proprie coordinate bancarie).

Tale affermazione, che non è stata sottoposta a specifiche censure, costituisce evidentemente una ragione distinta e autonomamente sufficiente a sorreggere la decisione sul piano logico-giuridico, restando conseguentemente superata ogni questione relativa ad altre affermazioni contenute nella sentenza impugnata, che, come quelle indicate al precedente punto sub 10), si pongono, a loro volta, come distinte ed autonome rationes decidendi. Ciò in base al principio, più volte affermato da questa Corte (cfr, ex plurimis Cass. n. 12372/2006), secondo cui quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome ragioni, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes e, dall’altro, che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta.

A tanto consegue, quindi, il rigetto del primo, del secondo e del terzo motivo di ricorso.

12.- Parimenti infondato è il quarto motivo di ricorso, che investe l’accertamento della sussistenza della “colpa grave”, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto, che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre stabilito dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, comma 4. Questa Corte ha ripetutamente affermato (cfr. Cass. n. 9405/2003, Cass. n. 12503/2000, Cass. n. 610/2000, cui adde Cass. n. 19912/2011) che ai fini dell’operatività della norma della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, art. 2, comma 3, lett. a), (e ora dell’analoga previsione contenuta nel D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, comma 3, lett. a)) – che rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre sancito dal comma 1 dello stesso articolo, quando ricorra “colpa grave da parte della lavoratrice” – non è sufficiente accertare la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione contemplata dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, ma è invece necessario – anche alla luce di quanto stabilito nella sentenza della Corte costituzionale n. 61 del 1991 – verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla disciplina pattizia per generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto. Ed ha ribadito, con le citate sentenze, che l’accertamento e la valutazione in concreto della prospettata colpa grave si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici o giuridici.

13.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che “l’inquadramento di una qualunque condotta in una o altra fattispecie giuridica è compito del giudice, che certo non viene limitato dai richiami normativi eventualmente fatti dal datore di lavoro nella lettera di contestazione e di licenziamento” e che “ciò che rileva, infatti, è che esattamente sia descritto l’addebito, ovvero il fatto”, trattandosi, in definitiva, di verificare il contenuto obiettivo della mancanza per accertare se sussista l’ipotesi prevista dalla legge quale giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo.

14.- Alla luce dei principi di diritto enunciati, la sentenza impugnata – che ha accertato la sussistenza in concreto della “colpa grave”, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro – non merita, dunque, le censure che le sono state mosse con il quarto motivo di ricorso, anche sotto il profilo del vizio di motivazione.

15.- Al riguardo, vale rimarcare che, come questa Corte ha costantemente ribadito, il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito – poichè in questo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione – ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione (cfr. ex plurimis, Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 18885/2008, Cass. n. 6064/2008). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità (art. 360 c.p.c., n. 5) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata; che una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

16.- Nella specie, la ricorrente, lungi dal denunciare, indicandole precisamente, lacune o contraddizioni logiche nella motivazione che sorregge l’accertamento di fatto sul quale è fondata la decisione impugnata, propone inammissibilmente (nell’ultima parte del motivo di ricorso) un diverso giudizio valutativo dei medesimi fatti e prospetta (nella prima parte) una diversa ricostruzione interpretativa della volontà espressa nella lettera di licenziamento, senza tuttavia trascriverne integralmente il contenuto (con violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione). ***** restando i rilievi che precedono, e che assumono già valore decisivo e assorbente ai fini del rigetto del quarto motivo, va rilevato, infine, che la doglianza della ricorrente in ordine alla erronea applicazione da parte del giudice d’appello del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato appare comunque infondata, atteso che questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 25140/2010, Cass. n. 10009/2003) ha ripetutamente affermato il principio secondo cui sussiste vizio di “ultra” o “extra” petizione ex art. 112 c.p.c. quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda o delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti.

17.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato con la conferma della sentenza impugnata, restando assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.

18.- Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre i.v.a., c.p.a. e spese generali.

Redazione