Lavoro: la pendenza del ricorso avverso l’accertamento non blocca la riscossione dei contributi (Cass. n. 14907/2012)

Redazione 05/09/12
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Svolgimento del processo

C.F. ha proposto opposizione avverso la cartella esattoriale con la quale gli era stato intimato il pagamento in favore dell’INPS della somma di Euro 11.149,04 a titolo di contributi relativi ai periodi marzo-dicembre 1993, gennaio-dicembre 1995 e aprile 1996-luglio 1997, deducendo che avverso il verbale di accertamento ispettivo aveva presentato ricorso amministrativo, contestando che i rapporti di lavoro relativamente ai quali era stato richiesto il versamento della contribuzione potessero considerarsi di natura subordinata e sostenendo che il credito non avrebbe potuto essere iscritto a ruolo prima della definizione del procedimento amministrativo.

Il Tribunale di Sulmona ha respinto l’opposizione con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello di L’Aquila, che ha ritenuto che nella fattispecie fosse irrilevante la mancata osservanza delle modalità prescritte dalla L. n. 689 del 1981, trattandosi di contributi previdenziali e sanzioni civili e non di sanzioni amministrative, ed ha ritenuto infondate le censure svolte dall’appellante in ordine alla qualificazione dei rapporti di lavoro in contestazione, osservando che la natura dell’attività (di composizione di bomboniere) svolta dalle lavoratrici nei locali aziendali e la periodicità e costanza dei compensi da esse percepiti facevano logicamente presumere, in difetto di ogni altro elemento che potesse orientare la decisione in senso diverso, che le stesse avessero operato in regime di subordinazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione C.F. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso l’INPS. La Gerit spa non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo si lamenta violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 18 e 35, D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 25 e L. n. 88 del 1989, art. 43, chiedendo a questa Corte di stabilire se, alla luce del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 4, nonchè della L. n. 689 del 1981, artt. 18 e 35 e L. n. 88 del 1989, art. 43, è illegittima o meno la cartella esattoriale relativa al recupero dei crediti previdenziali conseguenti ad accertamenti effettuati dall’Ufficio, emessa prima che il competente organo si sia pronunciato sul gravame amministrativo proposto contro lo stesso accertamento dell’ufficio e senza che sia stata emessa ordinanza-ingiunzione.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., art. 116 c.p.c. e D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, nonchè di ogni norma e regola giurisprudenziale in materia di valutazione della prova, e vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se nel caso di giudizio relativo ad opposizione a cartella esattoriale emessa per il recupero di contributi previdenziali conseguenti a verbale ispettivo, con il quale è stato ritenuto che le lavoratrici, benchè impiegate in forza di un contratto scritto definito di collaborazione coordinata e continuativa, abbiano svolto la propria attività in regime di subordinazione, incombe o meno sull’Istituto previdenziale, in virtù della contestazione di quel verbale da parte della ditta sia in sede amministrativa che nell’ambito del giudizio stesso, l’onere di provare in giudizio i fatti sui quali si fonda il contestato recupero contributivo.

3.- Il primo motivo è infondato in quanto – anche a voler prescindere dalla considerazione che la problematica relativa alla possibilità di estendere alla richiesta di adempimento delle obbligazioni contributive i requisiti di legittimità del procedimento previsto dalla L. n. 689 del 1981 in materia di irrogazione delle sanzioni amministrative, che forma oggetto dell’iter argomentativo del primo motivo, non trova adeguato riscontro nella formulazione del quesito di diritto che conclude l’esposizione del motivo di ricorso in esame – la Corte territoriale si è uniformata al principio di diritto ripetutamente espresso da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 9863/2004, Cass. n. 9114/2005) secondo cui il particolare procedimento previsto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 (modifiche al sistema penale) per l’irrogazione della sanzione amministrativa e i requisiti di legittimità ed efficacia del relativo procedimento non si estendono alla richiesta di adempimento delle obbligazioni previdenziali, ancorchè tale richiesta, mediante ordinanza – ingiunzione (o decreto ingiuntivo), sia congiunta a quella della sanzione amministrativa.

Pertanto, in ipotesi di ricorso alla ordinanza – ingiunzione, ai sensi dell’art. 35, comma 2, di detta legge, per il pagamento sia della sanzione amministrativa che dei contributi assicurativi e relativi accessori, l’inosservanza dell’obbligo della contestazione o della notificazione dell’illecito (che è causa di nullità dell’ordinanza per la parte relativa alla sanzione amministrativa) non spiega alcun effetto in ordine alle pretese concernenti i contributi assicurativi e gli accessori.

Lo stesso principio è evidentemente applicabile anche nel caso in cui la richiesta di adempimento dell’obbligazione contributiva sia stata effettuata mediante ricorso al procedimento d’ingiunzione o mediante l’iscrizione a ruolo (D.Lgs. n. 46 del 1999, artt. 24 e 25).

4.- Quanto all’asserita violazione del disposto del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, commi 3 e 4, va rilevato anzitutto che l’atto presentato dal C. in data 13.10.1997, al di là della sua formale intestazione, non può essere considerato come un “ricorso” avverso il verbale di accertamento ispettivo, ma piuttosto come uno “scritto difensivo” a norma della L. n. 689 del 1981, art. 18, contenente richiesta di essere sentito dal dirigente della competente sede dell’ente previdenziale. In ogni caso, poi, anche a voler considerare tale atto come ricorso amministrativo, non potrebbe comunque ritenersi sussistente alcuna violazione da parte dell’Inps, in quanto il quesito proposto dal ricorrente dovrebbe trovare, in tal caso, risposta nel principio di diritto già affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 1584/2010) secondo cui “in tema di omissioni contributive, il D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 1, nel prevedere espressamente che la riscossione dei contributi o premi dovuti agli enti previdenziali non versati dal debitore nei termini di legge ovvero di quelli dovuti a seguito di accertamento d’ufficio, ivi comprese le sanzioni e le somme aggiuntive, avviene mediante iscrizione a ruolo da effettuarsi entro i termini di decadenza previsti dall’art. 25 del citato D.Lgs. n. 46, esclude l’applicabilità della procedura di cui alla L. n. 689 del 1981 e la necessità di atti prodromici per la validità della riscossione. Ne consegue che, ove sia stata proposta opposizione in sede amministrativa contro l’atto di accertamento ispettivo, l’ente previdenziale deve procedere all’iscrizione a ruolo anche se non sia intervenuta alcuna decisione in sede di gravame, senza che la mancata risposta dell’organo competente configuri un tacito accoglimento dell’opposizione o determini l’impossibilità di dare corso alla riscossione”.

5.- Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile per difetto dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, infatti, la formulazione del quesito di diritto previsto dall’art. 366 bis postula l’enunciazione, da parte del ricorrente, di un principio di diritto diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato e, perciò, tale da implicare un ribaltamento della decisione assunta dal giudice di merito; ne consegue che non è ammissibile un motivo di ricorso che si concluda con un quesito non corrispondente al contenuto del motivo stesso (cfr. ex plurimis Cass. n. 28280/2008, Cass. sez. unite n. 6530/2008) o che non sia in alcun modo riferibile alla fattispecie o che sia comunque inidoneo ad evidenziare sia il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che chiede venga affermato, sia il principio, diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato, la cui auspicata applicazione potrebbe condurre ad una decisione di segno diverso (cfr. ex plurimis Cass. n. 11535/2008, Cass. n. 24339/2008).

6.- Nella specie, il quesito formulato dal ricorrente a conclusione del secondo motivo di ricorso si rivela del tutto inadeguato a recepire l’iter argomentativo che supporta le relative censure e ad evidenziare il nesso tra la fattispecie concreta e il principio di diritto di cui si chiede l’enunciazione, e così a consentire al giudice di legittimità l’immediata individuazione della questione sulla quale è chiamato in concreto a pronunciarsi e ad esercitare la propria funzione nomofilattica.

7.- E’ ben vero, infatti, che, come questa Corte ha già affermato (cfr. Cass. n. 12108/2010, Cass. n. 22862/2010), in tema di riparto dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava su colui che si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorchè sia convenuto in giudizio di accertamento negativo, con la conseguenza che, nel giudizio promosso da una società per l’accertamento dell’insussistenza dell’obbligo contributivo preteso dall’Inps sulla base di verbale ispettivo, incombe sull’Istituto previdenziale la prova dei fatti costitutivi del credito preteso, rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria. Nella specie, tuttavia, la Corte territoriale non ha affermato un principio, diverso da quello sopra enunciato, quanto al regime dell’onere della prova, ma, fermo il principio di cui sopra, ha evidenziato che a fronte di una circostanziata ricostruzione delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, derivante dalle risultanze processuali, non vi era stata una contestazione specifica da parte dell’appellante, sicchè doveva ritenersi provato, alla stregua di quelle risultanze, che le lavoratrici in questione avessero prestato la propria attività lavorativa in regime di subordinazione. A tanto consegue, evidentemente, che l’affermazione del principio di diritto di cui si chiede l’applicazione non potrebbe mai condurre ad una decisione di segno diverso da quello del provvedimento impugnato e che il motivo in esame deve, quindi, ritenersi inammissibile.

8.- Parimenti inammissibile è la censura relativa al denunciato vizio di motivazione. Questa Corte ha già precisato che anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che costituisca un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo e che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di quesito, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

9.- Nella specie, le dedotte carenze motivazionali della sentenza impugnata non risultano sufficientemente individuate e precisate nel motivo di ricorso nel senso che si è sopra indicato, ovvero mediante la necessaria indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, e delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, in una parte del motivo che costituisca un momento di sintesi del complesso degli argomenti critici sviluppati nell’illustrazione dello stesso motivo; dovendo rimarcarsi, peraltro, che, come questa Corte ha costantemente ribadito, il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata può giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito – poichè in questo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione – ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 18885/2008, Cass. n. 6064/2008).

10.- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la conferma della sentenza impugnata.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente nei confronti dell’Inps, mentre non deve provvedersi in ordine alle spese nei confronti della società Gerit, che non ha svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore dell’Inps delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre accessori di legge;

nulla sulle spese nei confronti della Gerit.

Redazione