La plusvalenza nella dichiarazione dei redditi non salva dal riciclaggio (Cass. pen. n. 32936/2012)

Redazione 21/08/12
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Svolgimento del processo

Con ordinanza del 27-30.1.12 il Tribunale di Milano, sezione riesame, ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 10.1.12 dal GIP dello stesso Tribunale nei confronti di P. G. per più delitti di riciclaggio.

Questi, in sintesi, i fatti come ricostruiti in sede di merito: il procedimento costituisce stralcio di altro denominato “Santa Giulia” in cui il GIP del Tribunale di Milano aveva spiccato ordine di custodia cautelare nei confronti di G.G. (poi deceduto e che nel corso del procedimento aveva ammesso gli addebiti) e di altre persone, per fatti di associazione finalizzata a commettere plurimi delitti di frode fiscale, appropriazione indebita, truffa, riciclaggio di denaro di provenienza delittuosa, corruzione di pubblici ufficiali; si trattava di fatti commessi nell’ambito della bonifica dell’ex area industriale Montecity – Rogoredo. Il procedimento riguarda, altresì, reati di indicazione, nella dichiarazione dei redditi, di poste passive fittizie perchè relative ad operazioni inesistenti, nonchè di appropriazione indebita di 22 milioni di Euro di pertinenza di società appartenenti al gruppo industriale Green Holding, il cui dominus era lo stesso G..

Tale procedimento pende attualmente in fase dibattimentale.

P.G. viene accusato di fatti di riciclaggio per aver movimentato somme di provenienza illecita su conti correnti a lui riferibili in Svizzera e nel Principato di Monaco, nonchè di aver venduto un appartamento a Milano (riferibile al G.) che sarebbe stato acquistato con fondi derivanti da delitti di appropriazione indebita, truffa e frode fiscale mediante sovra fatturazioni e false fatturazioni relative alle predette opere di bonifica commissionate al gruppo Green Holding di G.G., fondi derivanti dalla stipula di contratti in cui il corrispettivo delle opere di smaltimento di rifiuti aumentava senza apprezzabili ragioni. Secondo l’ipotesi accusatoria il meccanismo si articolava su un duplice ordine di condotte: da un lato veniva trasferito denaro verso l’estero dietro lo schermo di contratti di consulenza o di procacciamento d’affari sottoscritti fra società italiane e società estere; dall’altro, venivano emesse fatture dalle società estere, sui cui conti erano affluiti i fondi, in favore delle società italiane. In tal modo, sempre secondo la prospettazione dell’accusa, si determinavano illeciti vantaggi fiscali a favore delle società del gruppo Green Holding, che registravano in contabilità e annotavano in dichiarazione le fatture fittizie emesse dalle società estere in modo speculare ai flussi in uscita dalle loro casse;

inoltre, si producevano illeciti anicchimenti a favore dei reali beneficiai owners dei conti esteri, che si approvvigionavano del denaro di pertinenza della società che amministravano facendolo figurare come costo derivante dall’esecuzione dei rapporti contrattuali fittizi stipulati con le società estere. Le indagini hanno fatto emergere un articolato sistema di società che erano mere “scatole vuote” prive di ogni operatività sul piano industriale, preordinate soltanto a drenare denaro dalle società del gruppo per costituire fondi occulti nella disponibilità del G. e dei suoi sodali. I giudici del merito ritengono che P.G. ricevesse all’estero e desse impulso a movimenti di denaro già distratto dalle casse sociali del gruppo Green Holding con le modalità sopra esposte, somme che gli giungevano dopo essere transitate su più conti esteri per poi essere ulteriormente movimentate. In sede di interrogatorio innanzi al GIP il P. ha ammesso di aver ricevuto le somme di cui alla rubrica provvisoria, imputandole – però – a pagamenti di prestazioni professionali svolte in favore del G. per alcune operazioni immobiliari, prestazioni non formalizzate solo per evadere l’imposizione fiscale. Ha riferito di non aver mai dubitato della legittima provenienza delle somme bonificategli dal G. e ha aggiunto di essersi unito a luì in una serie di contratti di associazione in partecipazione relativi a singole operazioni immobiliari, per cui le somme bonificate avrebbero costituito la partecipazione di utili che gli spettavano, somme poi versate all’estero a fini di risparmio fiscale, di guisa che si sarebbe trattato di somme cui aveva diritto e che non erano destinate ad essere poi restituite al G..

Tali argomentazioni difensive vengono riproposte – fra le altre – nel ricorso contro l’ordinanza del Tribunale del riesame, di cui il P. chiede, tramite i propri difensori, l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti:

a) violazione dell’art. 291 c.p.p., comma 1 e art. 309 c.p.p., comma 5, nonchè dell’art. 24 Cost., per omessa trasmissione al GIP, da parte del PM, della richiesta di interrogatorio presentata dall’indagato, dichiaratosi disponibile a rendere ogni chiarimento, richiesta che – contrariamente a quanto affermato dai giudici del riesame – costituiva un elemento decisivo sotto il profilo della valutazione della personalità del ricorrente e della sua pericolosità (a tal fine non bastando la trasmissione della memoria difensiva del P.) e, quindi, da passarsi al GIP a pena di nullità dell’ordinanza genetica;

b) contraddittorietà e carenza di motivazione – in quanto risoltasi in mere formule di stile – sulla sussistenza concreta e attuale delle esigenze cautelari: in proposito, mentre la misura era stata applicata in relazione ad asserite ipotesi di riciclaggio di denaro di provenienza illecita riconducibile a G.G. (nel frattempo deceduto), l’ordinanza reiettiva della richiesta di riesame si fondava su ritenuti pericoli di inquinamento probatorio concernenti vicende relative a somme provenienti da soggetti diversi ( A.S. etc.) e a differenti operazioni societarie, vale a dire a fatti distinti da quelli oggetto dell’originaria contestazione e per i quali non sussisteva alcun grave indizio di colpevolezza (tanto che il GIP aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo delle somme costituenti il compenso per l’esecuzione di dette operazioni); inoltre, il ricorrente aveva tenuto una condotta tale da escludere ogni rischio di inquinamento probatorio (da escludersi anche per la solidità del quadro probatorio relativo agli illeciti compiuti dal G.) e aveva consentito il sequestro preventivo della somma di Euro 2.824.980,00 depositata su un c/c acceso presso la filiale di (omissis) della UBI Banca Popolare Commercio e Industria, non senza trascurare che la misura era stata disposta a distanza di oltre 2 anni dal deposito della memoria difensiva di cui s’è detto e a oltre 4 anni dall’ultimo pagamento estero su estero ricevuto e che, contrariamente a quanto asserito nell’ordinanza impugnata, dagli atti emergeva che il P. non aveva mai svolto attività di gestione fiduciaria di fondi di provenienza estera, dal momento che i bonifici da lui ricevuti altro non erano che compensi per prestazioni professionali espletate dal ricorrente in favore di soli 4 soggetti; nè vi era pericolo di reiterazione del reato, non ravvisabile sul mero fatto di svolgere una professione tale da agevolare la commissione di analoghi reati e di essere “al centro di una costellazione di rapporti fiduciari estremamente vasti” (secondo l’inconsistente affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata);

c) violazione dell’art. 292, comma 1, lett. d) per omessa indicazione della data di scadenza della misura in relazione alle indagini da compiere;

d) violazione dell’art. 275 c.p.p. e vizio di motivazione laddove l’ordinanza impugnata ha, con motivazione meramente di stile, ritenuto che l’unica misura idonea fosse, nella specie, quella intramuraria;

e) vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dei reati presupposto di quelli di riciclaggio addebitati al ricorrente, non essendovi prova che il denaro versato dal G. al P. fosse di provenienza delittuosa, anche perchè il primo disponeva, sin dalla fine degli anni ’90. di lecite disponibilità all’estero pari a quasi 100 milioni di Euro nel solo Lussemburgo, sicchè ben avrebbe potuto remunerare l’odierno ricorrente con somme di lecita provenienza; in particolare, quanto all’insussistenza dei reati presupposto di riciclaggio, si eccepisce che essi sono cronologicamente successivi ai pagamenti contestati nella rubrica provvisoria e che non vi è prova che il denaro utilizzato per pagare le prestazioni professionali del P. sia di provenienza delittuosa; quanto alla ritenuta anomalia dell’operazione di acquisto e successiva rivendita di un immobile in via (omissis), si tratta di operazione nata, in realtà, nel corso del secondo semestre 2007 e di rogito eseguito solo il (omissis), riguardo al quale l’assunto che la plusvalenza sia meramente apparente è privo di ogni supporto, trattandosi di guadagno tanto reale che l’indagato lo ha regolarmente denunciato nella propria dichiarazione dei redditi; inoltre, l’operazione in discorso non era idonea a ostacolare la tracciabilità del denaro relativo al prezzo della compravendita;

sempre la tracciabilità del trasferimento di fondi tra il conto corrente dell’indagato a quello riferibile al G. presso la medesima filiale della Banca UBS esclude il reato di cui all’art. 648 bis c.p.; ancora da censurare è l’affermazione del Tribunale del riesame secondo cui l’elemento soggettivo dei reati di riciclaggio si ricava dalla stessa elevata qualificazione professionale del P., che non poteva non accorgersi della provenienza illecita del denaro che riceveva: anche in proposito l’ordinanza impugnata trascura che il G. era titolare di un enorme patrimonio legalmente detenuto all’estero; quanto alla natura giuridica dei rapporti intercorsi tra il ricorrente e il G., non doveva sorprendere l’assenza di ogni forma scritta dei contratti di associazione in partecipazione fra loro stipulati e delle prestazioni professionali rese dall’indagato, visto che i relativi proventi erano destinati ad essere nascosti al fisco italiano; in conclusione, tutti quelli che venivano considerati come delitti presupposto dei fatti di riciclaggio altro non erano che operazioni illecite solo dal punto di vista tributario, a loro volta ormai coperte dalla c.d. scudo fiscale.

Motivi della decisione

1- Il motivo che precede sub a) va disatteso perchè l’obbligo di trasmettere al giudice della misura cautelare – unitamente agli elementi posti a base della richiesta – anche quelli favorevoli all’imputato concerne solo gli elementi oggettivamente favorevoli e non anche quelli che possano apparire tali in forza di argomentazioni o ricostruzioni logiche (cfr. Cass. Sez. IV n. 27379 del 22.4.10, dep. 14.7.10, nonchè altri precedenti, tutti conformi).

Nel caso in esame, la mera richiesta di essere interrogato è del tutto neutra perchè dimostra soltanto la legittima volontà di difendersi dell’indagato, ma non anche – se non attraverso un salto logico – il suo intento di non sottrarsi ad eventuale futuro provvedimento coercitivo o l’assenza di pericolosità, sicchè l’omessa sua trasmissione non poteva avere (nè in concreto ha avuto) incidenza alcuna sulla delibazione delle esigenze cautelari o sulla scelta della misura.

2- I motivi che precedono sub b) e sub e) – da trattarsi congiuntamente perchè connessi – sono infondati perchè con essi sostanzialmente si svolgono mere censure sulla valutazione operata in punto di fatto dal provvedimento impugnato, che con motivazione immune da vizi logico-giuridici ha negato che i delitti presupposto dei riciclaggi addebitati al P. siano ad essi successivi: in particolare, ha evidenziato che il denaro oggetto di riciclaggio è frutto di operazioni risalenti ad un arco di tempo compreso quanto meno fra il 2003 e il 2006 (per quanto concerne le attività delle c.d. società “cartiere”) e che i versamenti effettuati in favore del P. nel 2007 e nel 2009 provengono da c/c già attivi in precedenza e sui quali erano transitate somme di provenienza delittuosa; del pari i giudici del riesame hanno correttamente argomentato in ordine al carattere fittizio della compravendita immobiliare dell’appartamento sito in (omissis), essendo oggettivamente anomalo che il P., dopo aver acquistato l’immobile dal G. il (omissis), glielo abbia poi promesso in vendita dopo appena pochi giorni, il (omissis); a riguardo non importa che il rogito definitivo sia stato poi formalizzato solo il (omissis), poichè ciò che conta è il brevissimo arco cronologico (poco più di due settimane) trascorso tra la prima vendita e l’impegno alla retrovendita, con conseguente fissazione del prezzo. Nè l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della relativa plusvalenza e la tracciabilità dei pagamenti (avvenuti a mezzo assegni circolari a favore dell’odierno indagato) sono incompatibili con l’elemento oggettivo del delitto p. e p. ex art. 648 bis c.p., che resta integrato anche soltanto dalla condotta di sostituzione del denaro, cui si aggiunge l’operazione intesa ad ostacolare l’identificazione della sua provenienza delittuosa insita nel passaggio da un soggetto ad un altro, poichè in tale forma della condotta del delitto di riciclaggio non è necessario che sia impedita la tracciabilità del percorso dei beni (cfr., ad es., Cass. Sez. VI, n. 26746 del 6.4.11, dep. 7.7.11) e/o che le operazioni siano avvenute attraverso strumenti negoziali in sè apparentemente legittimi e non occulti, costituendo ostacolo all’esatta identificazione della provenienza di denaro od altri beni anche soltanto l’immotivato coinvolgimento, nei trasferimenti, di più persone (cfr. Cass. Sez. II, n. 47375 del 6.11.09, dep. 14.12.09).

Per tali ragioni non esclude il riciclaggio il fatto che determinati trasferimenti di fondi siano avvenuti tra c/c accesi presso lo stesso istituto di credito.

Le ulteriori obiezioni del ricorrente – comprese quelle relative alla provenienza delle somme da soggetti diversi dal G. e da operazioni estranee a quelle in contestazione – suppongono una differente lettura della vicenda che scivola sul piano dell’apprezzamento di merito e che richiederebbe un accesso diretto agli atti, operazioni incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi di cui all’art. 192 c.p.p., comma 2, nonchè la verifica sulla correttezza logico – giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario come grave, preciso e concordante, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti (cfr., ad es., Cass. Sez. VI, n. 20474 del 15.11.02, dep. 8.5.03).

A sua volta il controllo in sede di legittimità delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti e oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari di cui alle regole di valutazione della prova sancite dall’art. 192 c.p.p., comma 2.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità (cfr. Cass. Sez. VI, n. 15897 del 15 aprile 2009; Cass. Sez. VI, n. 16532 del 13.2.07, dep. 24.4.07, rv. 237145).

Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza nè violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità, che non può prendere in considerazione quale ipotetica illogicità argomentativa la mera possibilità di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta nel provvedimento impugnato (anche a tale riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata: cfr. Cass. Sez. I n. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99; Cass. Sez. I n. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass. Sez. I n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99; Cass. Sez. I n. 13528 dell’11.11.98, dep. 22.12.98; Cass. Sez. I n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass, S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97; Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. I n. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).

Nel caso in esame, è mera ipotesi alternativa quella secondo la quale il denaro ricevuto dal P. non sarebbe altro che l’utile di associazioni in partecipazione o il compenso di lecite prestazioni professionali, sfornite di prova scritta sol perchè i relativi proventi sarebbero stati destinati ad essere nascosti al fisco.

In ordine, poi, alla mancanza di prova dei reati presupposti, basti ricordare che – per antica e costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, da cui non si ritiene di doversi discostare – il presupposto sia della ricettazione sia del riciclaggio è l’esistenza di un delitto anteriore, ancorchè non accertato giudizialmente, ma desunto in via logico-indiziaria (cfr. Cass. Sez. II n. 28.6.79, dep. 7.1.80; Cass. Sez. II n. 549 del 29.6.81, dep. 23.1.82; Cass. Sez. II n. 3031 del 20.1.82, dep. 20.3.82; Cass. Sez. I n. 2179 del 20.1.83, dep. 17.3.83; Cass. Sez. II n. 3211 del 12.3.98, dep. 10.3.99; Cass. Sez. V n. 5801 del 24.2.82, dep. 11.6.82; Cass. Sez. II n. 10418 del 13.5.83, dep. 3.12.83; Cass. Sez. II n. 4469 dell’8.2.85, dep. 9.5.85; Cass. Sez. II n. 3392 del 16.12.83, dep. 12.4.84; Cass. Sez. II n. 4429 del 13.1.84, dep. 12.5.84; Cass. Sez. II n. 8730 del 12.4.84, dep. 18.10.84; Cass. Sez. VI n. 4077 del 20.11.89, dep. 21.3.90; Cass. Sez. IV n. 11303 del 7.11.97, dep. 9.12.97; Cass. Sez. Un. 546 del 7.1.11, dep. 11.1.11).

Quanto al fatto che il denaro movimentato dal P. provenisse dalle ingenti e lecite disponibilità economiche detenute all’estero dal G., l’impugnata ordinanza ha correttamente desunto il contrario dal ricorrere, nella specie, di operazioni particolarmente opache: infatti, l’assunto difensivo secondo cui il P. avrebbe percepito meri compensi di prestazioni professionali urta contro il rilievo – valorizzato dai giudici del riesame – che i bonifici in favore dell’indagato sono stati disposti non già dai soggetti giuridici che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbero stati beneficiari delle prestazioni medesime e, in quanto tali, interessati a scaricarne il costo, bensì personalmente dal G., mediante ricorso a conti cifrati e a società domiciliate in paesi offshore.

In breve, l’opacità delle operazioni e l’assenza di loro plausibili spiegazioni alternative, lette in chiave ai precedenti delitti commessi in occasione delle suddette opere di bonifica commissionate al gruppo Green Holding di G.G. (delitti che lo stesso G. aveva ammesso), sono state correttamente utilizzate dal Tribunale del riesame nel confermare l’elemento oggettivo e quello soggettivo dei riciclaggi ascritti all’odierno ricorrente.

3- Il motivo che precede sub c) è infondato perchè l’ordinanza applicativa di una misura coercitiva personale deve indicarne la data di scadenza solo quando sia stata emessa al fine esclusivo di prevenire il pericolo di inquinamento investigativo e non anche qualora ricorrano ulteriori e diverse esigenze cautelari (cfr. Cass. Sez. VI n. 10785 del 21.12.10, dep. 16.3.11; Cass. Sez. 6 n. 44809 del 6.11.03, dep. 20.11.03; Cass. Sez. III n. 1734 del 16.4.97, dep. 24.6.97).

Nel caso di specie le esigenze cautelari sono state ravvisate (dal GIP e dal Tribunale del riesame) non solo nel rischio di inquinamento probatorio, ma anche nel pericolo di reiterazione dei reati.

4- Il motivo che precede sub d) è infondato.

In realtà, i giudici del riesame hanno adeguatamente motivato in ordine all’inesistenza di idonee alternative alla custodia cautelare intramuraria, vista la gravità dei fatti, il loro numero e la fitta rete di relazioni personali dell’indagato, rilievi tali da far temere reiterazione dei reati e inquinamento delle prove da parte sua.

Nè in contrario basta invocare il mero decorso del tempo dai fatti oggetto di contestazione; anche a tale riguardo è appena il caso di rammentare che in tema di misure coercitive il tempo trascorso dalla commissione del reato, che pur costituisce ex art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) uno degli aspetti della motivazione nella scelta della misura, non esclude di per sè l’attualità e la concretezza delle condizioni di cui all’art. 274 c.p.p., lett. c) (cfr., ad es., Cass. Sez. II n. 21424 del 20.4.11, dep. 27.5.11; Cass. Sez. IV n. 6717 del 26.6.2007, dep. 13.2.2008).

Nel caso di specie l’impugnata ordinanza ha ravvisato (sulla scorta di recenti relazioni della G.d.F. espressamente richiamate) attualità e concretezza di esigenze cautelari, suscettibili di essere soddisfatte soltanto dalla custodia intramuraria, nell’essere ancora oggi il P. al centro di numerosi rapporti fiduciaria tali da consentirgli – anche se agli arresti domiciliari – di movimentare ingenti somme per via telefonica o telematica.

Le contrarie osservazioni del ricorrente sollecitano soltanto una nuova delibazione sul merito delle esigenze cautelari, operazione non consentita in questa sede.

5- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Ex art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente alle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p.,, comma 1 ter.

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