Lavoro: risarcito il dipendente se non condivide il part-time impostogli (Cass. n. 24476/2011)

Redazione 21/11/11
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Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 24/5/02 C.A. si rivolse al giudice del lavoro del Tribunale di Lecce dolendosi del fatto che la società D’Arpe Medicinali s.a.s., di cui era stato dipendente in qualità di impiegato dal 25/11/71 al 14/1/01, gli aveva unilateralmente ridotto l’orario di lavoro a decorrere dal 1999, senza il suo consenso, per cui, dedotta la violazione della L. 19 dicembre 1984, n. 863, art. 5, comma 10, chiese la condanna della convenuta al pagamento delle ore prestate in meno rispetto a quelle previste contrattualmente, determinando l’ammontare complessivo in Euro 7.793,12, oltre accessori di legge. Con sentenza del 30/9/05 il giudice adito rigettò la domanda sulla base della considerazione che nel corso del libero interrogatorio il ricorrente aveva riconosciuto che la riduzione dell’orario di lavoro era stata accettata dai dipendenti attraverso la sottoscrizione dell’accordo del 20/11/1990.

A seguito di impugnazione di tale sentenza la Corte d’appello di Lecce ha accolto l’appello ed ha condannato la società convenuta al pagamento in favore del C. della somma di Euro 7793,12, oltre accessori di legge, e alle spese del doppio grado di giudizio.

La Corte salentina ha spiegato che la riduzione dell’orario di lavoro di cui si discuteva era quella oggetto della disposizione datoriale del mese di agosto del 1999 e non poteva trovare il proprio fondamento nel precedente accordo scritto risalente al 20/1/1990;

inoltre, la mancanza della forma scritta, richiesta ad substantiam per la riduzione consensuale del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale L. n. 863 del 1984, ex art. 5, comma 10, comportava la nullità della clausola contenente la suddetta riduzione oraria di lavoro, con conseguente conversione del contratto a tempo parziale in rapporto a tempo pieno e con correlato diritto del lavoratore a vedersi retribuite le ore lavorative non prestate per determinazione unilaterale della parte datoriale.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società D’Arpe Medicinali del Dott. ing. ************** & ********* che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura.

Resiste con controricorso il C., mentre sono rimasti solo intimati G.C., M.M.G. e M.G. nella loro qualità di eredi del socio accomandatario della società ricorrente, vale a dire dell’ing. Ma.Gi..

La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Col primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 102, 111 e 331 c.p.c., e degli artt. 2313, 2315, 2318 e 2324 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la nullità della sentenza e del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, adducendo che male avrebbe fatto la Corte d’appello a respingerle l’eccezione del difetto di contraddittorio per mancata estensione dello stesso agli eredi del socio accomandatario Ma.Gi..

Si richiede, quindi, di accertare se, una volta in cui sia interrotto il giudizio per morte del socio accomandatario ed una volta in cui lo stesso sia stato riassunto sia nei confronti della società che degli eredi del socio accomandatario, non si sia instaurato un litisconsorzio necessario, sostanziale o processuale, con la conseguente necessità di notificare l’atto di impugnazione della sentenza a tutte le parti del processo di primo grado, pena la nullità del giudizio e della sentenza.

Il motivo è infondato.

Invero, l’omessa citazione in appello degli eredi del socio accomandatario non può ritenersi costituire nella fattispecie una causa di nullità della sentenza, dal momento che non ricorre un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra la società e gli eredi del socio accomandatario; in effetti, questi ultimi hanno solo diritto alla liquidazione della quota, salvo diverso accordo con gli altri soci, non comportando la morte del socio accomandatario lo scioglimento o l’estinzione della società, ma soltanto la trasmissione o la liquidazione della quota, quale conseguenza dello scioglimento del rapporto tra il singolo socio e la società, mentre sono i soci accomandanti a subentrare “de iure” nelle posizioni dei loro rispettivi danti causa ex art. 2322 c.c..

Si è, infatti, statuito (Cass. sez. 1, n. 21803 dell’11/10/2006) che “nella società in accomandita semplice, soltanto la quota di partecipazione del socio accomandante è trasmissibile per causa di morte, ai sensi dell’art. 2322 c.c., mentre in caso di morte del socio accomandatario trova applicazione l’art. 2284 c.c., in virtù del quale gli eredi non subentrano nella posizione del defunto nell’ambito della società, e non assumono quindi la qualità di soci accomandatari a titolo di successione “mortis causa”, ma hanno diritto soltanto alla liquidazione della quota del loro dante causa, salvo diverso accordo con gli altri soci in ordine alla continuazione della società, e fermo restando che in tal caso l’acquisto della qualifica di socio accomandatario non deriva dalla posizione di erede del socio accomandatario defunto, ma dal contenuto del predetto accordo”.

Nè può condividersi l’assunto in ordine alla pretesa sussistenza di un litisconsorzio processuale atto a giustificare l’integrazione del contraddittorio, atteso che, come esattamente evidenziato dalla Corte territoriale, in primo grado fu convenuta in giudizio solo la società. In sostanza la riassunzione operata nei confronti degli eredi del socio accomandatario dopo la morte di quest’ultimo poteva avere solo il valore di “litis denuntiatio”. 2. Col secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, comma 2, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, oltre che l’omessa motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Si sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, dalle dichiarazioni rese dal C. in sede di libero interrogatorio e dai documenti versati in atti emergerebbe che la riduzione dell’orario di lavoro era stata concordata ed accettata dai lavoratori dell’azienda. A conclusione del motivo è posto il quesito di diritto col quale si chiede di accertare se le risposte date dalle parti in sede di libero interrogatorio ex art. 420 c.p.c., possano costituire l’unica fonte di convincimento del giudicante.

Il motivo è infondato per le seguenti ragioni: la circostanza per la quale le risposte fornite da una parte nel corso del libero interrogatorio possano in astratto rappresentare l’unica fonte di convincimento del giudicante, fermo restando che le dichiarazioni rese nel corso del libero interrogatorio non hanno un valore confessorio, è inconferente, in quanto non vale ad escludere che il medesimo giudicante possa, come di fatto verificatosi nel caso in esame, fondare la propria convinzione, laddove adeguatamente motivata, sulla preponderanza di altri elementi egualmente degni di rilievo sul piano processuale. Ebbene, nel caso in esame la Corte di merito ha fondato il proprio convincimento sul fatto, ben evidenziato con argomentazione adeguatamente motivata ed immune da vizi di carattere logico-giuridico, che l’oggetto del contendere non aveva attinenza con l’accordo del 1990 richiamato nel libero interrogatorio del lavoratore, in quanto la doglianza riguardava, invece, la questione della validità della riduzione dell’orario di lavoro disposta dall’azienda nel mese di agosto del 1999, decisione imprenditoriale, questa, che non poteva ritenersi sorretta dal consenso prestato dai lavoratori in occasione dell’accordo sottoscritto nove anni prima. D’altra parte, la Corte di merito ha evidenziato che, anche se nel 1999 vi fosse stato un accordo verbale sulla riduzione dell’orario di lavoro, questo non avrebbe potuto avere alcuna validità, posto che la L. n. 863 del 1984, art. 5, comma 10, prescrive la forma scritta come requisito “ad substantiam” per la riduzione consensuale di un rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

In effetti, il D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella L. 19 dicembre 1984, n. 863, all’art. 5, comma 10, prevede che la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale è ammessa solo su accordo delle parti, risultante da atto scritto, convalidato dall’Ufficio Provinciale del Lavoro e sentito il lavoratore interessato.

3. Col terzo motivo di doglianza sono denunziati i seguenti vizi della sentenza: – Violazione e falsa applicazione del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, commi 2 e 10, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, dell’art. 2094 c.c., dell’art. 1207 c.c., comma 2, dell’art. 2126 c.c., e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. – Omessa o insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Nel denunziare le suddette violazioni la ricorrente parte dal presupposto che, pur ammettendosi la mancanza di un accordo scritto sulla riduzione dell’orario di lavoro, incombeva sul lavoratore l’onere di dimostrare di aver messo a disposizione le proprie energie lavorative in favore della parte datoriale per il tempo restante, in quanto solo attraverso un formale atto di messa in mora poteva giustificarsi, in un rapporto governato dai principi della effettività e corrispettività delle prestazioni, la pretesa risarcitoria per le retribuzioni non percepite per le ore lavorative effettivamente non prestate, pena un indebito arricchimento del lavoratore. Il motivo è infondato.

In realtà, la tesi sopra esposta sulle regole del riparto dell’onere probatorio e sulla ritenuta necessità della messa in mora della parte datoriale per il soddisfacimento delle pretese creditizie avanzate dal lavoratore, tesi sostenuta dall’odierna ricorrente nell’intento di giustificare l’esonero dal pagamento delle ore lavorative non espletate per effetto della riduzione dell’orario di lavoro, non coglie nel segno: la ragione di tale infondatezza risiede nel fatto che, nel caso in esame, la Corte di merito ha compiutamente accertato che la riduzione dell’orario di lavoro era stata disposta unilateralmente dalla stessa parte datoriale senza il consenso del lavoratore, per cui non poteva ricadere su quest’ultimo l’onere di dimostrare di aver inutilmente messo a disposizione le proprie energie lavorative al fine di reclamare il pagamento delle restanti ore lavorative, il cui svolgimento non gli era stato consentito dalla controparte.

4. Con l’ultimo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., comma 1, del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, commi 2 e 10, convertito in L. 19 dicembre 1984, n. 863, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’omessa o insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Si contesta, in particolare, che la Corte territoriale sia incorsa in errore nel ritenere che la riduzione unilaterale dell’orario di lavoro potesse comportare l’automatica instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo pieno e si aggiunge che una tale conseguenza non poteva scaturire nemmeno dalla nullità della clausola verbale di effettuazione del lavoro a tempo parziale, potendosi attribuire, semmai, a norma dell’art. 2126 c.c., comma 1, la retribuzione proporzionata alla prestazione in concreto eseguita.

Il motivo è infondato.

Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. sez. lav. n. 5330 del 10/3/2006), “la nullità della clausola sul tempo parziale, per difetto di forma scritta, anche sulla scorta delle indicazioni offerte con la sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 2005, non implica, ai sensi dell’art. 1419 c.c., comma 1, l’invalidità dell’intero contratto – a meno che non risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte colpita da nullità – e comporta, per il principio generale di conservazione del negozio giuridico colpito da nullità parziale, che il rapporto di lavoro deve considerarsi a tempo pieno. (Nella specie la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva, tra l’altro, rilevato che era onere del datore di lavoro dedurre e dimostrare che non avrebbe mai voluto costituire un rapporto a tempo pieno, circostanza in concreto nemmeno adombrata dallo stesso datore)”.

Il medesimo giudice delle leggi ha aggiunto che è possibile un’interpretazione costituzionale orientata, già indicata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 210 del 1992, secondo la quale la nullità per vizio di forma della clausola sulla riduzione dell’orario di lavoro “non è comunque idonea a travolgere integralmente il contratto, ma ne determina la c.d. conversione in un “normale contratto di lavoro”, o meglio determina “la qualificazione del rapporto come normale rapporto di lavoro, in ragione dell’inefficacia della pattuizione relativa alla scelta del tipo contrattuale speciale”. A tale risultato, secondo il giudice delle leggi, può pervenirsi facendosi ricorso alla disciplina ordinaria della nullità parziale (art. 1419 c.c., comma 1), che esprime un’esigenza di carattere generale di tendenziale conservazione del contratto, ove il vizio di forma sia circoscrivibile ad una o più clausole (come quella che prevede l’orario di lavoro ridotto) e sempre che la clausola nulla non risulti avere carattere essenziale per entrambe le parti del rapporto, nel senso che, in particolare, anche il lavoratore, il quale di regola aspira ad un impiego a tempo pieno, non avrebbe stipulato il contratto se non con la clausola della riduzione di orario.

La conclusione del giudice delle leggi è nel senso che risulta chiaramente tracciata – anche nel non più vigente regime della disposizione censurata – un’interpretazione di essa, che, pur non affermando (ed anzi escludendo) la conversione automatica del rapporto a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, è comunque idonea a scongiurare, di massima, una volta accertato il difetto della forma scritta della clausola a tempo parziale, la totale nullità del rapporto di lavoro. Tra l’altro, non può sottacersi che nella fattispecie il rapporto lavorativo in esame era già all’origine a tempo pieno, per cui per effetto della impugnata sentenza è stato in concreto ripristinato l’ordinario rapporto, cosi come configurato dalle parti all’atto della sua nascita.

Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore del solo C. delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2500,00 per onorario, oltre Euro 40,00, per esborsi, nonchè I.V.A, C.P.A e spese generali ai sensi di legge.

Redazione