La rilevanza e l’ammissibilità della prova nuova in giudizio d’appello (Cass. n. 8224/2013)

Redazione 04/04/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. **** conveniva in giudizio il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ed il Ministero dell’Interno e deduceva: che in data 29/5/1999 alcuni funzionari dei Ministero per i beni e le attività culturali, assistiti da agenti della Polizia di Stato, avevano provveduto all’esecuzione forzata dell’ordinanza di sgombero dei locali siti in (omissis), emessa in data 27/5/1997 dal Sopraintendente ai beni archeologici di Roma; e che nei menzionati locali esso istante aveva esercitato fino al momento dello sgombero l’attività di vendita al minuto di generi di profumeria; che coloro che avevano provveduto all’esecuzione dello sgombero avevano irrimediabilmente danneggiato tutte le merci da esso istante detenute per la vendita; che anche gli arredi del negozio erano andati irrimediabilmente perduti, sia perchè danneggiati durante l’esecuzione dello sgombero sia perchè abbandonati nei locali sgomberati, nei quali non era gli più stato consentito di accedere. Chiedeva pertanto accertare e dichiarare che gli atti compiuti dalla Pubblica Amministrazione attraverso i propri organi per l’esecuzione dello sfratto forzoso dell’istante dal locale predetto erano lesivi dei suoi diritti soggettivi; conseguentemente condannare i convenuti in solido al risarcimento di tutti i danni prodotti dall’esecuzione dello sgombero del 29 maggio 1999 nella misura di lire 170.000.000 o in quella maggiore o minore ritenuta comprovata e di giustizia. I convenuti si costituivano e contestavano che nel corso delle operazioni di sgombero fossero stati danneggiati gli arredi dei negozio e gli articoli di profumeria dai L. detenuti per la vendita. Il Tribunale accoglieva la domanda e condannava i Ministeri in solido al pagamento di Euro 3.200,00= in favore del L.. Osservava il giudice di primo grado che nessun tipo di attività istruttoria era stata svolta dai Ministeri convenuti, i quali, pur avendo preannunciato nella comparsa di costituzione la produzione degli “atti della procedura di espropriazione e dei verbali di sgombero” e pur avendo indicato nella stessa numerosi nomi di testimoni delle operazioni: di sgombero, non avevano provveduto ad eseguire la preannunciata produzione documentate nè ad articolare e richiedere una prova testimoniale.

Rilevato che nè nella comparsa di costituzione, nè nell’indice dei fascicolo di parte (dove erano annotate solo la comparsa di costituzione e la copia notificata dell’atto di citazione ed in calce al quale, peraltro, mancava il bollo e la firma del Cancelliere) nè nei verbali delle udienze risultava che i convenuti avessero prodotto documenti. Per tale motivo il Tribunale aveva omesso l’esame di una sorta di relazione inviata dal Ministero per i beni e le attività culturali all’Avvocatura dello Stato, che si trovava (recte: che si assumeva trovarsi) nel fascicolo di parte convenuta, ma che non risultava essere stata prodotta (e meno ancora risultava essere stata prodotta ritualmente e tempestivamente).

2. Con la sentenza oggetto della presente impugnazione, depositata il 5 novembre 2007, la Corte d’Appello di Roma ha, per quanto qui rileva, respinto l’appello erariale, affermando che, con esso, l’amministrazione aveva inteso giustificare l’assenza di una sua attività difensiva in primo grado, con la con la scomparsa di atti (rapporto amministrativo e processo verbale dell’esecuzione) depositati all’udienza 22 giugno 2000 e “senza che di tale mancanza ne fosse stata edotta la difesa dell’Amministrazione convenuta” (p. 2 atto di appello). Detti documenti, asseritamente “scomparsi”, erano stati depositati in appello, ma a tale produzione, ritenuta tardiva, si era opposta la difesa del L., la cui contestazione, era fondata, perchè la produzione documentale effettuata in appello dal Ministero doveva considerarsi processualmente nuova, e come tale, inammissibile, a norma dell’art. 345 c.p.c.. Nella sentenza di primo grado, il primo giudice aveva evidenziato che…nè nella comparsa di costituzione, nè nell’indice del fascicolo di parte… nè nei verbali delle udienze risultava che i convenuti avessero prodotto i documenti, precisando, inoltre, di avere omesso l’esame di una sorta di relazione inviata dal Ministero per i beni e le attività culturali all’Avvocatura dello Stato, rinvenuta nel fascicolo di parte convenuta, informalmente e senza la prova di una sua produzione. A fronte di una così ampia motivazione del Tribunale, secondo la Corte territoriale, sarebbe stato, onere dell’Avvocatura erariale depositare il fascicolo di parte di primo grado, per consentirle di verificare la rituale produzione dei documenti “scomparsi” e di cui già il primo giudice aveva riscontrato l’assenza, ma tale incombente non era stato adempiuto dal Ministero.

Nè era possibile ricostruire il contenuto del verbale di udienza del 22 giugno 2000 – in cui vi sarebbe stato il deposito dei documenti poi scomparsi – in quanto, come concordemente riferito dalle parti a verbale d’udienza del 15 dicembre 2000, detto verbale era andato smarrito. Se tali erano le risultanze processuali, mancava qualsiasi traccia in primo grado dei documenti prodotti in appello dal Ministero per i beni e le attività culturali e non si poteva, quindi, che ribadire l’inammissibilità e l’inutilizzabilità di detta documentazione ex art. 345 c.p.c..

3. Il Ministero per i Beni culturali e quello dell’Interno propongono ricorso per cassazione sulla base dei seguenti due motivi; Il L. resiste con controricorso, e chiede di dichiararsi inammissibile o comunque respingersi il ricorso:

3.1 Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Omessa motivazione in ordine alla necessità del documento ai fini della decisione della causa in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5. Secondo la parte ricorrente, la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere non ammissibili prove documentali perchè tardivamente prodotte. Formula al riguardo il seguente quesito di diritto: “se, ai sensi dell’articolo 345 comma 3, nell’escludere l’ammissibilità in sede di appello di una produzione documentale, il giudice possa omettere legittimamente ogni motivazione in ordine alla necessità ai fini decisori di un documento facente fede fino a querela di falso sugli stessi fatti oggetto del giudizio”;

3.2 Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. L’odierno ricorrente censura la sentenza nella parte in cui evidenzia che dalle risultanze processuali manchi qualsiasi traccia in primo grado dei documenti prodotti in appello da esso, ribadendone l’inammissibilità ex art. 345 c.p.c., trascurando la circostanza che “l’ufficio giudiziario di prime cure avesse smarrito due verbali di causa”.

Formula pertanto un duplice quesito: 1) “se ai sensi e per gli effetti dell’art. 345 c.p.c., comma 3, possa ricondursi alla responsabilità della parte lo smarrimento dei verbali d’udienza, con conseguente venir meno delle prova dell’avvenuta tempestiva produzione di un documento rilevante”; 2) “se ai sensi e per gli effetti dell’art. 345 c.p.c., comma 3, possa considerarsi nuova prova un documento la cui ammissione ed il cui esame sia stato comunque statuita dal giudice di primo grado e la cui nuova produzione sia stata tempestivamente effettuata in appello, a supporto dei relativi motivi di impugnazione”.

4. I due motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto formulati avverso la medesima statuizione, si rivelano privi di pregio.

Essi, così come formulati, non sono idonei a censurare la decisione impugnata, poichè da un confronto tra questa ed i quesiti è evidente che le doglianze mosse dal ricorrente non sono riferibili all’effettivo decisum della sentenza. La Corte territoriale, con motivazione congrua e corretta, ha ritenuto nuova la produzione dei documenti in appello e come tali inammissibili e inutilizzabili ex art. 345 c.p.c.. Dal canto suo, l’odierno ricorrente, limitandosi a invocare la necessità ai fini decisori della predetta documentazione, e pur denunciandone la scomparsa dagli atti del giudizio di prime cure, non ha provveduto a depositare il fascicolo di tale grado di giudizio dal quale il giudice di appello avrebbe potuto verificare la loro rituale produzione. In tal modo, non ha ottemperato l’onere probatorio su di egli incombente, rispetto al motivo di gravame ritualmente formulato, con cui si denunciava la scomparsa dei documenti in questione dagli atti di causa. Incentrando la censura in questa sede, sulla decisione del Giudice di appello, nella parte in cui ritiene non necessari ai fini della decisione i documenti in discorso, il ricorrente non tiene conto che nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si è formata, sicchè solo ciò che la decisione afferma a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che, nel contraddittorio in primo grado e nella relativa istruzione, non era apprezzabile come utile e necessario. Ne consegue che, se la formazione della decisione è avvenuta in una situazione nella quale lo sviluppo del contraddittorio e delle deduzioni istruttorie avrebbero consentito alla parte di valersi del mezzo di prova, perchè funzionale alle sue ragioni, deve escludersi che la prova sia indispensabile, se la decisione si è formata prescindendone, essendo imputabile alla negligenza della parte il non aver introdotto tale prova (Cass. 7441/2011). Scorrendo gli atti di causa, è evidente che proprio a tale negligenza debba essere ascritto il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sull’odierno ricorrente. Già dalla motivazione della sentenza di primo grado si evince che l’allora convenuto (odierno ricorrente) non aveva svolto alcuna attività istruttoria. E pur censurando con i motivi di appello tale punto della sentenza, motivando l’assenza di attività istruttoria con lo smarrimento dei verbali dagli atti di causa, nessuna prova ha fornito in tal senso, nè tantomeno hanno offerto argomentazioni idonee a ritenere tali documenti indispensabili ai fini del giudizio.

Senza contare che il quesito formulato in relazione al primo motivo è inidoneo, dovendosi ribadire che, nell’eventualità in cui, come nel caso di specie, si denunzino con un unico articolato motivo di impugnazione vizi diversi, il ricorso è ammissibile solo se lo stesso si concluda con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali riferibile al singolo profilo dedotto, e sintetizzanti le ragioni illustrate nel motivo, in modo da consentire alla Corte di rispondere con l’enunciazione di una “regola iuris” idonea a trovare applicazione ulteriori al di la del caso sottoposto all’esame del giudice che ha emesso la sentenza impugnata (Cass. 15242/2012).

Sono inidonei anche i due quesiti formulati in relazione secondo motivo di ricorso. Al riguardo occorre ribadire che l’art. 366 bis c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, prevede le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, disponendo la declaratoria d’inammissibilità del ricorso se, in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ciascuna censura, all’esito della sua illustrazione, non si traduca in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza; mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta un’illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria -ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (Cass. n. 4556/09). Nel caso in esame, rispetto al secondo motivo che deduce vizi motivazionali, non è stato formulato il “momento di sintesi”, che, come da questa Corte precisato, richiede un quid pluris rispetto alla mera illustrazione del motivo, imponendo un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile (v. Cass., 18/7/2007, n. 16002). Manca, quindi, in relazione a detta censura, la chiara indicazione delle parti della motivazione che si assumono contraddittorie, di modo che manca l’adeguata sintesi, che circoscriva puntualmente i limiti della doglianza, in modo da non ingenerare incertezze nella formulazione del ricorso e nella valutazione della sua ammissibilità (Cass. S.U. n. 20603/2007 e 16528/2008; Cass. n. 27680/2009, ord.).

L’individuazione dei denunziati vizi di motivazione risulta, perciò, impropriamente rimessa all’attività esegetica del motivo da parte di questa Corte (Cass. n. 9470/08), che, invece, deve essere posta in condizione di comprendere dalla sola lettura del quesito o del momento di sintesi quale sia l’errore commesso dal giudice di merito (Cass. n. 24255/2011).

Quanto, infine, alla violazione dell’art. 345 c.p.c., dedotta nel motivo in esame, si deve ribadire che il quesito di diritto si rivela inidoneo, in quanto non può consistere in una domanda che si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. A titolo indicativo, si può delineare uno schema secondo il quale sinteticamente si domanda alla corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata (Cass. S.U., ord. n 2658/08). E ciò quand’anche le ragioni dell’errore e della soluzione che si assume corretta siano invece – come prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 4 – adeguatamente indicate nell’illustrazione del motivo, non potendo la norma di cui all’art. 366 bis c.p.c., interpretarsi nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass. 20 giugno 2008 n. 16941). Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede, pertanto, che, con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto, formulato in modo tale da circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (v. Cass., 17/7/2008 n. 19769; 26/3/2007, n. 7258).

Oltre a tali profili d’inidoneità del quesito, anche il secondo motivo di ricorso difetta di riferibilità alla decisione impugnata, circostanza frutto del fraintendimento, da parte del ricorrente, della ratio decidendi della sentenza di appello. Deve ribadirsi che la Corte territoriale si è semplicemente limitata a ritenere non fornita la prova in merito allo smarrimento dei documenti contestati, non attribuendo al ricorrente, come erroneamente sostenuto nel motivo, alcuna responsabilità in merito a simile fatto. Nè tantomeno risulta che il giudice di prime cure abbia statuito in merito all’ammissibilità di detti documenti, al contrario ritenendo assente qualsivoglia attività istruttoria da parte del ricorrente odierno nel giudizio instaurato innanzi ad egli.

5. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.700,00, di cui Euro 4.500 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2013.

Redazione