Le condotte che non rientrano nel nuovo reato di induzione indebita possono configurare l’estorsione (Cass. pen. n. 16566/2013)

Redazione 12/04/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Torino con sentenza del 17/4/2012 in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Cuneo del 30/10/2010 nei confronti di C.M. e M.G. confermava la condanna del primo per due reati di concussione (capi d ed e), la condanna del secondo per un reato di concussione (capo e), escludendo l’aggravante contestata ma aumentando la pena in accoglimento dell’appello del PM; assolveva C. da due reati di concussione (capi a e b) e, in accoglimento dell’appello del PM e della parte civile, condannava entrambi gli imputati per il reato di concussione di cui al capo f) con le conseguenti statuizioni civili.

C.M., nel periodo di riferimento dei fatti di cui appresso, era tenente colonnello della Guardia di Finanza in servizio dapprima presso il comando regionale Piemonte quale capo ufficio operazioni, poi presso il comando regionale Liguria; M. G. è un imprenditore in rapporti con il C. e che concorreva con il predetto militare in alcuni episodi in cui venivano avvicinati imprenditori per richieste di denaro.

Le indagini partono dalla vicenda dell’arresto in flagranza in data 24 ottobre 2006 del tenente colonnello C. in possesso della somma di Euro 25.000,00 appena ricevuta dagli imprenditori T. e S. che avevano effettuato il pagamento di intesa con la polizia giudiziaria cui avevano denunciato la condotta concussiva dell’ufficiale.

Da questo fatto si giungeva ad accertare una serie di vicende che di seguito si sintetizzano sulla base di quanto ritenuto dalla sentenza di appello e nel suo ordine di esposizione:

vi sono innanzitutto le vicende della presunta concussione in danno dei L.. Per tali fatti vi era stata condanna in primo grado del C. e, poi, l’assoluzione in secondo grado; la Corte d’Appello, però, valorizza tale vicenda perchè la ritiene utile per ricostruire la complessiva condotta del colonnello C. in quanto permette “… di inquadrare la figura dell’imputato anche al fine di meglio comprendere quanto successo in occasione delle altre vicende processuali … cioè che C.M. è soggetto palesemente incline ad accreditarsi di sua esclusiva iniziativa presso imprenditori piemontesi, meglio se di consistente caratura economica e/o finanziaria, onde riceverne denaro”.

Erano stati contestati due reati di concussione in danno di L. V. perchè il C., abusando della propria qualità, in un caso si faceva dare da tale imprenditore, nell'(omissis), la somma di Euro 2000,00 o 3000,00 proponendogli la partecipazione ad una cena elettorale finalizzata alla raccolta di fondi per un imprecisato uomo politico ed in un altro caso prospettava allo stesso L. la sua conoscenza della situazione fiscale delle sue società, gli offriva suggerimenti su una gestione più adeguata per evitare controlli fiscali e prospettava le modalità di suoi possibili interventi a favore, attesa la propria qualità di ufficiale della GdF, chiedendogli immediatamente una somma tra Euro 15 e 20.000,00. L.V. gli aveva poi consegnato Euro 15.000,00 nel (omissis).

La Corte d’Appello, dopo aver ampiamente motivato in ordine all’effettiva sussistenza dei fatti ritenendo infondata la versione difensiva, tuttavia riteneva non configurabili i reati contestati in quanto non vi era mai stata alcuna minaccia di conseguenze dannose perchè il C. aveva prospettato dei vantaggi; pertanto era esclusa l’ipotesi di concussione o altri reati ricompresi nella stessa contestazione in fatto.

Per la contestazione di cui al capo e) C. e M. sono stati condannati in primo e secondo grado per concussione in concorso.

Secondo il capo di imputazione, il M., prima del (omissis), aveva contattato P.F., medico dentista, legale rappresentante di alcune società, sindaco del comune di (omissis) per un dato periodo di tempo; aveva rappresentato al P. che vi era un’indagine della Procura Militare di Torino a carico di un suo amico, il colonnello della Guardia di Finanza G.A.; riferiva che era molto probabile l’arresto del militare, situazione che poneva problemi per gli amici del medesimo G. e, quindi, per il P., che sarebbe stato convocato per testimoniare. In un successivo incontro dopo il (omissis) M. riferiva al P. che il C. intendeva parlargli per cui si recavano presso la sua abitazione in (omissis) ove il C. confermava al P. della indagine in corso a carico di G. e del fatto che lui avrebbe dovuto essere sentito quale testimone. Ancor successivamente, prima della (omissis), i due imputati si erano recati presso lo studio dentistico del P. in (omissis) e, ribadito quanto già detto in precedenza, gli confermavano che avrebbe dovuto testimoniare e che sarebbe stato sottoposto a verifiche fiscali, cose che loro, però, avrebbero potuto impedire in cambio del pagamento della somma di Euro 50.000,00. Così intimidito il P., questi, per evitare la verifica ed il coinvolgimento nell’inchiesta, effettivamente consegnava la predetta somma.

La Corte riteneva la vicenda provata essenzialmente in base alle dichiarazioni del P.. Larga parte della motivazione si incentrava sulla valutazione della sua attendibilità a fronte delle forti contestazioni da parte dei due imputati che negavano assolutamente l’episodio concussivo e giustificavano diversamente i rapporti con la presunta vittima.

La Corte, in risposta agli specifici motivi di appello, valorizzava quali elementi di conferma della veridicità delle accuse del P.:

– l’intercettazione ambientale in cui il C., parlando con i responsabili della società B., T. e S., parti lese della concussione di cui al capo d), diceva loro che il tenente colonnello G. era in “grossissimi guai” e che chi aveva avuto a che fare con lo stesso “non passerà delle giornate serene”. – Le effettive indagini a carico del colonnello G., comprovate dei documenti acquisiti in corso di processo sull’esposto anonimo e la delega di indagini, nonchè le dichiarazioni del medesimo che confermavano le circostanze e i suoi contatti con il P. dopo che questi era stato avvisato di tali indagini.

– Valutava gli argomenti della difesa per affermare la falsità dell’accusa ma riteneva infondate sia le ragioni del possibile intento calunniatore che gli argomenti per dimostrare la impossibilità di circostanze di fatto quali l’incontro in (omissis) in casa del C. e la disponibilità di Euro 50.000,00 in contanti.

Sul piano della ricostruzione in diritto, la Corte osservava che la idoneità dell’azione del pubblico ufficiale, con il concorso del privato, ad incutere timore nei confronti del soggetto passivo era chiaramente sussistente in questo episodio in quanto al P. era stata prospettata la conseguenza dannosa del coinvolgimento in un procedimento penale per i suoi rapporti con l’imputato, conseguenze sia sul piano della sottoposizione a verifica fiscale delle sue aziende che del rischio di perdere il rapporto contrattuale con le pubbliche amministrazioni.

Per tale vicenda, quindi, la Corte confermava la condanna,salvo l’esclusione dell’aggravante dell’ingente danno patrimoniale ritenendo che, in base ad una valutazione sia oggettiva e soggettiva, l’importo in questione non fosse di particolare rilievo.

La contestazione di cui al capo F) riguarda una concussione contestata sia a C. che a M..

Secondo l’accusa M. aveva riferito all’imprenditore A. O. di poterlo aiutare a seguito del sequestro di un suo cantiere edile per una nuova costruzione; successivamente gli aveva mostrato un documento da cui risultava una richiesta di rogatoria internazionale svizzera avente ad oggetto notizie sulla società Porta Rossa, facente capo al medesimo A., anche in questo caso prospettandogli un possibile aiuto rispetto ai problemi che avrebbe potuto avere a causa di tali indagini. M., quindi, faceva incontrare A. con il C. e quest’ultimo, presentandosi quale comandante del nucleo valutario della Guardia di Finanza, si offriva sia di intervenire per assumere informazioni presso le autorità elvetiche che per evitare accertamenti fiscali sulle sue imprese ma che per questa ragione l’imprenditore gli avrebbe dovuto corrispondere la somma di Euro 300.000,00.

Poichè A. rifiutava di accettare, M. chiedeva comunque, quale rimborso spese, la somma di Euro 10.000,00, effettivamente corrisposta.

Per questa contestazione il Tribunale aveva assolto i due imputati valutando la esistenza di una loro tesi alternativa quanto ai rapporti con A. e la insufficienza degli elementi che dovevano confermare le accuse di A..

Il Tribunale osservava che, pur se esisteva effettivamente la richiesta di rogatoria di cui sopra, non vi era certezza dell’uso di tale documento per le finalità indicate dalla persona offesa così come non vi era conferma della prospettazione del possibile aiuto contro eventuali accertamenti tributari nè vi era prova del passaggio di denaro. Difatti non vi era corrispondenza tra le date indicate inizialmente dall’ A. e la data della rogatoria in questione; in più, nel corso delle dichiarazioni dibattimentali, data degli incontri e data di esibizione della rogatoria venivano modificati.

Inoltre il Tribunale valutava negativamente il fatto che A. nelle prime dichiarazioni non avesse parlato della consegna agli imputati della somma di Euro 10.000,00 e di altre importanti circostanze riferite solo in seguito.

Quindi, pur non smentendo di per sè l’attendibilità della persona offesa, il Tribunale riteneva che gli elementi contrastanti con le sue dichiarazioni non consentissero di ritenerle idonee a provare l’accusa.

La Corte d’Appello, invece, condannava i ricorrenti a seguito dell’appello del PM, valutando diversamente le prove ed individuando errori dei giudici di primo grado:

In particolare, affrontava in modo dettagliato il tema della attendibilità delle dichiarazioni dell’ A., anche in riferimento alle possibili ragioni di un suo malanimo nei confronti del M. e del C. che potesse giustificare delle accuse false, ma escludeva che le circostanze allegate potessero rappresentare un motivo di calunnia. Non rilevava, perciò, ragioni intrinseche di esclusione dell’attendibilità del testimone persona offesa.

La Corte, inoltre, riteneva che erroneamente la sentenza di primo grado avesse particolarmente valorizzato le incoerenze delle dichiarazioni dell’ A., alla luce di elementi, fattuali e logici, di contrasto.

– Innanzitutto, la persona offesa pur con confusione nella memoria, era precisa nella concatenazione dei fatti, aveva comunque fatto sempre riferimento agli stessi avvenimenti senza in alcun modo mutarli, tranne per la vicenda relativa al pagamento di Euro 10.000,00.

Tale circostanza era stata però dimenticata soltanto in una prima occasione ma subito riferita in sede di escussione innanzi al pubblico ministero in fase di indagini. Lo stesso dichiarante (pag.

85 della sentenza di appello dove nell’ultimo capoverso è riportata una sua dichiarazione pur se erroneamente attribuita al M.) spiegava in modo convincente le ragioni di non aver inizialmente riferito della circostanza del pagamento di Euro 10.000,00 chiestigli in una successiva occasione rispetto a quella in cui aveva rifiutato il pagamento della maggior somma di Euro 300.000,00 quando M. gli rappresentò che avevano sostenuto delle spese per far arrivare il foglio della rogatoria. Riferisce, quindi, che nella prima occasione aveva temuto di esporsi a possibili vendette del M. che appariva persona influente ma, poi, era stato convinto dal pubblico ministero a riferire tutte le vicende. Inoltre, osserva la Corte, nella prima dichiarazione il ricorrente non poteva non aver timore di conseguenze negative per aver pagato una consistente somma in relazione al compimento di atti dell’amministrazione.

Anche l’altra apparente reticenza del dichiarante nelle prime dichiarazioni alla p.g., quella relativa alla circostanza che gli era stata prospettata la possibilità di un aiuto contro eventuali accertamenti fiscali, era stata solo iniziale perchè A. ne aveva parlato subito dopo al pubblico ministero. Anche in questo caso, quindi, sostanzialmente si trattava di circostanza di per sè irrilevante ai fini della valutazione di attendibilità.

Quanto, infine, alla contestazione che pur dopo queste vicende i rapporti con il M. erano proseguiti, appariva adeguata la giustificazione offerta dalla persona offesa nel senso che, attesa l’evidente posizione di forza esercitata dal M., non era persona che si potesse liberamente “mandare via”.

La Corte di Appello rilevava inoltre la significatività della circostanza relativa all’effettivo svolgimento di una rogatoria che coinvolgeva la società della persona offesa; si trattava di una circostanza che rendeva particolarmente credibile l’approccio nei confronti dell’ A., corrispondendo pienamente alla condotta tenuta negli altri casi, ovvero sfruttare una notizia vera per creare una condizione di timore nei confronti del destinatario delle pressioni per indurlo alla corresponsione di somme di denaro.

Inoltre la Corte osservava che, in base alla documentazione acquisita, il documento attestante la richiesta di rogatoria, riconosciuto dalla persona offesa, aveva, nella copia proveniente dal comando della Guardia di Finanza, la annotazione con la sigla del C., così smentendo la versione di costui che sosteneva di non aver mai avuto cognizione di quell’atto facendo riferimento alla diversa copia allegata in atti sulla quale, invece, non era apposta la sua sigla.

Un ultimo riscontro esterno, non valutato adeguatamente dal Tribunale, era una intercettazione ambientale di un colloquio tra C.M. e S.G. in cui il primo, in riferimento all’ A., diceva di averlo aiutato.

La Corte, in conclusione, ritenuto l’errore di valutazione fatto dal giudice di primo grado, giungeva alla diversa conclusione della piena prova dei fatti contestati.

Passando alla valutazione in diritto, la Corte di Appello riteneva dimostrata la condizione di abuso di autorità e poteri che aveva ingenerato il timore della persona offesa. I due ricorrenti avevano affrontato l’imprenditore in una fase di sua debolezza nel momento in cui era stato disposto il sequestro del suo cantiere edile; avevano poi manifestato la propria forza nei rapporti interni alla Amministrazione competente ostentando la loro conoscenza della vicenda della rogatoria ed avevano fatto chiara allusione a future verifiche fiscali rispetto alle quali appariva quanto mai opportuno tutelarsi pagando il colonnello C.. In questo caso, notava la Corte, non si trattava tanto di offrire un vantaggio quanto di prospettare il pericolo di un maggior accanimento nelle attività di verifica fiscale. Il complesso delle dichiarazioni della persona offesa, del resto, dimostrava come costui avesse chiaramente percepito tale timore per cui, pur declinando l’offerta di un ipotetico aiuto pagando la maggior cifra richiesta, accettava supinamente di corrispondere Euro 10.000,00. Ciò faceva ritenere corretta la configurazione in diritto della condotta quale concussione.

Il capo d) è contestato al solo C.. In sintesi, secondo l’accusa, costui il 13 od il 14 settembre 2006 si recò presso gli uffici della ditta Biesse spa, gestita in concreto da T.L. e S.G., chiedendo di visionare il processo verbale di constatazione del 14 luglio 2006 redatto dal nucleo regionale di polizia tributaria di Torino che aveva accertato delle irregolarità che comportavano pesanti sanzioni pecuniarie. Il C., quindi, dichiarava di poter intervenire contro tale accertamento e, in una successiva visita, proponeva una vera e propria immunità per quattro anni dalle verifiche chiedendo la cifra anticipata di Euro 330.000,00 per l’intero periodo. In occasione di ulteriori incontri, riduceva la richiesta ad Euro 130.000,00 recandosi il (omissis) a prelevare la somma di Euro 25.000,00 in acconto; in tale occasione, come sopra già detto, grazie alla denunzia che era già stata presentata dalle persone offese, veniva arrestato in flagranza.

Anche qui la prova era innanzitutto data dalle dichiarazioni delle persone offese, in particolare dal S.G. che riferiva come il C. fosse stato portato da lui dal cugino S. G. e di come lo stesso avesse prospettato il suo ruolo nella Guardia di Finanza e le sue conoscenze politiche per poi, secondo le condizioni già dette, offrire la protezione. Seguivano vari incontri per le perplessità manifestate dalle persone offese, con reiterazione, come detto, delle minacce. Perciò T. e S. avevano denunciato i fatti, per cui erano state disposte intercettazioni ambientali in occasione degli ulteriori colloqui con C. e vi era stato l’episodio finale della consegna “controllata” del denaro e dell’arresto.

Globalmente, la Corte esaminava le varie obiezioni della difesa per sostenere anche in questo caso la diversa realtà dei fatti ma ribadiva la attendibilità piena delle persone offese trovandovi corrispondenza sia nelle intercettazioni che nella condotta in sè della ricezione dei soldi il (omissis).

Nella ricostruzione in diritto della vicenda, la Corte confermava la configurabilità di una ipotesi di concussione. Le stesse modalità delle richieste, effettuate approfittando della situazione di sostanzialmente minorata difesa degli imprenditori a fronte di un accertamento fiscale per un notevole importo, avevano consentito al C. di rivolgere una forte richiesta di denaro, in condizioni tali da apparire di per sè una condotta intimidatoria.

La Corte, in ordine al complessivo trattamento sanzionatorio per tutti i reati, posti in continuazione, escludeva innanzitutto l’applicabilità delle attenuanti generiche e, valutate le circostanze dei fatti, accoglieva l’appello del pubblico ministero anche in riferimento alla determinazione della pena base, innalzata rispetto alla condanna in primo grado. Riteneva, inoltre, di dover applicare anche la sanzione accessoria, prevista dall’art. 33 c.p.m.p., della degradazione del C..

Infine, in accoglimento dell’appello della parte civile A., disponeva il risarcimento dei danni in suo favore ed il pagamento della provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 50.000,00.

Entrambi gli imputati hanno presentato ricorso avverso tale sentenza a mezzo dei propri difensori.

Ricorso M..

Il primo motivo contesta la illogicità e la contraddittorietà della motivazione nonchè la violazione dell’art. 494 cod. proc. pen., in riferimento alla contestazione di concussione di cui al capo e) (vicenda P.) assumendo che la motivazione non teneva conto delle circostanze che dimostrano la inattendibilità della persona offesa. Indica in particolare:

– le circostanze impossibili su orar e tempi del presunto incontro presso l’abitazione del C. in Torino, smentita dagli accertamenti sull’utilizzazione dei telefoni cellulari ed in assenza di indagine sulla posizione geografica del telefono cellulare del P.;

– le indicazioni erronee che P. dava sulla abitazione del C. descrivendo un alloggio in cui solo successivamente il C. si trasferiva;

– la scarsa plausibilità delle ragioni della richiesta di denaro in quanto la stessa persona offesa aveva riferito che il colonnello G. smentiva di essere sottoposto a procedimento penale e non ci poteva essere ragione per indurre il P. a versare Euro 50.000,00;

– la assenza di elementi di conferma delle modalità di reperimento da parte del P. della somma di Euro 50.000,00 in contanti sulla quale, peraltro, la persona offesa rendeva dichiarazioni diverse nelle varie occasioni.

Con il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 317 cod. pen., nella configurazione della vicenda di cui al capo e) quale concussione. Il fatto, come ritenuto in sentenza, non denota alcun esercizio abusivo della qualità o funzione perchè il C. non aveva prospettato conseguenze pregiudizievoli; il timore della persona offesa era di poter essere coinvolto nel procedimento penale che riguardava il colonnello G. e non di subire conseguenze pregiudizievoli per la condotta prevaricatrice del pubblico ufficiale.

Il fatto come accertato potrebbe essere, tutt’al più, ritenuto integrare un’ipotesi di millantato credito in quanto la persona offesa era stata indotta a versare una somma con la falsa rappresentazione di una situazione pregiudizievole e della possibilità dei ricorrenti di comprare il favore di altri pubblici ufficiali.

Con terzo motivo deduce la illogicità e contradditetà della motivazione e la violazione dell’art. 494 cod. proc. pen., in relazione al concorso in concussione di cui al capo f) (vicenda A.).

Anche in questa vicenda, a fronte della denunzia tardiva della persona offesa, non si era tenuto conto di elementi di contraddittorietà. Rispetto all’assoluzione in primo grado, la Corte di Appello ha solo rivalutato le medesime prove senza individuarne altre.

Non ha considerato l’intrinseca contraddittorietà della circostanza che la richiesta da Euro 300.000,00 sia scesa a Euro 10.000,00 con un pagamento giustificato dal “levarsi di torno” il M..

Erroneamente la Corte ha escluso che non vi fosse stato un contrasto tra le parti in relazione ad operazioni immobiliari.

Non ha tenuto adeguatamente conto della contraddittorietà della persona offesa che solo in sede di esame dibattimentale aveva affermato di aver pagato la somma di Euro 10.000,00.

Non ha spiegato perchè, pur ammettendo che il C. avesse avuto conoscenza della rogatoria svizzera, costui dovesse averne parlato alla persona offesa. Peraltro i giudici di primo grado avevano ritenuto che la cronologia dei fatti narrati da A. confliggesse con i tempi risultanti documentalmente quanto alla data di pervenimento della rogatoria e di tale errore, evidenziato dai giudici di primo grado, la sentenza di appello non da conto.

Ha erroneamente interpretato l’intercettazione ambientale del 19 ottobre 2006 in quanto il C. non riferisce di aver aiutato A. bensì il cugino del S..

Con quarto motivo deduce la violazione di legge in relazione all’art. 317 cod. pen., per aver qualificato il fatto di cui al capo f) come concussione. Vi era stata la trattativa paritaria tra persona offesa ed imputati tanto che A. aveva deciso di non accettare le loro pretese e di tagliare i ponti versando la minor somma da loro richiesta a titolo di rimborso spese. Nelle stesse dichiarazioni della persona offesa non emerge alcuna condizione di indebita pressione.

Con quinto motivo, (indicato nel ricorso erroneamente quale sesto), deduce l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione per la negazione delle attenuanti generiche e per l’innalzamento della pena base, avendo la sentenza valorizzato elementi generici e, comunque, valutati due volte, prima per negare le attenuanti generiche e poi per aumentare la pena.

La difesa ha depositato motivi nuovi in data 8 febbraio 2013:

con primo motivo deduce la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., nonchè il vizio di motivazione per la ritenuta credibilità della testimonianza della persona offesa P.. Al riguardo svolge ulteriori argomenti a sostegno della questione già posta con il ricorso.

Con secondo motivo deduce la mancanza ovvero illogicità della motivazione in ordine al rigetto delle richieste di rinnovazione del dibattimento formulata nei motivi di appello. Osserva che erroneamente la Corte non aveva inteso acquisire la documentazione contabile e le dichiarazioni dei redditi della persona offesa, ritenendo prova adeguata della sua disponibilità di fondi neri quanto emergente dalla sentenza di applicazione pena nei suoi confronti per bancarotta fraudolenta per distrazione. Medesimo vizio rileva quanto al rigetto della richiesta di integrazione probatoria con la quale si intendeva acquisire la copia dei procedimenti penali a carico del tenente colonnello G..

Ancora, rileva la erroneità della mancata acquisizione dei tabulati telefonici delle utenze cellulari in uso al P. che potevano dimostrare in negativo le circostanze relative all’incontro in (omissis) del (omissis) e della mancata audizione del testimone Ma.Pi., indicato dalla difesa per dimostrare i movimenti di M. nel giorno citato.

Con terzo motivo deduce l’insussistenza del delitto contestato al capo e) ed in subordine la diversa qualificazione del reato da derubricarsi in induzione indebita a dare o promettere utilità ai sensi dell’art. 319 quater c.p., introdotto dalla L. n. 190 del 2012.

La difesa, nel ribadire gli argomenti già svolti Quanto alla assenza di una costrizione da parte del pubblico ufficiale nei confronti del P., rileva che la condotta, a ritenerla comunque penalmente rilevante, andrebbe qualificata o quale millantato credito ovvero quale condotta rientrante nella ipotesi di cui all’art. 319 quater cod. proc. pen.: osserva che la nuova fattispecie criminosa è caratterizzata dall’assenza di condotta coercitiva e sarebbe integrata invece dall’esercizio di una pressione psichica idonea a determinare il soggetto passivo alla dazione o alla promessa. Nel caso di specie, tale era la condizione psicologica del privato il quale intendeva perseguire il proprio vantaggio costituito dal non dover deporre quale testimone ed esporsi conseguentemente allo “strepitus fori”.

Con quarto motivo deduce la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., nonchè il vizio di motivazione per la ritenuta credibilità della testimonianza della persona offesa A.. Al riguardo svolge ulteriori argomenti a sostegno della questione già posta con il ricorso principale.

Con quinto motivo deduce l’insussistenza del delitto contestato al capo f) ed in subordine la diversa qualificazione del reato da derubricarsi quale induzione indebita a dare o promettere utilità ai sensi dell’art. 319 quater cod. pen., introdotto dalla L. n. 190 del 2012.

Oltre a sostenere gli argomenti già svolti, rileva che, nel corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado, l’ A. aveva più volte precisato di non essersi mai sentito intimorito dalle richieste del M. e di avergli consegnato i 10.000,00 Euro soltanto per toglierselo di torno. Inoltre, dalle risposte date durante l’esame dibattimentale, si comprendeva come A. non avesse mai avuto timore degli imputati. Il rifiuto del pagamento era dovuto alla eccessività della somma e non alla sua illiceità, avendo A. manifestato comunque interesse ad ottenere l’aiuto promesso. Del resto, il pagamento di Euro 10.000,00 conseguiva alla accettazione del rimborso delle spese comunque sostenute dai ricorrenti. Pertanto, anche in questo caso, i fatti potevano essere configurati o come millantato credito ovvero come reato di cui all’art. 319 quater cod. pen..

Con sesto motivo pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 603 cod. proc. pen., in relazione all’art. 117 Cost., comma 1 ed all’art. 6, paragrafo 1 della Conv. Eur. Dir. Uomo.

Osserva che la responsabilità del ricorrente M. è stata affermata, dopo che lo stesso era stato assolto in primo grado per insussistenza del fatto, in base alla mera rivalutazione della prova testimoniale senza nuova escussione dei testi, quindi in contrasto con i principi fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 5.7.2011 “************”. Osserva perciò che, atteso l’obbligo per il giudice nazionale di interpretare le norme interne esistenti in conformità ai principi affermati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, vada ritenuto il contrasto insanabile tra norma interna e norme richiamate; l’art. 603 cod. proc. pen., va quindi ritenuto incostituzionale in quanto non impone l’obbligo di ripetizione delle prove ai fini del “ribaltamento” della sentenza di assoluzione su appello del pubblico ministero.

Con settimo motivo deduce la illogicità della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio in quanto esclude un’aggravante ma aumenta la pena base,negando le attenuanti generiche ad un ultrasessantenne.

Ricorso C.:

con primo motivo deduce la contraddittorietà intrinseca della motivazione in relazione alla contestazione di cui al capo e) (vicenda P.) che emerge in particolare dalla incompatibilità di orari tra i risultati dei tabulati e le dichiarazioni del P. in ordine all’Incontro in (omissis) del (omissis) tra ricorrenti e persona offesa ed all’incontro di M. con P. in prossimità del (omissis).

Inoltre, attesi gli aggiustamenti fatti dalla Corte di Appello per fare concordare la versione del P., modificando la presunta data di incontro in Torino rispetto a quanto indicato nel capo di imputazione e quanto accertato dalla sentenza di primo grado in base a dati oggettivi, circostanza che non era oggetto di gravame, la sentenza non rispetta i principi in materia di devoluzione e di contestazione del fatto.

Altro elemento di forte contraddizione riguarda la erronea indicazione da parte della persona offesa del luogo di incontro, ovvero l’abitazione del C..

In via generale, la Corte non ha tenuto conto della pluralità di contraddizioni nella descrizione di circostanze di tempo dell’incontro.

Erroneamente, inoltre, la Corte ha ritenuto dimostrata la dazione di Euro 50.000 sulla scorta della sola dichiarazione del P. senza alcuna altra prova a sostegno di tale circostanza.

Erroneamente la Corte ha valutato le dichiarazioni del teste Pa., indicato dalla difesa ma utilizzato contro il ricorrente.

Erroneamente la Corte, nel valutare l’attendibilità del P., non ha tenuto conto del vari interessi di cui lo stesso è portatore, economici e non, che giustificavano la affermazione di circostanze false.

Introduce quale vizio logico anche il mancato accoglimento della richiesta di riapertura del dibattimento finalizzata a dimostrare la disponibilità da parte del C., nel periodo in questione, di abitazione diversa da quella descritta dalla persona offesa ed a verificare la contabilità del P. e la effettiva possibilità per lo stesso di avere una provvista in contanti di Euro 50.000,00.

Con secondo motivo deduce, in relazione alla contestazione di cui al capo d), la violazione di legge quanto alla corretta qualificazione giuridica delle condotte e vari profili di contraddittorietà ed illogicità della motivazione.

Anzitutto, osserva che a fronte della chiara riserva mentale delle presunte vittime non vi è stata alcuna loro intenzione di promettere effettivamente il pagamento delle somme richieste, tanto che la consegna della somma di denaro era un pagamento simulato concordato con la polizia giudiziaria. Essendovi stata denuncia dei fatti prima della promessa, non si poteva ritenere perfezionato il reato integrato, se del caso, solo a livello di tentativo.

In conseguenza, poi, la difesa pone il tema della stessa idoneità degli atti ad integrare il tentativo per l’immediatezza della riserva mentale di non cedere alle presunte pressioni estorsive.

Deduce, ancora, la omissione di valutazione della attendibilità delle persone offese che avevano interesse a modificare le proprie dichiarazioni al fine di escludere la propria responsabilità per l’ipotesi di corruzione. La conversazione ambientale del 24 ottobre 2006, utilizzata in modo erroneo dalla Corte d’Appello, comprende una parte in cui il ricorrente dice espressamente che era stato Sa. G., cugino di S.G., ad invitarlo a “dare una mano” ai titolari della Biesse. La Corte, invece, di questa intercettazione ha adottato una interpretazione radicalmente contraria a quanto emergente dal suo testo.

Con terzo motivo deduce, in relazione alla contestazione di cui al capo f), vari profili di contraddittorietà ed illogicità della motivazione nonchè di violazione di legge.

Innanzitutto la Corte ha omesso di valutare una serie di prove che smentiscono l’attendibilità del teste A.. In particolare:

– le prove da cui emerge l’interesse dell’ A. all’acquisto immobiliare per il quale erano intervenuti gli imputati.

– Le prove da cui emerge che A. aveva detto che la rogatoria “era ormai chiusa” così dimostrando di essere altrimenti a conoscenza delle relative vicende.

Deduce poi il difetto di correlazione tra contestazione e sentenza, non essendo integrato il reato di concussione, in quanto il diverso fatto accertato, la consegna della somma di Euro 10.000,00 e non di quella richiesta di Euro 300.000,00 non era il completamento dell’azione criminosa come descritta ma, dopo il fallimento della trattativa, rappresentava semplicemente una sorta di richiesta risarcitoria per le pretese spese anticipate.

Si è pertanto in presenza di una trasformazione radicale della contestazione con conseguente incertezza dell’oggetto della imputazione cui è seguito il pregiudizio dei diritti della difesa che non ha avuto modo di difendersi sulla nuova contestazione.

In ogni caso, non vi è stata la consumazione del reato che la stessa persona offesa aveva impedito con il rifiuto alla prosecuzione della trattativa avendo lui stesso affermato che la questione della rogatoria era ormai chiusa.

Con quarto motivo deduce l’illogicità della mancata applicazione delle attenuanti generiche, rigetto fondato su argomentazioni contrarie a quelle che hanno portato all’esclusione della aggravante contestata.

Inoltre gli stessi argomenti sono stati utilizzati sia per giustificare la misura maggiore della pena che per negare le attenuanti, palese inammissibile duplicazione della valutazione dello stesso elemento.

Con quinto motivo deduce l’errore della applicazione da parte del giudice ordinario della sanzione accessoria della degradazione ai sensi del codice militare di pace. Si tratta di una sanzione accessoria ontologicamente diversa rispetto alle sanzioni accessorie comuni tanto che, per la stessa, non opera la riabilitazione ordinaria bensì la sola riabilitazione militare; quindi, deve essere la stessa Autorità Giudiziaria che deve procedere in fase di applicazione ed in fase di riabilitazione e non può che essere il giudice militare.

Il difensore ha depositato in data 20 febbraio 2013 motivi ex art. 611 cod. proc. pen., con i quali svolge argomenti in ordine all’essere le condotte ascritte inquadrabili nella nuova fattispecie introdotta dalla L. n. 190 2012 con l’art. 319 quater cod. pen., ed essere comunque tale del fattispecie integrata solo a livello di tentativo.

Motivi della decisione

I ricorsi vanno accolti limitatamente alla qualificazione giuridica dei fatti di cui ai capi d) ed e) alla luce della nuova disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione nonchè per nuovo esame del profilo della consumazione per il capo d).

I due ricorsi possono essere esaminati congiuntamente perchè propongono motivi simili.

Capo e) (vicenda P.).

A tale reato sono riferiti il primo motivo, nonchè il primo ed il secondo motivo aggiunto del ricorso di M. ed il primo motivo del ricorso di C..

Si contesta la presenza di contraddizioni ed errori logici nella motivazione nonchè il difetto di motivazione sul punto del mancato accoglimento della richiesta di riapertura del dibattimento per svolgere attività istruttoria finalizzata a dimostrare la possibilità che il P. potesse disporre della cifra in contanti che dichiara di aver consegnato agli imputati ed ad individuare quale fosse la abitazione in disponibilità del C. all’epoca del preteso incontro in (omissis).

Rileva il collegio che la sussistenza dei fatti è ampiamente e congruamente motivata dalla Corte di Appello che ha svolto anche una attenta analisi dei punti già evidenziati come dubbi dalle difese con i motivi di appello, rilevando come non vi fossero ragione per temere la falsità della versione della persona offesa.

Tali argomenti difensivi vengono ripresi nei ricorsi che li indicano quali contraddizioni della motivazione del provvedimento impugnato.

In sede di legittimità, ovviamente, non è possibile effettuare un nuovo esame ma si deve valutare se vi siano palesi errori nell’apprezzamento di tali elementi che la difesa ritiene di tale contrasto con la tesi del P. da rendere incerta la complessiva ricostruzione.

Ma non si apprezza alcun significativo errore nelle valutazioni della Corte di Appello.

La Corte ha innanzitutto considerato in modo ampio il contesto nel quale valutare l’attendibilità del P., ovvero una serie di condotte analoghe di C. e M. che trovano anche in questa vicenda sostanziale conferma; ha valutato come le indagini sul fatti siano state svolte dopo un rilevante lasso temporale dagli accadimenti e questo, ovviamente, comporta la assoluta normalità di ricordi imprecisi nel riferire di una vicenda alquanto articolata; ha ben motivato sulle ragioni per le quali gli errori e le incertezze delle dichiarazioni della p.o. che le difese segnalano, innanzitutto non sono tali da far ritenere la falsità delle accuse e, comunque, non rendono incerta la ricostruzione dei fatti non toccando in alcun modo le linee di fondo della condotta significativa dei ricorrenti.

Passando ad una analitica considerazione delle singole questioni poste, a parte l’essere fondamentalmente tendenti a rimettere in discussione la complessiva ricostruzione dei fatti e ad ottenere una nuova valutazione delle prove, attività preclusa in sede di legittimità, piuttosto che ad individuare vizi della motivazione, si osserva:

parte delle deduzioni difensive riguarda apprezzamenti di fatto qui insindacabili, laddove si adombra un complessivo dubbio sulla attendibilità dovuto a possibili interessi del P..

In realtà la Corte ha ben affrontato il tema, come si è detto nel quadro di una serie di vicende simili che rende di per sè plausibile quanto narrato dalla persona offesa, ed ha considerato come non ci siano segni di particolari ragioni che possano far dubitare della veridicità delle accuse.

Ha esaminato la portata delle incertezze sul luogo ed il tempo dell’incontro in (omissis) tra P., M. e C. in casa di quest’ultimo, dando adeguata risposta ai dubbi delle difese;

peraltro, al di là della adeguatezza della risposta della Corte di Appello, nello sviluppo delle difese non è ben chiaro da quale elemento fattuale si ritiene provato il momento di reale trasferimento di abitazione di C.. Allo stato, non si evince dal testo del provvedimento impugnato neanche la certezza che lo stato dei luoghi sia diverso da quello descritto dalla persona offesa (si richiama, nei motivi, il verbale di perquisizione che, ovviamente, non può essere oggetto di valutazione). Quanto alla richiesta di riapertura del dibattimento per tale profilo, correttamente la Corte non lo ha disposto senza alcun vizio logico poichè si tratta di circostanza per la quale non era fornito alcun elemento per dimostrarne la decisività e a giustificazione del ritardo nel proporla.

La Corte ha anche considerato, in ragione della perplessità manifestata dai difensori, la plausibilità del pagamento per contanti della somma richiesta al P. dagli imputati, con ragionevoli valutazioni sull’essere compatibile la disponibilità di una tale somma in contanti con le condizioni della persona offesa, anche in ragione di determinate attività illecite dalla medesima svolte.

La plausibilità del possesso di tale somma, in un contesto in cui la Corte non ha trovato ragioni di temere il mendacio del P., ha ampiamente giustificato la scelta dei giudici di merito di non ammettere i mezzi di prova richiesti dalle parti per verificare la circostanza della disponibilità di contanti, ancor di più trattandosi di prova non diretta e non in grado di dimostrare con certezza, in positivo od in negativo, la data circostanza.

Quanto alla osservazione sulla non plausibilità della richiesta di soldi alla p.o. per ragioni che partono, nel ricorso, da “… il colonnello G. smentì di essere perseguito penalmente …”, si tratta di affermazione irrilevante in quanto non è un elemento che contrasta con la complessiva ricostruzione della vicenda. E’ una illogicità solo apparente, consentita dalla arbitraria estrapolazione di un singolo momento di una condotta ben più ampia.

Quanto, invece, alla osservazione del ricorso del C. che si duole della utilizzazione delle dichiarazioni del teste Pa.

che sarebbe inaffidabile, secondo il ricorrente, solo perchè era un teste indicato dalla difesa e, quindi, non credibile laddove rende dichiarazioni contrarie, è affermazione, prima che inammissibile in quanto richiede un apprezzamento contenutistico della prova, di per sè sola manifestamente illogica.

In conclusione, la motivazione in ordine al capo e), già di per sè completa e adeguata a convincere della fondatezza dell’accusa, non trova smentita nelle circostanze, emergenti dal testo del provvedimento, valorizzate dalla difesa quali contraddittorie rispetto alla ricostruzione di responsabilità dei ricorrenti. Sul punto, peraltro, la stessa Corte di Appello, nel rispondere alle medesime perplessità degli appellanti, ha pienamente chiarito la compatibilità della propria ricostruzione con tali circostanze se correttamente ricostruite.

Resta, del motivo sviluppato dal ricorso di C., l’osservazione che, avendo la Corte di Appello indicato una diversa data di incontro in (omissis) rispetto al capo di imputazione ed all’accertamento del giudice di primo grado, vi sarebbe una violazione dei principi in materia di devoluzione e di contestazione del fatto. E’ però agevole osservare come non sia certamente attività preclusa al giudice di appello la parziale diversità di ricostruzione della vicenda su circostanze non essenziali rispetto ai profili significativi della condotta, non essendovi alcuna violazione dei principi in tema di devoluzione. Quanto alla presunta violazione delle norme in tema di corrispondenza tra contestazione e sentenza, non si può parlare di alcuna modifica sostanziale del fatto; anche il profilo dell’accertamento della possibile data dell’incontro in (omissis) è questione sulla quale la parte ha potuto difendersi.

Quindi tutti i motivi relativi a vizi della motivazione per il capo e) sono infondati. Il secondo motivo ed il terzo motivo del ricorso C., unitamente alla deduzione di cui alla memoria depositata dalla difesa del M. in ordine alla qualificazione giuridica della vicenda a seguito della L. n. 190 del 2012, saranno valutati più avanti.

Capo d) (Vicenda T.L. e S.G.).

Il secondo motivo del ricorso C., relativo alla qualificazione del reato sub d) ed a vizi di motivazione per la stessa vicenda, è parzialmente fondato solo quanto alla qualificazione secondo la nuova legge (e se ne parlerà oltre) e quanto al dubbio, non risolto dalla motivazione, su l’essersi in presenza di ipotesi tentata o consumata.

I profili relativi alla motivazione sono manifestamente infondati:

il tema della inadeguata verifica della attendibilità delle persone offese, per come sviluppato, consiste nella richiesta di rivalutazione in fatto, inammissibile in sede di legittimità, non evidenziandosi specifici errori della sentenza impugnata. Non si comprende perchè le persone offese, che avevano denunciato i fatti consentendo l’arresto del C., dovessero temere di essere ritenute responsabili di una corruzione che, se del caso, non era stata realizzata perchè non l’avevano accettata. Quanto alla conversazione intercettata il 24 ottobre 2006, rilevato che la interpretazione della Corte appare pienamente conforme al suo dato testuale, non si rileva il macroscopico travisamento del suo contenuto che consentirebbe il rilievo in questa sede.

Si pone, invece, la questione della consumazione o meno del reato, essendo parte della condotta svolta con il diretto controllo della p.g., sino alla consegna concordata del denaro ed all’arresto in flagranza.

Va premesso in diritto, come, nel reato di concussione (ed in quello del nuovo art. 319 quater c.p., che si vedrà ricorrere nel caso di specie, in quanto la relativa condotta, anche quindi sotto il profilo del momento consumativo, è analoga a quella dell’art. 317 cod. pen.) si ponga, rispetto alla qualificazione della forma consumata o tentata, il caso in cui il privato accetta di promettere con la riserva mentale di rivolgersi alla polizia giudiziaria ed il caso in cui effettivamente il privato si rivolga alla polizia giudiziaria organizzando una consegna controllata del denaro, com’è avvenuto nel caso di specie.

Il caso, affrontato più volte da questa Corte, è stato costantemente risolto come segue:

il reato di concussione (e, si ripete, oggi anche quello di induzione indebita) è consumato con la promessa del pagamento e non con l’effettivo pagamento per cui il fatto che quest’ultimo avvenga sotto il controllo della polizia giudiziaria, senza alcuna possibilità per il pubblico ufficiale di arrivare a detenere in modo autonomo il denaro od altra utilità corrispostagli, non è significativo al fine di ritenere che il reato sia consumato o meno.

Il discrimine è dato, invece, dall’essere intervenuta la denunzia o, comunque, il comportamento teso ad allertare le forze dell’ordine prima o dopo la “promessa”, momento di consumazione del reato.

Quanto alla riserva mentale di futura denunzia, non è dato rilevante in quanto non impedisce, nel frattempo, la conclusione dell’accordo (Sez. 6, n. 20914 del 05/04/2012 – dep. 30/05/2012, Tricarico, Rv. 252786: E’ dunque evidente, nel caso di specie, che la promessa venne effettuata prima della presentazione della denuncia alla Guardia di Finanza, cui fece seguito, l’indomani mattina, la predisposizione dell’appostamento in occasione della consegna all’imputato della prima tranche della somma di denaro richiesta. Al riguardo è noto – secondo l’insegnamento espresso da un pacifico e risalente indirizzo giurisprudenziale, che questa Suprema Corte ritiene ampiamente condivisibile (Sez. 6, n. 11384 del 21/01/2003, dep. 11/03/2003, Rv. 227196; Sez. 6, 10 ottobre 1979, dep. 3 marzo 1980, n. 2972, Rv. 144526; Sez. 6, 5 febbraio 1981, dep. 4 novembre 1981, n. 9803, Rv. 150809) – che nel delitto di concussione la predisposizione dell’azione di polizia con la collaborazione della vittima, allo scopo di sorprendere in flagranza di reato il funzionario disonesto, non assume alcuna rilevanza giuridica allorquando, essendosi verificata in precedenza la promessa, il reato risulti già consumato. Viceversa, solo nell’ipotesi in cui la sequenza abuso – induzione – metus – promessa si arresti prima di quest’ultimo passaggio, che rappresenta il momento consumativo, il reato deve ritenersi tentato e non consumato, sussistendo i presupposti degli atti idonei diretti in modo non equivoco a commetterlo (Sez. 6, n. 10355 del 07/06/2007, dep. 06/03/2008, Rv, 238912). A fronte della su acclarata ricostruzione storico-fattuale, conclusivamente, deve ritenersi del tutto irrilevante la sollecitazione di un intervento della polizia giudiziaria dopo l’effettuazione della promessa, poichè la relativa richiesta del soggetto passivo, in tal caso, è avvenuta successivamente al perfezionamento del reato. Nè, del resto, può tralasciarsi di considerare che la giurisprudenza di legittimità ritiene integrato il delitto di concussione finanche nell’ipotesi in cui la promessa di denaro fatta dal privato al pubblico ufficiale sia sorretta dalla speranza che un efficace intervento delle forze dell’ordine ne impedisca l’adempimento, non potendosi ritenere sufficiente ad escludere il metus publicae potestatis la sola circostanza che il soggetto passivo si sia rivolto alla forze di polizia per sottrarsi alle pretese dell’autore del reato (Sez. 6, 17303 del 20/04/2011, dep. 05/05/2011, Rv. 250066).

Il tema del momento consumativo del reato, nella pur ampia ed accurata motivazione, non risulta affrontato. Ma dal testo della sentenza, in relazione ai principi sopra indicati, risultano circostanze di fatto che rendono plausibile l’ipotesi che la denuncia, con il conseguente intervento della polizia giudiziaria, sia stata presentata prima della promessa: la data della denuncia è indicata nel 7 ottobre e sicuramente dopo questa data sono stati presi gli accordi sulla specifica cifra da consegnare.

Quindi, vi è incertezza sul momento nel quale vi è stata la promessa, non necessariamente coincidente con il momento di determinazione della cifra da versare in “acconto”, e comunque tale momento non è individuato nella sentenza impugnata.

Ne consegue il necessario annullamento con rinvio sul punto perchè, in sede di nuovo giudizio, la Corte di Appello, svolti gli apprezzamenti di fatto di sua spettanza quale giudice del merito nella individuazione del momento di consumazione, nel caso di specie coincidente con la promessa che risulta sicuramente non contestuale al pagamento, determini, in applicazione del principio sopra indicato, se il reato sia stato consumato o restato allo stadio di tentativo con le conseguenze in tema di rideterminazione della pena.

A.V. Capo f).

Per il fatto di cui al capo f), concussione per la quale entrambi i ricorrenti sono stati condannati, vanno esaminati il terzo ed il quarto motivo nonchè il quarto, il quinto ed il sesto motivo aggiunto del ricorso M. ed il terzo motivo del ricorso C. nonchè le deduzioni in sede di memoria difensiva in tema di reato configurabile.

Tali motivi propongono, in ordine logico:

– il tema relativo alla possibilità di usare nel processo di appello che dispone la condanna in riforma della sentenza di assoluzione le medesime prove testimoniali raccolte in primo grado, dando lettura dei relativi verbali. Al riguardo viene sollevato il dubbio di costituzionalità dell’art. 603 cod. proc. pen..

– Il vizio di motivazione sia quanto alla erronea valutazione di attendibilità della persona offesa che a vari profili di contraddittorietà e/o illogicità. – La qualificazione giuridica, sostenendosi innanzitutto che il fatto come accertato non configura alcun reato o che integri il reato di corruzione. E, alla luce della riforma della L. n. 190 del 2012, il fatto andrebbe comunque qualificato quale reato di indebita induzione di cui all’art. 319 quater cod. pen..

Per il reato in questione la sentenza di primo grado assolse entrambi gli imputati. Ai fini delle valutazioni di cui appresso, si devono precisare le ragioni di assoluzione (pagine 83 ed 84 della sentenza di primo grado). Secondo il Tribunale la persona offesa era sostanzialmente attendibile, riconoscendosi che le contraddizioni delle sue dichiarazioni erano dovute ad una confusa memoria nella concatenazione dei fatti e che l’unica circostanza effettivamente inizialmente omessa, la dazione di denaro, trovava ragione negli iniziali timori del teste nel riferire i fatti. Ma il Tribunale rilevava, quale ostacolo alla ricostruzione della responsabilità dei ricorrenti in base a queste accuse, la “parziale smentita” in ordine alle risultanze sulla trattativa per gli immobili della “Lift”.

Su impugnazione del pubblico ministero la Corte di Appello ha invece disposto la condanna di entrambi i ricorrenti utilizzando il medesimo materiale probatorio a disposizione del primo giudice.

Quindi, prima di affrontare le deduzioni in ordine alla adeguatezza della motivazione, vanno chiariti i principi applicabili nel caso in esame, anche al fine di risolvere la questione di legittimità costituzionale posta dalla difesa di M..

Innanzitutto si deve rammentare la regola affermata dalla giurisprudenza di questa Corte in ordine alle condizioni che consentono in sede di appello di pronunciare per la prima volta la condanna dell’imputato. Questo sotto due profili: innanzitutto per esservi due valutazioni giurisdizionali assolutamente difformi del medesimo materiale probatorio e, poi, perchè il soggetto condannato per la prima volta in secondo grado di fatto si vede privato della possibilità di una impugnazione di merito quale spetta al soggetto condannato in primo grado; difatti in tale modo il primo soggetto non può far valere gli errori della decisione che non rientrino nell’ambito di vizi legittimità. Invero una parziale soluzione di tali ultime conseguenze è offerta sia dalla “… lettura dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), condotta nel solco dell’interpretazione estensiva che di essa è stata già data dalla sentenza *********, che ben può dirsi costituire oggi il “diritto vivente” sul tema. Nel senso che, ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione possa e debba fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche (non certo ai motivi d’appello dell’imputato, carente d’interesse all’impugnazione, perciò inesistenti) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice d’appello l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio” che dal recente allargamento del giudizio di legittimità al travisamento della prova anche con riferimento a specifici atti del procedimento (L. n. 46 del 2006). Ma tale allargamento del giudizio di legittimità non supplisce alla mancanza di una impugnazione di merito avverso la prima decisione di condanna.

L’attuale assetto interpretativo, comunque, in assenza di una regola di scissione tra fase rescindente e rescissoria del giudizio di appello, prevede una specifica modalità di motivazione (corrispondente ad una più seria prova di responsabilità) della sentenza di appello che, laddove ribalti la decisione assolutoria di primo grado, non deve soltanto effettuare una logica ricostruzione dei fatti e darne adeguatamente conto della motivazione; ma deve necessariamente confrontarsi in modo quanto mai esplicito con la decisione di primo grado e rilevare se la diversa decisione sia conseguenza di una valutazione alternativa del medesimo materiale probatorio o, invece, di specifici errori, logici o fattuali.

Nel primo caso, difatti, pur se la decisione in sede di appello dovesse apparire convincente, laddove non si possa affermare che la prima sentenza assolutoria non sia di per sè illogica ma soltanto “alternativa” non potrà che ritenersi che vi sia un “ragionevole dubbio” che non può che risolversi in favore dell’imputato (la sua responsabilità non sarebbe dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio).

Nel secondo caso, invece, dovranno essere individuati i punti che rendono insostenibile la decisione di primo grado, per errore di valutazione della prova o per snodi illogici del ragionamento, per omissione di valutazione di elementi fondamentali, quali prove non considerate od erroneamente ritenute inutilizzabili eccetera. In questo caso, difatti, la lettura proposta dalla sentenza di condanna a seguito di appello dovrà essere l’unica decisione possibile alle date condizioni (Sez. 6, n. 1266 del 10/10/2012 – dep. 10/01/2013, *******, Rv. 254024).

Questo è, quindi, il criterio che necessariamente dovevano seguire i giudici di appello nel decidere e motivare la condanna per il capo f) ed il cui rispetto va controllato nel valutare la adeguatezza della motivazione rispetto al vizi logici dedotti dai difensori.

Vi è anche un altro fondamentale aspetto da considerare nel caso di specie con riferimento alla utilizzazione da parte del giudice di appello di una prova orale (dichiarazioni della persona offesa) raccolta davanti al primo giudice: il giudice di appello non ha effettuato un apprezzamento diretto della prova nel suo formarsi ma ha potuto valutare solo i verbali di trascrizione.

La prima sentenza di condanna è quella adottata dal giudice di secondo grado, per cui la decisione non è stata adottata all’esito di un processo basato su oralità ed immediatezza ma all’esito di un processo basato sulla sola valutazione della documentazione. Ed è su questo che è basata la eccezione di incostituzionalità proposta dalla difesa di M. che osserva che l’art. 603 cod. proc. pen., è in insanabile contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come interpretato dalla Corte Edu con la sentenza “Dan contro Moldovia” 5 luglio 2011, in quanto non prevede la obbligatoria nuova acquisizione delle prove orali innanzi al giudice di appello perchè costui, con un diverso apprezzamento delle stesse, possa pronunciare sentenza di condanna.

La questione è manifestamente infondata in ragione della indiscutibile applicabilità nell’ordinamento, in base ad una interpretazione adeguata dell’art. 603 cod. proc. pen., della regola che risulta dalla citata giurisprudenza Cedu.

Riconosciuto, infatti, alle disposizioni della Convenzione Edu il rango di “norme interposte” dell’art. 117 Cost., con conseguente obbligo di adeguamento della normativa interna innanzitutto in via interpretativa, la regola è che “… ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro”.

E, come dopo meglio si chiarisce, è indubbio che il principio di cui alla citata sentenza Cedu è direttamente applicabile con una interpretazione conforme dell’art. 603 cod. proc. pen.. In tale senso questa Corte si è già pronunciata: “E’ manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 603 cod. proc. pen., per contrasto all’art. 117 Cost. e all’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di Appello intenda riformare “in peius” una sentenza di assoluzione dell’imputato. (In motivazione, la Corte ha rilevato che l’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia, impone di rinnovare l’istruttoria soltanto in presenza di due presupposti, assenti nell’ipotesi in trattazione, quindi la decisività della prova testimoniale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell’attendibilità dei testimoni). (Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012 – dep. 02/10/2012, ****** e altri, Rv. 253541)”.

Va quindi affermata l’infondatezza della eccezione di legittimità costituzionale proposta dalla difesa di M. attesa la diretta applicabilità del principio in questione.

Si rende, quindi, necessario, in assenza di precedenti decisioni note di questa Corte, definire la portata del principio dell’art. 6/1 della Cedu quale interpretato dalla sentenza *** contro Moldovia.

Questo il testo della sentenza nella traduzione italiana, per la parte di rilievo “Se una Corte d’Appello è chiamata esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove (vedi Popovici c. Moldavia, nn. 289/04 e 41194/04, p. 68, 27 novembre 2007; ************** c. Romania, n. 28871/95, p. 55, CEDU 2000- 8^ e ************** c. Spagna, n. 17122/07, p. 32, 21 settembre 2010).

31. Tornando ai fatti del presente caso, la Corte osserva che le principali prove contro il ricorrente erano le dichiarazioni testimoniali secondo cui egli aveva sollecitato una tangente e l’aveva ricevuta in un parco. Il resto delle prove erano prove indirette che non potevano condurre da sole alla condanna del ricorrente (vedi paragrafi 13 e 15 supra). Pertanto le testimonianze e il peso dato a esse era di grande importanza per la determinazione del caso.

32. Il Tribunale di primo grado ha assolto il ricorrente perchè esso non ha creduto ai testimoni dopo averli uditi personalmente. Nel riesaminare il caso, la Corte d’Appello ha dissentito dal Tribunale di primo grado sulla attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell’accusa e ha condannato il ricorrente. Nel far ciò, la Corte d’Appello non ha udito nuovamente i testimoni ma si è semplicemente basata sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti.

33. Visto quanto è in gioco per il ricorrente, la Corte non è convinta del fatto che le questioni che dovevano essere determinate dalla Corte d’Appello quando essa ha condannato il ricorrente e gli ha inflitto una pena – e facendo ciò ribaltando la sua assoluzione da parte del Tribunale di primo grado – avrebbero potuto, in termini di equo processo, essere esaminate correttamente senza una diretta valutazione delle prove fornite dai testimoni dell’accusa. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell’attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate (testo originale: The Court considers that those who have the responsibility for deciding the guilt or innocence of an accused ought, in principle, to be able to hear witnesses in person and assess their trustworthiness. The assessment of the trustworthiness of a witness is a complex task which usually cannot be achieved by a mere reading of his or her recorded words)”.

Quindi, per la corretta ricostruzione principio, si rileva:

La Corte Edu interviene in un caso concreto in cui il giudice di primo grado non aveva ritenuto attendibili il testimone principale, che riferiva su tutte le circostanze fondanti l’accusa, nonchè gli altri testimoni che avevano assistito al preteso pagamento della tangente, per difformità delle loro versioni dei fatti.

Il giudice di secondo grado senza una nuova raccolta delle prove ma sulla sola base della lettura delle dichiarazioni rese in primo grado affermava, invece, la piena attendibilità dei medesimi testimoni.

Un tale sistema, secondo tale sentenza, non è conforme alla Convenzione Edu perchè un equo processo comporta che il giudice che deve utilizzare la dichiarazione di un testimone (in modo difforme da altro giudice) deve poterlo ascoltare personalmente e così valutarne la attendibilità.

E’ una regola non di carattere assoluto in quanto tale ascolto diretto deve avvenire “in linea di massima” (“in principle”) perchè “generalmente” “usually”) la semplice lettura non risolve il compito complesso di valutazione della attendibilità del testimone.

La affermazione del carattere non assoluto di un tale principio riguarda il necessario adeguamento al caso e non (solo) la impossibilità di ripetizione della prova orale (per morte, incapacità, irreperibilità).

Il principio che, quindi, può evincersi dalla sentenza in questione è il seguente:

laddove la prova essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non può procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali ma è tenuto a raccogliere nuovamente la prova innanzi a sè per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità, salvo possibili casi particolari (quale può essere un evidente errore del primo giudice che, per esempio, ritenga la testimonianza falsa perchè nega una circostanza che il giudice erroneamente ritenga vera o viceversa). Si tratta, comunque, di una questione di attendibilità intrinseca.

Diverso il caso nel quale il giudice di primo grado non abbia negato l’attendibilità della prova orale e, quindi, non è su questo che si incentra la discorde valutazione del giudice di secondo grado. In tale diverso caso non può ritenersi alcuna necessità di una nuova raccolta della prova non essendovi alcuna divergenza nei due giudizi.

Si tratta di casi in cui, evidentemente, la differente decisione in punto di ricostruzione dei fatti è conseguenza di diverso apprezzamento o mancato apprezzamento di altri elementi probatori, documenti etc. Questo è quanto è avvenuto nel caso di specie in cui il giudice di primo grado non risulta aver negato la attendibilità della persona offesa A. ma ha rilevato che alcuni altri elementi esterni di contrasto della tesi di accusa non consentivano di ricostruire con ragionevole certezza la vicenda così come contestata.

La Corte di Appello, confermando sostanzialmente la valutazione di attendibilità del testimone principale (pur se con maggior attenzione dovendola utilizzare per la affermazione di responsabilità) ha sminuito la portata degli elementi “esterni” di contrasto con la sua versione dei fatti ritenendo l’errore della sentenza di primo grado nell’esaltare tali elementi ed ha, inoltre, valorizzato circostanze non considerate dal primo giudice.

Quindi, nel caso in esame non ricorrevano affatto le condizioni che integrano, alla luce della interpretazione adeguata alla Cedu, la assoluta necessità di nuova audizione dei testimoni ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., comma 3.

Passando poi alla valutazione degli specifici vizi dedotti, vi è innanzitutto il rilievo del ricorso M. quanto ad avere il giudice di appello semplicemente rivalutato in modo diverso le medesime prove.

Per tale rilievo si impone la verifica dell’avere la Corte di Appello seguito le regole suindicate per la condanna in fase di appello dopo l’assoluzione di primo grado; quindi, come detto, va verificato che sia stata offerta non solo la più adeguata ricostruzione dei fatti alla luce degli elementi di prova acquisiti ma anche occorre anche dimostrare che la diversa tesi affermata dalla sentenza di primo grado sia insostenibile.

Si rammenta che il giudice di primo grado, a fronte della affermata attendibilità del testimone di accusa riteneva però un dato esterno di ostacolo alla utile valutazione di tale prova la “parziale smentita” quanto alla vicenda della trattativa sugli immobili della “Lift”.

La Corte di Appello, quindi, nello sviluppare la propria motivazione:

– Utilizza un rilevante elemento non posto alla base della prima decisione, ovvero l’intercettazione ambientale, effettuata il 19/10/2006 nel corso dell’indagine relativa al fatto di cui al capo d), in cui il C. fa chiaro riferimento all’ A. quale persona che aveva “aiutato”. La Corte interpreta il colloquio rilevando come il ricorrente confermi i suoi interventi “a favore” di A..

– Esamina con particolare attenzione la vicenda degli immobili Lift, osservando come il giudice di primo grado, dopo aver riferito della predetta trattativa, non abbia però affrontato il tema dell’essere questa vicenda una possibile giustificazione di un tale malanimo da indurre A. a reagire con una grave calunnia. Rileva che, al contrario, la vicenda non rappresentava affatto una possibile ragione di false accuse; in conseguenza va escluso che tale elemento esterno possa porsi quale limite alla attendibilità della dichiarazione della persona offesa.

– Affronta in modo particolarmente puntuale il complesso delle emergenze, confermando la attendibilità di A.; nel fare ciò valuta anche i punti che, ritenuti comunque nella lettura del giudice di primo grado fonte di dubbio, trovano invece chiara spiegazione;

soprattutto quanto alle apparenti iniziali reticenze su taluni particolari.

– Svolge anche una più attenta valutazione delle dichiarazioni in sè, non solo confermandone genericamente la attendibilità intrinseca come fatto dal primo giudice, ma approfondendo tale attendibilità alla luce delle numerose e puntigliose deduzioni delle difese.

In conclusione, la Corte di Appello non si è limitata ad una diversa lettura delle stesse emergenze della sentenza di primo grado, ma ha individuato l’ulteriore e rilevante intercettazione citata, forte elemento di conferma dell’accusa non oggetto di valutazione in primo grado, ed ha individuato altri errori di valutazione della prima sentenza, quanto alla significatività di talune circostanze, anche nella loro inadeguatezza a giustificare una possibile calunnia, ed ha ampiamente riesaminato anche i profili di attendibilità con valutazioni più approfondite rispetto a quanto fatto dal giudice di primo grado.

Quanto detto smentisce la deduzione del ricorrente quanto all’essersi limitata la Corte alla mera diversa valutazione dello stesso materiale e rappresenta la necessaria “motivazione rafforzata” richiesta per la sentenza di appello che, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, condanni l’imputato.

Oltre a muovere questa contestazione di carattere generale sulla motivazione, entrambi i ricorsi per il resto indicano vari presunti errori logici o contraddizioni che, però, o non sono tali o non valgono a far venir meno la complessiva logicità ed adeguatezza della motivazione sulla responsabilità.

Quanto ai motivi di M., si osserva:

Il ricorso afferma la erroneità della interpretazione del colloquio intercettato il 19 ottobre 2006, elemento, come si è detto, particolarmente determinante perchè non valutato affatto dal primo giudice. Invero, al riguardo, la difesa non riesce a dimostrare un manifesto errore della Corte di Appello che ha dato conto di aver interpretato in modo logico la conversazione in piena aderenza al suo contenuto letterale nè, certamente, il giudice di legittimità deve apprezzare autonomamente il contenuto della prova per verificare se il giudice del provvedimento impugnato abbia dato una interpretazione conforme alla propria. Per il resto si segnalano singole discrasie, inevitabili per la complessa vicenda narrata, come peraltro già segnalato dalla Corte di Appello, ma che non inficiano la lettura complessiva.

– Non vi è contraddizione in sè nel fatto che da una tangente di Euro 300.000,00 si sia passati ad un pagamento di soli Euro 10.000,00 si tratta di una eccessiva semplificazione da parte della difesa di una più complessa vicenda che ben riferisce la Corte: le pretese iniziali degli imputati vengono rigettate dalla persona offesa ma, proprio per la capacità intimidatoria dei due, A. accetta un pagamento di una minore ma non certo indifferente cifra, pur in assenza di qualsiasi “prestazione” a favore.

– La assoluta esattezza o meno nella ricostruzione della vicenda degli affari immobiliari in (omissis) non è in sè di gran rilievo. Al di là del minimo spazio per riconsiderare ciò che la Corte ha logicamente ricostruito sulla base delle premesse in fatto riportate in sentenza, il punto fondamentale della sua argomentazione non è tanto il possibile errore del giudice di primo grado nella ricostruzione della vicenda quanto l’errore di averla ritenuta apoditticamente un indice di contrasto con la versione della persona offesa nonostante non apparisse affatto una vicenda tale da giustificare un così grave intento calunniatorio.

– Gli errori nella indicazione delle date sono stati adeguatamente giustificati sia dal primo che dal secondo giudice con la difficoltà di adeguato ricordo alle condizioni date. La Corte di Appello, con ampia e globale motivazione, ben chiarisce perchè non abbiano rilievo nella complessiva vicenda.

Per il resto, entrambi i ricorsi si limitano a generiche deduzioni su altre possibili ragioni di inattendibilità della vicenda senza affrontare in modo diretto gli ampi argomenti della sentenza impugnata che chiarisce anche il collegamento fra la richiesta iniziale, a fronte comunque di un intervento apparentemente favorevole alla persona offesa (la protezione da accertamenti fiscali), e la pretesa finale di corrispondere,in ogni caso,una somma che, pur indicata quale rimborso spese, in realtà non aveva alcuna giustificazione e poteva essere ottenuta solo in ragione di un comportamento intimidatorio.

Ad ulteriore dimostrazione della genericità delle deduzioni difensive, si rammenta che i ricorsi non affrontano neanche il tema, ben posto invece dalla Corte, della complessiva credibilità delle accuse (essendo i fatti in danno di A. pienamente corrispondenti ad una serie di condotte analoghe ed alla particolare situazione personale riferita dal medesimo C. laddove non poteva negare di aver ottenuto illecitamente il denaro sequestratogli il (omissis): aveva la necessità di “recuperare” centinaia di migliaia di Euro per l’acquisto immobiliare richiestogli dalla nuova compagna.

Rinviando a dopo le valutazioni in tema di ricostruzione in diritto del fatto, i motivi relativi al capo f) sono infondati.

Con i motivi secondo, quarto, terzo motivo aggiunto e quinto motivo aggiunto del ricorso M. e con i motivi di cui alla memoria C. è stata innanzitutto contestata la configurabilità del reato di concussione e, poi, ritenuto che i fatti vadano qualificati quali induzione indebita ai sensi dell’art. 319 quater cod. pen., norma più favorevole per misura della pena.

Si premettono quindi le necessarie osservazioni per la individuazione dell’ambito di applicabilità della nuova disposizione citata.

La L. n. 190 del 2012, nel modificare l’art. 317 cod. pen., che definiva la concussione come la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, “abusando della sua qualità o dei suoi poteri”, “costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente”, ha estrapolato la condotta di “induzione” per porla a base della nuova ipotesi di reato di cui all’art. 319 quater; tale ultima disposizione, pur a fronte di una rubrica che non usa il termine “concussione” bensì definisce il reato quale “induzione indebita a dare o promettere utilità”, descrive una condotta simile a quella dell’art. 317 c.p.: “abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente” seppure con la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”.

Pur se ad una prima lettura potrebbe sembrare che vi sia stato un semplice “spacchettamento” finalizzato a distinguere le due condotte già inserite nell’art. 317 cod. pen., in base alla gravità della pressione sul privato diversificando le pene, vi sono differenze che rendono non di tale immediatezza la individuazione degli ambiti di applicazione delle due disposizioni.

Si deve tenere infatti conto innanzitutto della più rilevante particolarità della “induzione indebita” di cui all’art. 319 quater cod. pen., rispetto alla tradizionale figura di concussione: di tale nuovo reato risponde anche il privato “concusso”, pur se la pena nei suoi confronti è alquanto inferiore rispetto a quella del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio (il massimo è, rispettivamente, di otto e di tre anni di reclusione).

La sanzione per il privato per prima cosa comporta una modifica della struttura del reato che non è più un reato plurioffensivo, come sarebbe dovuto essere se fosse stata semplicemente scissa in due ipotesi la previgente fattispecie di concussione, reato, appunto, plurioffensivo, perchè muta radicalmente il ruolo di quella che era la seconda persona offesa. La vittima non è più tale ma diventa un correo in un reato a concorso necessario. Il testo della disposizione non sembra lasciar spazio a dubbi, il soggetto concusso è sempre un concorrente nel reato in quanto, laddove il privato non dovesse essere punibile perchè non consapevole (indiscusso che sia necessario il dolo), ricorrerebbero diverse ipotesi di reato.

Già tale innovazione esclude che possa darsi una risposta semplicistica alla individuazione degli ambiti di applicazione delle due disposizioni. Con il mutamento di ruolo della persona offesa non è possibile affermare, alla luce del dato apparente della medesima formulazione delle condotte, che è stata semplicemente divisa la vecchia fattispecie di concussione in due autonomi reati per distinguere le sanzioni solo in base alla presunta maggior gravità di una “costrizione” rispetto ad una “induzione”.

La previsione di punibilità del privato, inoltre, impone di interpretare la disposizione nel senso che la sua condotta costituente reato rientri nell’ambito della “rimproverabilità” e della “esigibilità”, valutate in astratto. Per quanto questi siano criteri sostanzialmente riferibili all’elemento soggettivo del reato, laddove si scegliesse una interpretazione nel senso che risponda del reato in questione il privato che subisca una coartazione, si punirebbe una condotta che, già sul piano della fattispecie astratta, verrebbe caratterizzata da un elemento psicologico rispetto al quale vi sarebbe sempre un fondato dubbio sulla inesigibilità e rimproverabilità. E’ quindi calzante l’osservazione sull’effetto che comporterebbe il ritenere l’obbligo del privato di resistere ad un significativo grado di coartazione psicologica: “Viceversa, punire chi si sia piegato alla minaccia, ancorchè essa si sia presentata in forma blanda, significa richiedere al soggetto virtù civiche ispirate a concezioni di stato etico proprie di ordinamenti che si volgono verso concezioni antisolidaristiche e illiberali. (Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012 – dep. 22/01/2013, ******, Rv. 253935)”.

Pertanto la nuova fattispecie criminosa non può corrispondere puramente e semplicemente ai casi per i quali, come meglio si specifica dopo, la giurisprudenza precedente parlava di condotta di “induzione”. Allo stesso modo, per i fatti contestati prima della riforma, come nel caso del presente processo, non si può ritenere significativa la utilizzazione nel capo di imputazione del termine “induzione”.

Infatti, non essendovi una differenziazione normativa tra le condotte di costrizione ed induzione, che erano indicate indifferentemente nell’art. 317 cod. pen., previgente, nella prassi giudiziaria si utilizzavano in modo fungibile i termini “costringeva” o “induceva “e, talora, li si utilizzava entrambi con formulazioni quali “costringeva ed induceva” oppure “costringeva o, comunque, induceva”.

Un sommario esame della giurisprudenza degli ultimi anni dimostra come, nella maggior parte dei casi in cui si faceva differenza fra le due condotte, la “induzione” fosse divenuto un termine maggiormente utilizzato per significare una più blanda costrizione ovvero una costrizione non esplicita ed il termine “costrizione”, invece, fosse utilizzato prevalentemente per definire minacce di maggiore gravità o, comunque, esplicite.

Se, però, si tiene conto di un’altra innovazione delle due disposizioni in questione, artt. 317 e 319 quater cod. pen., è già possibile dare un indirizzo ai fini della interpretazione nel senso che la “induzione” non può essere una, pur blanda, vera e propria minaccia (corrispondente alla figura generale dell’art. 612 cod. pen.) e che, per converso, la “costrizione” vale, con la nuova formulazione, a coprire qualsiasi ipotesi di minaccia di un male ingiusto.

Difatti una ulteriore e rilevante modifica apportata con il nuovo reato di concussione è che non è più previsto quale soggetto attivo l’incaricato di pubblico servizio; la concussione, oggi, è un reato proprio del solo pubblico ufficiale.

Entrambi, invece, sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio, possono essere gli autori del reato di induzione indebita di cui all’art. 319 quater cod. pen..

Non sembra che possa dubitarsi che la condotta dell’incaricato di pubblico servizio che abbia le caratteristiche della concussione rientri oggi nel reato di estorsione quando la sua condotta consista nella minaccia di un male ingiusto (con evidente continuità normativa per i fatti commessi in precedenza, ma non è un tema che qui interessa), minaccia resa possibile dall’abuso della posizione.

Quindi si può affermare che l’incaricato di pubblico servizio risponde del reato di cui all’art. 319 quater cod. pen., solo quando la sua condotta non integri estorsione, In quanto nell’art. 319 quater, vi è la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”; ed il reato di estorsione è più grave.

La necessaria conclusione è nel senso che il reato di induzione indebita non può avere un ambito di applicazione più ampio quando ne sia responsabile il pubblico ufficiale rispetto al caso in cui lo commetta l’incaricato di pubblico servizio. A ritenere il contrario, se cioè l’estorsione avesse un ambito più ampio e non corrispondente alla concussione, avremmo incomprensibili disparità nel trattamento di identiche condotte.

Se, infatti, la “costrizione” non dovesse avere un ambito corrispondente alla “minaccia” dell’estorsione e, quindi, nel concetto di “induzione” rientrassero anche (de)i casi di minaccia in senso proprio, pur se caratterizzati da minor gravità, innanzitutto vi sarebbero condotte che, se commesse dal pubblico ufficiale, sarebbero punite meno gravemente che se commesse dall’incaricato di pubblico servizio. In ipotesi, per il primo la minaccia lieve commessa con abuso di qualità/poteri al fine di ricevere un profitto verrebbe punita ai sensi dell’art. 319 quater cod. pen. e, per il secondo, dall’art. 629 cod. pen..

Inoltre, e questa sarebbe una conseguenza ancor più anomala, il privato vedrebbe la propria condotta in un caso valutata come di vittima di una estorsione e nell’altro di responsabile del reato di cui all’art. 319 quater cod. pen.. Ma sarebbe del tutto irragionevole differenziare così fortemente le conseguenze della sua condotta a seconda se abbia ceduto alle pressioni di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio (a tacere del problema della consapevolezza della esatta qualifica e del rilievo del possibile errore).

Già, quindi, si può anticipare la conclusione nel senso che la condotta di induzione rilevante ai fini dell’art. 319 quater cod. proc. pen., deve essere certamente caratterizzata da una condizione di metus publicae potestatis e da una forma di pressione psicologica, ma la stessa debba essere più propriamente una forma di persuasione, di prospettazione della convenienza del cedere alla richiesta del pubblico ufficiale/incaricato di pubblico servizio piuttosto che la minaccia in senso tecnico (art. 612 cod. pen.), come meglio si chiarirà oltre.

Queste prime conclusioni sono difatti confermate anche valutando il possibile criterio interpretativo per distinguere, in base alla terminologia utilizzata, costrizione ed induzione; anche in questo modo si giunge alla conclusione che nella nuova formulazione dell’art. 317 cod. pen., la “costrizione” corrisponde alla minaccia di male ingiusto.

Innanzitutto va considerato che i due termini non possono essere posti sullo, stesso piano: mentre la costrizione rappresenta un’azione, l’induzione è la conseguenza di una azione.

Ciò corrisponde innanzitutto al significato nel linguaggio comune di “induzione” ed “indurre” e, una volta separate le due condotte, non si può interpretare “induzione” che secondo il proprio significato letterale piuttosto che secondo il particolare significato che aveva assunto nella vecchia giurisprudenza in ragione dell’accostamento all’altra condotta nell’art. 317 cod. pen..

Del resto, proprio da varie norme del sistema penale, sia norme originarie del codice penale, che dimostrano l’iniziale utilizzazione da parte del legislatore del 1930, che norme recenti, risulta che la “induzione” è termine utilizzato, nel suo ampio significato proprio, per indicare la conseguenza di altre azioni, sia di violenza/minaccia che ingannatrici: nell’art. 377 bis cod. pen.. Si legge “Chiunque, con violenza o minaccia, o con offerta o promessa di denaro o di altra attività.

Induce a non rendere dichiarazioni …” l’induzione, quindi, può essere conseguenza di condotte assolutamente opposte.

Nell’art. 494 c.p., si “induce … in errore”. Nel reato di violenza sessuale la induzione è condotta che mira a “trarre In inganno”. Nel reato di truffa troviamo “inducendo taluno in errore”.

Il termine “induzione” non è, quindi, univocamente riferibile ad una condotta di sia pur blanda coartazione, ma non può neanche essere inteso, nell’art. 319 quater cod. pen., come induzione in errore, non essendo giustificata, in tale ultimo caso, la punibilità del privato.

Si deve allora individuare quali siano gli ambiti di una condotta che rientri nella previgente concussione, che sia caratterizzata da una pressione psicologica cui il privato consapevolmente cede ma che non giunga alla soglia della minaccia di un male ingiusto nella definizione di cui all’art. 612 cod. pen.. Questa è la condotta “spacchettata” e posta a base del nuovo reato di cui all’art. 319 quater cod. pen..

A tale fine rileva il significato assunto nel diritto vivente dal concetto di induzione, nei casi in cui lo si sia voluto espressamente differenziare (e non utilizzare indifferentemente) – significato ragionevolmente valutato dal legislatore della riforma; si deve così individuarne l’ambito più ampio rispetto ai casi in cui ricorre la minaccia del male ingiusto.

Il reato di concussione nasce nel codice ***** dalla unificazione delle due fattispecie del codice previgente che disciplinava e puniva con pene diverse la concussione per “costrizione” e quella per “induzione”. Anche con la concussione unificata del codice *****, come si legge nella giurisprudenza più datata, le due figure mantenevano una netta distinzione. L’induzione è/era (Sez. 6, Sentenza n. 82 del 20/01/1967 Ud. (dep. 29/05/1967) Rv. 104344), la “persuasione fraudolenta” che ricorre o quando la vittima “indipendentemente dall’uso di artifizi o raggiri” (caso nel quale, invece, si indica il possibile ricorrere della truffa aggravata) per il “metus publicae potestatis” crede che la richiesta del p.u. sia legittima o quando le vittime siano “persone consapevoli di subire un sopruso e tuttavia rassegnate a sopportarlo per timore di rappresaglie”.

E’ quindi possibile trarre delle conclusioni sufficientemente certe:

La figura della concussione nella precedente formulazione nasceva con riferimento a due possibili condotte del pubblico ufficiale, di costrizione o d’induzione, prevedendo un ampio ambito di applicazione. La norma puntava essenzialmente ad individuare casi in cui la volontà del privato, posto in condizioni di effettuare una indebita dazione di utilità (si rammenti, non solo denaro od utilità strettamente economiche), non fosse libera.

E questo poteva essere effetto sia di una costrizione che, più in generale, di qualsiasi condotta tendente a porre il privato in condizioni di ritenere necessario accettare le richieste del pubblico ufficiale. Infatti, secondo la giurisprudenza più risalente, si riteneva che la induzione potesse consistere anche in una situazione di inganno per cui, oltre alla ipotesi di concussione quale estorsione commessa con il particolare abuso dei poteri, si delineava chiaramente anche un’ipotesi di concussione che si andava a porre quale ipotesi speciale di truffa aggravata.

Nella successiva evoluzione giurisprudenziale e dottrinaria tale condotta decettiva è stata però ritenuta più propriamente integrare il reato di truffa vero e proprio mentre il reato di concussione, negli anni recenti, è stato ritenuto quale caratterizzato da una condizione di soggezione del privato che è “costretto” a tenere una determinata condotta. Nella evoluzione dell’istituto il concetto di “induzione”, come già detto, è diventato prevalentemente quello di indicare la costrizione non realizzata mediante condotte esplicite ovvero di immediata minaccia.

Una volta che la espressione viene cancellata dal reato di concussione ed utilizzata in una nuova (apparentemente simile) disposizione, “indurre” torna ad avere il suo significato proprio, della lingua comune e, comunque, dell’ordinamento penale, di “convincimento”.

Risulta quindi corretta un’interpretazione che lascia nell’ambito della concussione (sostanzialmente parallela alla estorsione) qualsiasi prospettazione di un danno ingiusto per ricevere indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità e che, invece, faccia rientrare nella ipotesi di cui all’art. 319 quater cod. proc. pen., una condotta di persuasione, basata sulla maggiore forza (quindi il metus publicae potestatis) del soggetto con la qualifica pubblica che prospetta una conseguenza dannosa (che non sia un “male ingiusto”) che induca il privato, senza reali spazi “contrattuali” sull’an, alla prestazione illecita.

Tale conclusione si trae dalla giurisprudenza di questa Corte sull’art. 317 cod. pen., previgente secondo la quale ciò che caratterizza il reato di concussione non è lo svantaggio per il privato o il suo necessario stato soggettivo di timore. La fondamentale caratteristica del reato di concussione previgente era la condotta del pubblico ufficiale che, abusando di qualifica o funzioni, poneva di fatto il privato davanti alla necessità di aderire alle sue pretese indipendentemente dal carattere vantaggioso o meno, per il privato, del cedere.

Del resto nel processo qui in oggetto, quanto ai capi d) ed e), non si discute della prospettazione di un male ingiusto in quanto il pubblico ufficiale ed il suo complice richiedevano denaro per il compimento di attività sostanzialmente a favore delle vittime.

E’ particolarmente significativa la costante giurisprudenza di questa Corte intervenuta sul tema della distinzione tra corruzione e concussione in riferimento ai casi nei quali il privato tragga comunque un qualche vantaggio dalla condotta illecita del pubblico ufficiale. Si è sempre affermato che la concussione ricorre, a fronte del dato atteggiamento prevaricatore, anche se non vi è prospettazione di un “male ingiusto”; ed è cosi, si ripete, che ben si individua l’area di applicabilità della nuova figura di reato.

“(Sez. 6^, n. 40898, 18/05/2011 ********* e altri) Osserva la Corte che il criterio distintivo tra la corruzione e la concussione deve essere individuato nel diverso atteggiamento della volontà del privato che si rapporta al pubblico ufficiale: nella corruzione i concorrenti necessari (pubblico ufficiale e privato) trattano su livelli paritari e si accordano nel pactum sceleris, con convergenti manifestazioni di volontà; nella concussione non sussiste la par condicio contrattualis, perchè il dominus della situazione che si determina è il pubblico ufficiale, con la sua autorità e i suoi poteri, dei quali abusa, costringendo o inducendo il soggetto passivo a sottostare alla ingiusta richiesta, perchè necessitato da una condizione di soggezione che non offre alternativa diversa dalla resa. La struttura della concussione evoca una sorta di aggressione del pubblico ufficiale contro il privato; nella corruzione invece si versa in una situazione di accordo sinallagmatico tra le parti e si è al di fuori dello stato di soggezione del privato rispetto alla forza prevaricatrice del pubblico funzionario.

E’ il caso di precisare che integra l’abuso di potere anche la minaccia da parte del pubblico ufficiale dell’esercizio di un potere legittimo, ma al fine di conseguire un fine illecito, quale certamente è l’ottenimento dell’indebito: la deviazione dell’esercizio del potere dalla sua causa tipica verso un obiettivo diverso ed estraneo agli interessi della Pubblica Amministrazione concreta l’abuso.

L’abuso di potere da parte del pubblico ufficiale determina nel soggetto passivo, come conseguenza, uno stato d’animo tale da porto in posizione di soggezione rispetto al primo, condizione questa che costituisce la premessa dell’atto dispositivo indotto e costituito dalla dazione del concusso”.

“Sez. 6, n. 9528 del 09/01/2009 – dep. 03/03/2009, Romano e altri, Rv. 243047: … la circostanza che l’atto, oggetto del mercimonio, del pubblico ufficiale sia Illegittimo e contrario ai doveri di ufficio non comporta per sè la degradazione del titolo del reato da concussione in corruzione, neppure quando il soggetto passivo versi già in illecito e sia consapevole dell’illegittimità dell’atto, posto che ciò che occorre e basta ai fini della sussistenza della concussione è che rimanga inalterata la posizione di preminenza prevaricatrice del pubblico ufficiale sull’intimorita volizione del privato (Cass. 01.02.1993, ********), indotta dall’abuso delle qualità o delle funzioni del primo (Cass. 09.03.1984, ******), tale da escludere che la volontà del secondo si sia liberamente determinata (Cass. 04.05.1983, *******).

La conclusione è quindi, quella già affermata da questa Corte (Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012 – dep. 22/01/2013, Rosela, Rv. 253935) “Di converso, stante il già detto ambito residuale della norma, compie il reato di cui all’art. 319 quater, chi per ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa che non sia contraria alla legge … non può parlarsi di minaccia perchè il danno non sarebbe iniuria datum e perciò la costrizione è mancata, ma essendosi ciononostante raggiunto il risultato, il soggetto è stato comunque indotto alla promessa o alla consegna indebita”.

Ricorre la induzione indebita, insomma, in quei casi in cui al privato non venga minacciato un danno ingiusto e possa, anzi, avere persino una convenienza economica dal cedere alle richieste del pubblico ufficiale laddove costui “induca” al pagamento quale alternativa alla adozione di atti legittimi della amministrazione, dannosi per il privato.

Così individuando l’area di applicabilità della nuova disposizione, innanzitutto si da un contenuto identico al reato, sia esso commesso dal pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio, in quanto è una condotta che non rientra nè nell’estorsione nè nella concussione, da ritenere, per quanto detto, oggi limitata alla prospettazione di un danno ingiusto (costrizione).

In questo modo, inoltre, trova piena giustificazione la sanzione nei confronti del privato superandosi le ragioni di perplessità sopra indicate.

Difatti, in una situazione in cui, pur a fronte di un comportamento prevaricatore, il pubblico ufficiale prospetta una situazione comunque vantaggiosa per il caso di corresponsione di quanto richiesto, si rientra certamente nell’ambito dei comportamenti esigibili.

E’, infatti, “esigibile” che il privato resista ad una tale pretesa, ancorchè il complesso della situazione abbia fatto ragionevolmente optare per un livello di sanzione inferiore a quella del soggetto pubblico; ed è “rimproverabile” il privato nel caso in cui abbia invece optato per cedere alle richieste del pubblico ufficiale, senza però rischiare un danno ingiusto ma ottenendone, comunque, un vantaggio.

L’effetto della nuova normativa, è, quindi, quella di lasciare il più grave reato di concussione per le situazioni sostanzialmente corrispondenti alla estorsione.

Quanto detto risolve anche il tema della continuità normativa; le condotte che oggi rientrano nella nuova ipotesi di reato erano, in precedenza, qualificabili come concussione.

La distinzione per qualificare correttamente le condotte commesse e contestate prima della L. n. 190 del 2012, va fatta non sulla base dell’uso formale dei termini “costrizione” ed “induzione”, ma analizzando la condotta contestata e le conseguenze paventate dal pubblico ufficiale per ottenere il denaro o le altre utilità, ovvero se abbia prospettato un male ingiusto o meno.

Sulla scorta di queste osservazioni in diritto può rispondersi ai temi sollevati dalle difese.

Per il capo e) (contestato ad entrambi) e per il capo d) (contestato al solo C.) con gli argomenti sopra riportati sono anche indicate le ragioni per le quali non ci si trova di fronte un caso di corruzione. Le modalità di richiesta del denaro, pur a fronte della apparente offerta di una utilità, erano tali da integrare l’indebita pressione e non una trattativa sul piano paritario, condizione quest’ultima necessaria perchè sia integrata la condotta di corruzione e non quella più grave di concussione.

Tali stessi fatti vanno però inquadrati nella nuova figura di reato di cui all’art. 319 quater cod. pen.. Tutta la condotta dei due imputati è consistita nel prospettare l’esercizio di attività con abuso delle funzioni di C. presentate come alternativa ad un danno non certo qualificabile ingiusto. Si è discusso, infatti, dell’illecito intervento al fine di ridurre le conseguenze di un accertamento fiscale, al fine di impedire che in sede di rogatoria emergessero notizie sulle attività della parte tali da giustificare approfondimenti della posizione fiscale, impedire un coinvolgimento, pur indiretto, nel procedimento penale a carico di un ufficiale della finanza.

Si tratta esattamente della condotta che oggi rientra nel reato di induzione indebita.

Non così, invece, per il reato di cui al capo f).

Pur se, secondo la ricostruzione dei fatti da parte della Corte di Appello, inizialmente i ricorrenti intendevano ottenere il denaro prospettando comunque un apparente vantaggio per la persona offesa, quando questi comunque resistette alle loro pretese, accettò di corrispondere una pur più moderata cifra presentata quale richiesta di “rimborso”. Già sul piano oggettivo emerge come tale pagamento non avesse alcuna causa se non il generico subire la pressione del pubblico ufficiale; la persona offesa ha chiarito come avesse percepito il pericolo di non cedere minimamente alle pretese indebite preferendo “levarsi di torno” i due corrispondendo la citata somma di denaro. La prospettazione implicita di un generico danno dovuto all’esercizio arbitrario delle proprie funzioni integra, quindi, proprio il danno ingiusto del reato di concussione anche nella attuale formulazione.

I motivi in questione vanno accolti limitatamente alla riqualificazione dei reati d) ed e).

Il quinto motivo del ricorso M. ed il secondo motivo del ricorso C., per la parte relativa alla doglianza sulla mancata applicazione delle attenuanti generiche, sono manifestamente infondati contestandosi solo le valutazioni in fatto di esclusiva competenza del giudice di merito senza alcuna individuazione di reali carenze motivazionali o effettive illogicità.

Parimenti manifestamente infondato è il quinto motivo del ricorso C. con il quale si contesta la applicazione della pena accessoria della degradazione prevista dal codice penale militare;

non si rileva, dal contenuto del ricorso, quale sia la disposizione che limiterebbe la giurisdizione del giudice ordinario laddove diventa applicabile la pena accessoria militare. L’argomento sulla competenza per la eventuale declaratoria di estinzione della misura non appare affatto comportare un limite al dovere del giudice ordinario di disporre la pena accessoria ricorrendone le condizioni.

Quanto ai residui motivi con i quali si contesta la misura della pena, gli stessi restano assorbiti attesa la nuova valutazione che dovrà fare il giudice di rinvio.

In conclusione, secondo quanto sopra indicato:

va disposto l’annullamento con rinvio relativamente al capo d), ritenuto il fatto integrante il reato di cui all’art. 319 quater cod. pen., perchè il giudice di rinvio valuti se il reato sia stato consumato o solo tentato secondo le indicazioni già date e, comunque, per la rideterminazione della pena.

Va disposto l’annullamento con rinvio relativamente al capo e) perchè, ritenuto il fatto integrante il reato di cui all’art. 319 quater cod. pen., il giudice di rinvio ridetermini la pena.

Va disposto l’annullamento per il capo f) al solo fine di rideterminare il trattamento sanzionatorio, attesa la applicazione della disciplina della continuazione.

In ragione dell’esito della impugnazione, i ricorrenti vanno condannati a rifondere le spese di difesa sostenute dalle parti civili A.O. e P.F., liquidate come da dispositivo; il giudice di rinvio, nel determinare la esatta qualificazione del reato di cui al capo d), determinerà le spese di difesa delle parti civili T. e S. anche per questa fase di legittimità.

Per il resto, i ricorsi vanno rigettati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata:

– Quanto al capo D), riqualificato il fatto ex art. 319 quater cod. pen., limitatamente ai punti della consumazione e del trattamento sanzionatorio;

– Quanto al capo E), riqualificato il fatto ex art. 319 quater cod. pen., limitatamente al trattamento sanzionatorio;

– Quanto al capo F) limitatamente al trattamento sanzionatorio e rinvia per la decisione sui punti ad altra sezione della Corte di Appello di Torino.

Condanna i ricorrenti alla rifusione in solido delle spese di difesa sostenute dalla parti civili A.O. e P.F. liquidate in complessive Euro 5000,00 per ciascuna oltre *** e cpa.

Riserva al giudice di rinvio la liquidazione delle spese di questa fase in favore delle parti civili T. e S..

Rigetta nel resto i ricorsi.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2013.

Redazione