Lavoratrice legata al datore da un rapporto di stretta parentela, ma è sempre lavoratrice subordinata (Cass. n. 14804/2013)

Redazione 13/06/13
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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Ascoli Piceno con sentenza n. 476/06, in accoglimento della domanda proposta da N..C. nei confronti della sorella, Avv. C.C., accertava che la prima aveva svolto lavoro subordinato alle dipendenze dell’altra, quale segretaria, dal 1 luglio 1996 al 12 luglio 2001, e condannava l’Avv. C. a corrisponderle la somma lorda di Euro 35.200 a titolo di differenze retributive, con gli accessori di legge.
Tale decisione veniva impugnata dall’Avv. C. nonché, in via incidentale, dalla lavoratrice e la Corte d’Appello di Ancona, con sentenza in data 23 gennaio – 17 febbraio 2009, in parziale riforma della decisione di primo grado, riduceva il suddetto importo ad Euro 2.582,25 per tredicesima mensilità e ad Euro 2.678,94 per trattamento di fine rapporto.
La Corte territoriale, dopo aver rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione passiva proposta dall’Avv. C. sul rilievo che lo studio professionale ove assumeva di aver lavorato la sorella apparteneva ad una associazione professionale, di cui l’Avv. C. era partecipe, ha osservato:
– che la lavoratrice aveva svolto lavoro subordinato alle dipendenze della sorella, presso il suo studio professionale, quale segretaria;
– che non era stata offerta la prova per vincere la presunzione di onerosità della prestazione di lavoro dipendente, considerato peraltro che fra le due sorelle non v’era rapporto di convivenza;
– che era corretto il riferimento al 3^ livello retributivo operato dal giudice di primo grado nel liquidare l’ammontare della retribuzione in via equitativa;
– che, tenuto conto delle particolari modalità del rapporto in ragione del vincolo di parentela esistente tra le parti ed in particolare del contenuto ridotto delle prestazioni rese e della libertà di movimento di cui la dipendente godeva, era da ritenere “giustificato……un compenso mensile di L. 1.000.000 -pari ad Euro 516,45 – quale corrisposto in moneta o in altra forma da C. a N. e da costei accettato”;
– che gli importi ancora dovuti alla lavoratrice ammontavano ad Euro 2.582,25 per tredicesima mensilità ed Euro 2.678,94 per trattamento di fine rapporto, pacificamente non versati;
– che pertanto la somma al cui pagamento l’Avv. C. era stata condannata andava ridotta a tali importi;
– che era inammissibile, ex art. 434 cod. proc. civ., l’appello incidentale proposto dalla lavoratrice, non essendo state indicate specificamente le ragioni poste a sostegno dello stesso.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’Avv. C. . Resiste con controricorso N..C. , proponendo altresì ricorso incidentale, al quale ha fatto seguito il relativo controricorso da parte della prima.

Motivi della decisione

1. I riocrsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c..
2. Il ricorso principale è articolato in cinque motivi, cui fanno seguito, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., allora in vigore, i relativi quesiti di diritto.
3. Con il primo motivo è denunziato vizio di motivazione in ordine alla affermata natura subordinata del rapporto.
Si deduce che la Corte territoriale non ha correttamente valutato le deposizioni testimoniali, dalle quali era emersa la insussistenza dei tratti caratteristici della subordinazione: soggezione al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro; doveri di obbedienza e disciplina; inserimento nell’organizzazione datoriale; osservanza dell’orario di lavoro; presenza continua nel posto di lavoro.
La sentenza impugnata, pur dando atto che la lavoratrice non svolgeva alcune prestazioni rientranti nell’attività di segreteria, che godeva di libertà di movimento e che fruiva di innegabili vantaggi in forza del rapporto parentale, ha tuttavia contraddittoriamente affermato che il rapporto fosse di natura subordinata.
4. Con il secondo motivo si denunzia vizio di motivazione nonché violazione degli artt. 36 Cost. e 2094 cod. civ. nonché dell’art. 15 del CCNL dei dipendenti degli studi professionali allora in vigore.
Si deduce che la sentenza impugnata ha dato atto che la ricorrente svolgeva solo in parte le mansioni riservate ad una segretaria di studio professionale; che tale circostanza era stata confermata dai testi; che ciò non era stato considerato ai fini della qualificazione del rapporto; che peraltro le mansioni svolte dalla lavoratrice non rientravano nel 3^ livello del contratto collettivo di categoria.
5. Il terzo motivo denunzia violazione e falsa applicazione “di una norma di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c.” nonché vizio di motivazione.
Si deduce che erroneamente è stato disconosciuto che la prestazione fosse stata resa sulla base di un contratto innominato di lavoro gratuito, fondato sul rapporto di parentela. L’avvenuta percezione di un pagamento in natura, la libertà di movimento, il mancato timore del licenziamento, riconosciuti dalla sentenza impugnata, erano la dimostrazione palese della reale causa del rapporto ed escludevano l’onerosità della prestazione.
Richiama la ricorrente le deposizioni testimoniali, assumendone la non corretta valutazione.
6. Con il quarto motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2727, 2728 e 2729 cod. civ..
Si censura la sentenza impugnata per avere la stessa tratto elementi presuntivi, a favore della natura subordinata del rapporto, dal fatto che ragionevolmente ogni studio professionale deve avvalersi di una segretaria. Siffatta presunzione, oltre a non essere sorretta da elementi gravi, precisi e concordanti, è del tutto illogica, evidente essendo che non tutti gli studi professionali si avvalgono della collaborazione di un dipendente.
7. Con il quinto motivo è denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ..
Si deduce che la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese in ambito familiare può essere superata dalla parte che faccia valere in giudizio diritti derivanti da tali rapporti solo con una prova rigorosa degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinata.
Nella specie tale prova, a carico della lavoratrice, non era stata offerta.
8. Il ricorso incidentale è articolato in due motivi, ai quali fanno seguito i relativi quesiti di diritto.
9. Il primo motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2099 cod. civ. e dell’art. 432 cod. proc. civ..
Si deduce che la liquidazione equitativa, pur essendo discrezionale, non dove tradursi in una liquidazione arbitraria. Essa inoltre deve tenere conto delle modalità e della durata dell’inadempienza.
Nella specie la Corte territoriale, dopo aver confermato la decisione di primo grado, che aveva individuato la retribuzione dovuta alla lavoratrice in quella prevista dal CCNL dei dipendenti di studi professionali, 3^ livello, ha operato sulla liquidazione equitativa effettuata dal primo giudice – che già aveva ridotto di 60 milioni l’importo che sarebbe spettato alla lavoratrice in base al contratto collettivo – una ulteriore riduzione, priva di raffronti fra la quantità e la qualità delle prestazioni e il trattamento economico previsto dal predetto contratto, senza esporre adeguatamente le ragioni di una siffatta decisione, finendo, così, con l’attribuire alle elargizioni corrisposte un carattere sostanzialmente esaustivo delle obbligazioni del datore di lavoro. Questa ulteriore decurtazione, aggiunge, ha comportato un azzeramento delle spettanze riconosciute dal primo giudice, salvo che per la tredicesima mensilità ed il trattamento di fine rapporto, non versati dalla parte datoriale.
10. Il secondo motivo del ricorso incidentale denunzia violazione dell’art. 36 Cost..
Si deduce che, nel procedere alla valutazione equitativa, la sentenza impugnata ha ritenuto congruo l’importo mensile di un milione di lire percepito dalla lavoratrice, peraltro sotto forma di accollo delle utenze e del vitto alla famiglia, composta anche dal padre, di qualche capo di vestiario e di altre necessità del genere.
Tale retribuzione, viceversa, era palesemente inadeguata ad assicurare alla lavoratrice un’esistenza libera e dignitosa ex art. 36 Cost., essendo stata la medesima privata di qualsiasi ulteriore risorsa da poter spendere secondo le proprie scelte e per le sue personali finalità.
11. Il ricorso principale, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, non è fondato.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (cfr., tra le altre, Cass. 9 agosto 2004 n. 15355; Cass. 21 aprile 2006 n. 9368; Cass. 18 aprile 2007 n. 9245; Cass. 26 giugno 2007 n. 14752).
Nella fattispecie in esame non si ravvisano nella motivazione della sentenza impugnata carenze, insufficienze, contraddizioni logiche né tanto meno si riscontra l’omesso esame di elementi che avrebbero potuto condurre a una diversa decisione in ordine alla natura subordinata del rapporto, avendo la Corte territoriale dato sufficientemente conto di tale statuizione.
Ed infatti, ha ritenuto provate le mansioni di segretaria svolte dalla lavoratrice, valorizzando le dichiarazioni dei testi che avevano riferito che la medesima organizzava gli appuntamenti, ordinava le pratiche, redigeva e spediva la corrispondenza, disbrigava le commissioni all’esterno, utilizzava il computer, riceveva i pagamenti, era stabilmente posizionata dietro una scrivania munita di telefono e computer.
Ha ritenuto che la presenza della lavoratrice nello studio della sorella avesse una cadenza quotidiana e che il rapporto fosse connotato dalla subordinazione, osservando a tale ultimo riguardo che, da un lato, lo stesso contenuto delle prestazioni svolte dalla ricorrente postulano precedenti disposizioni ovvero precise direttive da parte di chi in uno studio legale si avvale di una segretaria;
dall’altro che le deposizioni testimoniali avevano confermato il potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro. Inoltre taluni elementi riferiti dai testi (richiesta di spiegazioni in ordine alle assenze, rimostranze, etc.) erano chiaramente indicative della natura subordinata del rapporto.
Era poi da escludere, ad avviso della Corte di merito, la pretesa gratuità delle prestazioni svolte dalla lavoratrice in ragione del legame familiare che univa le due sorelle.
Da un lato esse non erano conviventi, dall’altro il rapporto era sorto, come riferito dal padre D..C. , per consentire alla figlia N. di introdursi nel mondo del lavoro, previa corresponsione di una retribuzione. Ricorreva dunque non già la presunzione di gratuità della prestazione, ma quella di onerosità della stessa.
Trattasi di una motivazione congrua, coerente e immune da vizi, che si sottrae alle critiche che le vengono mosse, le quali sostanzialmente tendono a contrapporre alla valutazione dei fatti e delle prove operata dal giudice di merito una diversa valutazione favorevole alla ricorrente principale.
Né il giudice di merito è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ovvero a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, dovendosi ritenere legittimamente disattese, anche solo in maniera implicita, le deduzioni difensive che siano logicamente incompatibili o palesemente irrilevanti rispetto alla decisione adottata (cfr., per tutte, Cass. 27 luglio 2006 n. 18375).
Di nessun rilievo è la circostanza, secondo cui la sentenza impugnata avrebbe tratto elementi presuntivi, a favore della natura subordinata del rapporto, dal fatto che ragionevolmente ogni studio professionale deve avvalersi di una segretaria.
Trattasi di un argomento dedotto ad abundantiam, non idoneo ad inficiare le molteplici ragioni poste dalla sentenza impugnata alla base del decisum.
Le circostanze, poi, richiamate nella sentenza impugnata, secondo cui la lavoratrice non svolgeva talune mansioni rientranti nell’attività di segreteria e godeva di libertà di movimento in ragione del rapporto parentale, sono del tutto inidonee ad escludere la natura subordinata del rapporto. Di tali elementi peraltro il giudice ha tenuto conto ai fini della determinazione del quantum, come sarà osservato più avanti.
Inammissibile è infine la censura relativa alla attribuzione alla lavoratrice del terzo livello del CCNL degli studi professionali, statuizione questa adottata dal primo giudice e confermata in appello sul rilievo che il livello “proposto dall’appellante comprende anche il personale addetto alle pulizie”.
L’appellante, nel contestare tale statuizione, non ha evidenziato, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, i rilievi mossi in sede di appello alla sentenza del Tribunale e le violazioni od omissioni in cui è incorsa la sentenza impugnata nel confermare la statuizione di primo grado, incentrando sostanzialmente la censura sull’affermazione della Corte di merito secondo cui la lavoratrice “…..non svolgeva alcune delle prestazioni pur rientranti nell’attività di segreteria”, elemento questo irrilevante per il principio della prevalenza delle prestazioni in tema di inquadramento dei lavoratori.
Il ricorso principale deve quindi essere rigettato.
12. Neanche il ricorso incidentale, i cui connessi motivi vanno trattati congiuntamente, può trovare accoglimento.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che nel caso in cui sia certo il diritto alla prestazione spettante al lavoratore, ma non sia possibile determinare la somma dovuta, sicché il giudice la liquida equitativamente ai sensi dell’art. 432 cod. proc. civ., l’esercizio di tale potere discrezionale non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, purché la motivazione della decisione dia adeguato conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo (Cass. 19 febbraio 2013 n. 4047; Cass. 7 gennaio 2009 n. 50; Cass. 18 agosto 2005 n. 16992; Cass. 23 luglio 2004 n. 13887).
Nella specie la Corte territoriale, nel dare atto del rapporto di subordinazione esistente tra le parti, ha posto in evidenza che la prestatrice fruiva di innegabili vantaggi in forza del rapporto parentale con la datrice di lavoro.
Non era soggetta la lavoratrice a rigidi orari di lavoro, non eseguiva talune prestazioni connesse all’attività di segreteria, quali la preparazione dei fascicoli, la redazione delle fatture, la gestione dell’archivio. Inoltre, come sopra osservato, godeva di “libertà di movimento”, che le consentiva il disbrigo di eventuali altre incombenze anche durante l’orario di lavoro.
Tali elementi – pur non incidendo sulla natura subordinata del rapporto – sono stati tenuti presenti, ai fini della liquidazione equitativa delle prestazioni, dalla Corte di merito, la quale, assumendo come punto di riferimento la somma mensile di lire un milione corrisposta alla lavoratrice in danaro o in natura nel corso del rapporto, ha ritenuto che tale importo, in relazione alle retribuzioni previste per i dipendenti di 3^ livello, non dovesse essere ulteriormente aumentato – così come aveva fatto il primo giudice – trattandosi sostanzialmente di una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.
Trattandosi di un percorso argomentativo coerente ed immuni da vizi, i motivi in esame vanno respinti.
13. Al rigetto di entrambi i ricorsi consegue la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.
14. Come da richiesta della ricorrente principale, in applicazione del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52, comma terzo (Codice in materia di protezione dei dati personali), va disposta sulla presente sentenza, a cura della cancelleria, l’annotazione contenente il divieto di riportare le generalità delle parti in caso di diffusione della presente pronuncia.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese tra le parti. Dispone che, a cura della Cancelleria, sia apposta su questa sentenza l’annotazione di cui al d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52, terzo comma, contenente il divieto di riportare le generalità delle parti in caso di diffusione della presente pronuncia.

Redazione