La qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di degrado o di inquinamento (Cons. Stato n. 5989/2012)

Redazione 27/11/12
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FATTO

La società Loleasing s.p.a. riferisce di essere proprietaria di un compendio immobiliare (esteso per circa mq. 77.990) facente parte della zona denominata ‘Parco San Giorgio’, situata nel territorio del Comune di Casorate Sempione (Va).

La zona in questione era stata dichiarata come di ‘notevole interesse pubblico’ con decreto ministeriale in data 10 marzo 1958, in quanto “la sua ricca vegetazione arborea costituisce un unico quadro naturale di non comune bellezza panoramica, godibile da vari punti di vista”. In tale occasione, l’intera tenuta era stata vincolata quale ‘bellezza di insieme’ a cagione della trama di relazioni che nel tempo si era instaurata fra i singoli elementi che la componevano (e, in particolare, fra l’edificio gentilizio, il giardino e il bosco).

Con istanza in data 12 giugno 2002, la società Loleasing aveva proposto, per il tramite della Regione Lombardia, un’istanza finalizzata alla riduzione del vincolo paesaggistico imposto nel corso del 1958, adducendo una serie di motivazioni le quali deponevano – nella tesi dell’appellante – nel senso del superamento delle ragioni di tutela che avevano a suo tempo giustificato l’apposizione del vincolo sulla zona, individuata quale ‘bellezza d’insieme’.

In tale occasione, la società appellante aveva sottolineato che:

– lo ‘smembramento’ dell’originario unico comprensorio in cui consisteva il ‘Parco San Giorgio’ in tre distinte proprietà aveva alterato in modo irreversibile lo stato di fatto che aveva indotto l’Autorità statale nel corso del 1958 a tutelare la ‘bellezza di insieme’ unitariamente rappresentata dalle singole componenti del complesso;

– in particolare, il degrado del bosco aveva contribuito al degrado ambientale della zona, in tal modo facendo venir meno le esigenze di tutela sottese all’adozione del decreto di apposizione del vincolo;

– l’installazione di un elettrodotto ad alta tensione (il quale aveva, nei fatti, diviso in due il comprensorio, peraltro appartenente a tre diversi proprietari) aveva vanificato la visione prospettica del viale alberato di faggi, il quale costituiva l’essenza originaria del vincolo stesso;

– in particolare, la porzione del comprensorio di proprietà dell’appellante (posta al di là dell’elettrodotto, ai margini dell’abitato e “in un contesto di brughiera assolutamente degradata”) aveva nel corso del tempo perduto ogni caratteristica tale da giustificare la permanenza del vincolo a suo tempo imposto.

Risulta agli atti che l’istanza proposta dalla società appellante per il tramite della Regione Lombardia è stata infine esaminata dalla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio di Milano ai sensi della disposizione (ratione temporis rilevante) di cui all’articolo 145 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (‘Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della L. 8 ottobre 1997, n. 352’).

Con nota in data 24 settembre 2004, il Ministero per i beni e le attività culturali comunicava alla società appellante che il Comitato di settore per i beni culturali aveva espresso parere negativo nella seduta del 7 maggio 2004 in relazione all’istanza proposta e che, conseguentemente, il successivo 9 settembre 2004 era stata disposta la reiezione della richiesta della società appellante.

L’atto in questione veniva impugnato dalla società Loleasing dinanzi al T.A.R. per la Lombardia, il quale, con la sentenza in epigrafe, respingeva il ricorso ritenendolo infondato.

La sentenza in questione è stata impugnata in sede di appello dalla società Loleasing, la quale ne ha chiesto la riforma articolando i seguenti motivi:

1) Vizi derivati dal provvedimento di diniego – Violazione della legge n. 241 del 1990 – Eccesso di potere – Carenza di istruttoria – Illogicità manifesta.

La sentenza in epigrafe sarebbe erronea e meritevole di riforma per la parte in cui non ha rilevato l’error in procedendo derivante dalla mancata partecipazione procedimentale della società interessata la quale, se fosse stata posta in condizione di intervenire in modo proficuo nella fase procedimentale, avrebbe potuto dimostrare il superamento delle esigenze di tutela che avevano giustificato, nel lontano 1958, l’apposizione del vincolo sull’area.

2) Violazione di legge (d.lgs. 490 del 1999 – ora: d.lgs 42 del 2004 -) e dei criteri sanciti dal d.m. 10 marzo 1958 – Eccesso di potere per travisamento dei presupposti in fatto e in diritto – Carenza di istruttoria – Insufficiente motivazione ed illogicità della stessa.

La sentenza in epigrafe risulterebbe erronea e meritevole di riforma per non aver rilevato la carenza di istruttoria e di motivazione che caratterizzava i provvedimenti impugnati, i quali non avevano tenuto conto del fatto che, allo stato attuale, non sussisterebbe più nessuno dei valori di straordinario pregio che avevano indotto i competenti Organi ministeriali a dichiarare il compendio del ‘Parco San Giorgio’ come di notevole interesse.

In particolare, la porzione dell’iniziale compendio attualmente di proprietà della società appellante non comprenderebbe: a) né la villa signorile; b) né l’imponente viale di accesso riccamente alberato da faggi; c) né l’immenso parco ricco di alberi secolari; d) né il bosco di pini contemplati nella relazione posta a supposto del decreto ministeriale di apposizione del vincolo.

Al contrario, tale porzione sarebbe composta per il sessanta per cento circa di un terreno prativo privo di alcun pregio e per il rimanente quaranta per cento di alberature ed essenze prive a loro volta di particolare pregio.

Pertanto, il parere del Comitato di settore espresso nella seduta del 7 maggio 2004 sarebbe illegittimo per essersi fondato – di fatto – su una sorta di pseudo-motivazione ricalcata pressoché per intero sulle ragioni che, quasi cinquanta anni addietro, avevano giustificato l’apposizione del vincolo.

Ancora, il complessivo operato dell’amministrazione risulterebbe illegittimo ed erroneo per non aver operato la – pur necessaria – ponderazione fra i diversi interessi (pubblici e privati) nella specie coinvolti, riconoscendo invece un immotivato e ingiustificato favor per il mantenimento del vincolo sull’area.

E ancora, il Tribunale erroneamente non avrebbe considerato che nel caso di specie vi fosse certamente la possibilità di accertare in concreto la permanenza o meno delle caratteristiche oggettive che avevano a suo tempo giustificato l’apposizione del vincolo: tanto sarebbe stato possibile attivando un procedimento assimilabile a quello disciplinato dall’articolo 12 del decreto legislativo 42 del 2004, anche avvalendosi di una consulenza tecnica.

In tal modo, sarebbe stato possibile apprezzare in concreto il venir meno delle condizioni di fatto che a suo tempo avevano indotto a dichiarare l’esistenza di una ‘bellezza d’insieme’, ammettendo la riduzione del vincolo in relazione alla porzione di proprietà della società appellante, in quanto ormai priva di qualunque effettiva caratteristica di pregio.

Si è costituito in giudizio il Ministero per i beni e le attività culturali il quale ha concluso nel senso della reiezione del gravame.

All’udienza pubblica del 3 luglio 2012, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

 

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto da una società attiva nel settore immobiliare avverso la sentenza del T.A.R. della Lombardia con cui è stato respinto il ricorso avverso gli atti con cui la competente Soprintendenza aveva respinto l’istanza volta alla riduzione del vincolo paesaggistico esistente sul complesso denominato Parco di San Giorgio, nel territorio del comune di Casorate Sempione (Va).

2. Come emerge dalla narrativa, la società appellante contesta con svariati argomenti i dedotti profili di carenza di istruttoria e di motivazione che avrebbero viziato gli atti con cui gli Organi del Ministero per i beni e le attività culturali hanno esaminato l’istanza di riduzione della dichiarazione di notevole interesse pubblico a suo tempo pronunziata con riferimento al complesso del ‘Parco San Giorgio’ e hanno concluso nel senso della permanenza delle ragioni di tutela che avevano a suo tempo determinato l’apposizione del vincolo.

Ora, rinviando al prosieguo della presente decisione le questioni relative ai lamentati errores in procedendo (con particolare riguardo al lamentato, mancato coinvolgimento della società appellante nel corso della fase procedimentale), si osserva che il fulcro del thema decidendum consiste nello stabilire se risultino affette dai vizi lamentati le determinazioni (connotate da lata discrezionalità amministrativa) con cui l’amministrazione appellata ha concluso nel senso della reiezione dell’istanza finalizzata alla riduzione del vincolo.

Ora, sotto il profilo generale, il Collegio ritiene che la vicenda di causa debba essere esaminata facendo applicazione del principio (dal quale non si rinvengono ragioni per discostarsi) secondo cui, ai sensi dell’articolo 1, n. 3 e 4 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, come poi trasfuso del testo unico n. 490 del 1999 e nel codice n. 42 del 2004, le determinazioni dell’amministrazione in tema di delimitazione dei confini di una zona da sottoporre a vincolo paesaggistico quale bellezza di insieme costituisce tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile in sede di giudizio di legittimità solo sotto il profilo della manifesta arbitrarietà ed illogicità della scelta operata (in tal senso: Cons. Stato, IV, 20 marzo 2006, n. 1470).

E’ del tutto evidente che il principio in questione trovi applicazione (per palese identità di ratio) anche nelle ipotesi in cui le valutazioni tecnico-discrezionali non siano state operate nella fase – per così dire – ‘genetica’ dell’apposizione del vincolo, bensì nella fase – per così dire – ‘funzionale’ della sua concreta gestione (al cui ambito deve essere ricondotta la richiesta di riduzione del vincolo all’origine dei fatti di causa).

3. Ritiene il Collegio che – per il compiuto esame delle censure contenute nell’atto di appello – vada previamente individuata la natura del provvedimento impugnato in primo grado.

3.1. Va rimarcato come il codice n. 42 del 2004 non disciplina uno specifico procedimento, da attivare d’ufficio o su istanza di parte, volto alla rimozione del vincolo già imposto, e dunque volto alla revoca del provvedimento amministrativo che ha imposto il vincolo.

Il codice neppure prevede che – in accoglimento di una istanza o d’ufficio – l’amministrazione possa dichiarare irrilevante, in tutto o in parte, il vincolo previsto dalla legge statale o regionale.

Al contrario, il codice n. 42 del 2004 – all’art. 141-bis – si ispira al principio per cui l’amministrazione può sempre integrare, e non ridurre, le dichiarazioni di interesse pubblico, aventi per oggetto l’ambito delle aree protette in base ad un provvedimento di vincolo o in base alla legge.

L’assenza di una specifica normativa nazionale attinente alla rimozione del vincolo si spiega, perché – in base ad un principio generale dell’ordinamento più volte enunciato anche da questo Consiglio – l’eventuale degrado dell’area sottoposta alla salvaguardia in base alla legislazione di settore non fa sorgere l’esigenza di rimuovere il vincolo, ma – al contrario – comporta l’esigenza che vi sia una maggiore protezione delle aree tutelate (anche in sede esame delle istanze di autorizzazione), per ‘salvare il salvabile’ ed evitare ulteriori compromissioni e degradi.

Nel sistema del codice, e ai sensi dell’art. 143, comma 4, lettera b), la rilevazione di aree “gravemente compromesse e degradate” (rimessa alla responsabile valutazione di merito dell’autorità amministrativa) può indurre alla approvazione di un piano paesaggistico che escluda la necessità dell’autorizzazione per l’ulteriore modifica dello stato dei luoghi, ma non è considerata dal legislatore una situazione tipica, tale da indurre alla attivazione (d’ufficio o su istanza di parte) di un procedimento di revoca o rimozione del vincolo.

Costituisce pertanto uno ius singulare, come tale insuscettibile di applicazione analogica, la disciplina contenuta nell’art. 3, comma 4 bis, del regolamento governativo n. 357 del 1997 (recante l’attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), che riguarda la valutazione periodica dell’idoneità dei siti, rimessa alle determinazioni del Ministero dell’ambiente, delle Regioni e della Commissione europea (e rispetto alla quale, anche per verificare se vi sia l’obbligo delle autorità nazionali di provvedere su una istanza di riesame, questa Sezione ha sollevato una questione di rinvio pregiudiziale, con l’ordinanza n. 3627 del 12 giugno 2012).

3.2. In considerazione dei principi generali riguardanti l’esercizio del potere di revoca, nonché della normativa contenuta nel codice n. 42 del 2004, l’amministrazione non ha dunque l’obbligo di esaminare le istanze volte ad ottenere la revoca di precedenti provvedimenti divenuti inoppugnabili, di imposizione del vincolo paesaggistico.

Tanto meno l’amministrazione ha l’obbligo di esaminare le istanze volte a far dichiarare la inoperatività della normativa di salvaguardia del bene, quando questo sia stato direttamente vincolato dalla legge o dalla legge regionale.

3.3. Nella specie, l’istanza dell’appellante è stata specificamente istruita dall’amministrazione (che ha acquisito il parere negativo del comitato di settore per i beni ambientali, istituito presso il Consiglio Nazionale), che ha ritenuto insussistenti i presupposti per rimuovere anche parzialmente il vincolo.

Pur non avendo un obbligo giuridico di esaminare l’istanza, l’amministrazione ne ha disposto il rigetto, comunque nell’esercizio di una propria valutazione tecnico-discrezionale, sulla perdurante esigenza di tutelare l’area in questione: l’amministrazione ha ritenuto insussistenti circostanze tali da giustificare la sostanziale revoca del provvedimento di vincolo, emesso nel 1958.

3.4. Ebbene, impostati in tal modo i termini sistematici della questione, il Collegio ritiene che non siano ravvisabili nel caso di specie in relazione alle determinazioni avversate i palesati profili di abnormità e irragionevolezza che – soli – potrebbero indurre a ravvisare l’illegittimità delle richiamate determinazioni.

L’appellante lamenta che, nel rendere il proprio avviso (determinante ai fini dell’adozione del provvedimento finale di segno negativo), il Comitato di settore per i beni culturali e architettonici si sarebbe limitato a una mera conferma in ordine alla sussistenza degli aspetti di particolare pregio che a suo tempo avevano indotto ad imporre il vincolo sull’area.

Osserva al riguardo la Sezione che, in ragione delle esigenza di tutela (desumibili dal codice n. 42 del 2004) riferibili anche alle aree in qualche modo degradate, se anche l’amministrazione si fosse limitata a confermare il provvedimento del 1958, richiamando il pregio dell’area, non si sarebbe potuto rilevare alcun profilo di eccesso di potere.

Peraltro, dall’esame degli atti di causa emerge che il Comitato in questione non si sia limitato a confermare l’originaria valutazione sul pregio, ma abbia in modo del tutto plausibile ritenuto che non fosse intervenuta nel corso degli anni alcuna modifica sostanziale del valore paesistico dell’area, così ribadendo la sussistenza del più volte richiamato vincolo paesistico, anche in ragione dell’effettivo stato dei luoghi.

3.5. Né a conclusioni diverse può giungersi in relazione: a) alla circostanza per cui il compendio inizialmente unitario fosse nel corso degli anni transitato nella proprietà di diversi soggetti; b) alla circostanza per cui il parco San Giorgio fosse stato medio tempore di fatto diviso in due porzioni a causa della realizzazione in loco di un grande elettrodotto; c) alla circostanza per cui la porzione di proprietà dell’odierna appellante verserebbe allo stato in situazione di degrado, sì da non giustificare la permanenza del vincolo a suo tempo apposto.

Ebbene, quanto al primo aspetto, la Sezione osserva che l’individuazione di un compendio quale ‘bellezza di insieme’ deriva da caratteristiche di carattere funzionale e non può essere in alcun modo influenzata dalle vicende proprietarie (invero, del tutto fisiologiche) che interessano le singole sue componenti.

Del resto, nessuna disposizione di legge o di regolamento stabilisce che l’individuazione di un compendio quale ‘bellezza di insieme’ ovvero il mantenimento di tale qualità risulti in alcun modo influenzato dal frazionamento del bene (o delle sue componenti) fra diversi proprietari.

Quanto al secondo aspetto, si osserva che, se per un verso è pacifico in atti che la realizzazione dell’elettrodotto abbia impresso all’area un nuovo assetto visivo e funzionale (attraverso l’ideale suddivisione del compendio in due porzioni), per altro verso non è in alcun modo dimostrato che tale ideale suddivisione abbia determinato il venir meno dell’unitario valore del compendio nel suo complesso.

Ed infatti, secondo una deduzione non contestata in atti, la realizzazione dell’elettrodotto in questione ebbe luogo previa verifica – da parte della competente Soprintendenza – circa la compatibilità fra l’opera in questione e le esigenze derivanti dall’esistenza e dal mantenimento del vincolo (fermo restando che anche una realizzazione abusiva dell’elettrodotto non avrebbe in alcun modo inciso sulla legittimità della valutazione della Soprintendenza in ordine alla persistente esigenza di salvaguardare l’intera area già vincolata).

Da ciò consegue che:

– l’esistenza in loco dell’elettrodotto non risulta affatto incompatibile (al contrario di quanto ritenuto dall’appellante) con la permanenza del vincolo d’insieme sull’area, né vale di per sé a determinarne il venir meno;

– l’ideale cesura spaziale determinata dall’esistenza dell’elettrodotto è ben compatibile con il permanere del carattere unitario del compendio, le cui singole componenti (pur se visivamente distinte) mantengono un carattere unitario derivante da ragioni di armonia dell’insieme e non già da ragioni di fisica compenetrazione.

Quanto al terzo aspetto, il Collegio ritiene di richiamare il consolidato (e qui condiviso) orientamento, già sopra richiamato, secondo cui l’avvenuta edificazione di un’area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, poiché l’imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso (cfr. Cons. Stato, VI, 11 giugno 2012, n. 3401).

Si è condivisibilmente osservato al riguardo che, siccome la qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado di degrado o di inquinamento – ché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela – ne consegue che l’imposizione (o il mantenimento) del relativo vincolo – ovvero l’emanazione di atti preclusivi di ulteriori modifiche dello stato dei luoghi – serve piuttosto a prevenire l’aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero (Cons. Stato, VI, 27 aprile 2010, n. 2377).

Sono pertanto irrilevanti le deduzioni (e i relativi elementi probatori) inerenti al fatto che la porzione di proprietà dell’appellante abbia subito nel corso degli anni un processo di degrado (in specie, per ciò che attiene i valori della flora esistente in loco).

Quindi, ne risulta confermata la correttezza sostanziale delle determinazioni dell’amministrazione, la quale – pur non avendo uno specifico obbligo di prinunciarsi sull’istanza – ha ritenuto di ribadire in sede amministrativa l’esigenza di preservare l’integrità del valore tutelato e di impedirne – attraverso la parziale rimozione del vincolo – l’ulteriore deterioramento.

4. Vanno infine respinte le deduzioni dell’appellante, secondo le quali l’amministrazione avrebbe frapposto presunti ostacoli alla sua piena partecipazione nell’ambito del procedimento conclusosi con le determinazioni impugnate in primo grado.

A parte ogni ulteriore considerazione sull’ambito di applicazione del comma 2 dell’articolo 21-octies della l. 241 del 1990, il Collegio ritiene che nel caso in esame sia decisiva la natura dell’atto emesso dall’amministrazione, all’esito dell’istanza di rimozione del vincolo paesaggistico.

Come si è sopra osservato, una volta imposto tale vincolo, l’area in questione è sottoposta ad un regime giuridico di particolare salvaguardia, che implica l’applicazione delle disposizioni del codice n. 42 del 2004 (sia sul possibile contenuto del piano paesaggistico, che in ordine alla gestione del vincolo).

Nella specie, l’amministrazione non aveva l’obbligo di provvedere sull’istanza volta a far disporre, in sostanza, la parziale revoca dell’atto impositivo del vincolo, risalente al 1958..

Tuttavia, essa ha istruito e valutato la documentata istanza dell’appellante, escludendo – in base ad una propria valutazione tecnico-discrezionale – la sussistenza di circostanze tali da far considerare l’area non più meritevole della protezione derivante dal provvedimento del 1958, impositivo del vincolo.

Ad avviso della Sezione:

– risulta del tutto ragionevole non solo la determinazione di confermare l’esistenza delle ragioni di tutela, ma anche quella di chiudere il procedimento, una volta constatato che il dedotto ‘degrado’ in realtà andava considerato insussistente;

– l’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990 (sull’obbligo di comunicare le ragioni ostative all’accoglimento di una istanza) si applica “nei procedimenti ad istanza di parte” per i quali sussista l’obbligo di provvedere.

Pertanto, il medesimo art. 10 bis – non essendovi ragioni per tardare ulteriormente la conclusione del procedimento – non trova applicazione quando, come è avvenuto nella specie, l’amministrazione respinge una istanza di revoca, pur non avendo alcun obbligo giuridico di provvedere su di essa.

5. Per le ragioni sin qui esposte, il ricorso in epigrafe deve essere respinto.

Le spese del secondo grado del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 9245 del 2009, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la società appellante alla rifusione delle spese del secondo grado di giudizio, che liquida in complessivi euro 2.000 (duemila), oltre gli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 luglio 2012

Redazione