La persona affetta da malattia particolarmente grave non può essere sottoposta alla misura cautelare della custodia in carcere

Redazione 13/11/13
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Ritenuto in fatto

Il difensore di E.M. , persona sottoposta alla misura cautelare della custodia in carcere in relazione ad addebiti ex art. 416-bis cod. pen., propone ricorso avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, recante il rigetto di un atto di appello presentato ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. nei confronti di un provvedimento del Tribunale di Napoli del 18/12/2012, in forza del quale era stata rigettata una richiesta di sostituzione della predetta misura (con quella degli arresti domiciliari) motivata da ragioni di salute. Il Tribunale adito, dato atto che il devolutum non poteva comunque riguardare i profili di gravità indiziaria, segnalava che le pur compromesse condizioni fisiche del M. – affetto da patologia neoplastica al fegato, e in attesa di trapianto – non potevano intendersi incompatibili con lo stato di detenzione, dove era senz’altro possibile “l’adozione di tutti i monitoraggi e gli accorgimenti medici, diagnostici e terapeutici necessari a preservare lo stato di salute dell’indagato”. La più recente relazione sanitaria acquisita evidenziava peraltro che il M. rimaneva in buone condizioni generali e poteva avvalersi di strutture esterne in caso di necessità, con particolare riferimento all’ospedale (omissis) , dove egli era stato già temporaneamente ricoverato e dove era possibile eseguire il previsto screening pre-trapianto.
Con l’odierno ricorso, la difesa lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 275, comma 4-bis, del codice di rito, nonché illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata.
Il difensore evidenzia che il trapianto del fegato appare l’unica prospettiva idonea a salvare la vita del M. , dato il peggioramento delle sue condizioni come attestato anche in occasione del ricordato ricovero presso l’ospedale (omissis): a tal fine, era stato rappresentato al Tribunale di Napoli che il detenuto avrebbe dovuto sottoporsi ad un c.d. “trattamento ponte” (la struttura sanitaria individuata era quella di …, a …) volto a rallentare l’evoluzione della malattia in attesa della effettiva praticabilità del trapianto, dal momento che era comunque necessario eseguire gli esami richiesti, ottenere l’approvazione della competente commissione per l’ingresso in lista d’attesa ed attendere l’intervento. Nella prospettazione difensiva, “non è possibile, in regime inframurario, effettuare alcuno studio di compatibilità dell’organo donato da vivente: esso può avvenire solo presso il Centro trapianti, ove necessita la presenza contemporanea del soggetto donante e di quello ricevente. Altrettanto impossibile è l’esecuzione, nelle stesse condizioni, del trapianto, sia da vivente che da cadavere. Il trattamento ponte, poi, indispensabile per affrontare i tempi dell’attesa, non può essere effettuato con ricoveri estemporanei secondo l’art. 11 ord. Pen., poiché il paziente deve poter permanere, per il periodo necessario, in ricovero ospedaliero presso lo stesso centro che dovrà effettuare il trapianto”.
Nel contesto come appena descritto, rileva il ricorrente che l’ordinanza impugnata confonde l’imminente pericolo di vita (che viene escluso sulla base del giudizio relativo alle condizioni generali del M. ) con il grave rischio per la salute correlato alla necessità di eseguire il trapianto il più tempestivamente possibile; confonde altresì lo screening per l’inserimento del paziente in lista d’attesa (forse eseguibile anche in strutture diverse da un Centro trapianti) con il più volte ricordato “trattamento ponte” (di esclusiva pertinenza del Centro trapianti, dove comunque dovrebbe svolgersi anche il trattamento successivo all’intervento).

Considerato in diritto

Il ricorso è fondato.
Va innanzi tutto premesso che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, ai fini della valutazione della possibilità che un soggetto riceva in carcere i trattamenti necessari alla salvaguardia del suo stato di salute occorre distinguere il profilo diagnostico da quello terapeutico in senso stretto: ergo, si è affermato che “è illegittimo il provvedimento con cui il Tribunale del riesame affermi la compatibilità delle condizioni di salute con lo stato di detenzione, sulla base della sottoposizione dell’indagato a continua monitorizzazione; infatti, la previsione di cui all’art. 275, comma quarto bis cod. proc. pen. – per la quale non può essere mantenuta la custodia in carcere quando il soggetto sia affetto da malattia particolarmente grave, in conseguenza della quale le sue condizioni di salute siano tali da non consentire adeguate cure in ambiente penitenziario – deve essere intesa nel senso che il detenuto non può essere mantenuto in vinculis allorquando nell’istituto carcerario non sono praticabili adeguati interventi diagnostici e terapeutici, atti a risolvere o ad alleviare lo stato morboso, ed a tal fine non è certo sufficiente che il detenuto sia continuamente monitorato, posto che il controllo sulle condizioni di salute di un paziente attiene alla fase diagnostica e non implica la possibilità di effettive terapie intramurarie” (Cass., Sez. V, n. 26398 del 25/03/2004, **********, Rv 229861).
Nel caso oggi in esame, il Tribunale di Napoli rappresenta che – stando alle relazioni acquisite – al M. sarebbe garantita “l’adozione di tutti i monitoraggi e gli accorgimenti medici, diagnostici e terapeutici necessari”, ma non appare sostanzialmente trattato il tema, su cui non a caso la difesa torna ad insistere con l’odierno ricorso, della obiettiva differenza esistente fra uno screening pre-trapianto (che attiene alla fase diagnostica, e che appare in concreto l’unico aspetto effettivamente valutato dall’ordinanza impugnata) ed un “trattamento ponte” in vista di detto trapianto (trattamento che riguarda le terapie da garantire al paziente). Non è affrontata, in particolare, la deduzione difensiva circa l’impossibilità che prestazioni terapeutiche di quelle peculiarità possano utilmente essere apprestate ed erogate attraverso pur frequenti ricoveri presso strutture ospedaliere esterne, piuttosto che mediante la collocazione stabile del detenuto in un medesimo ambiente: ambiente che, peraltro, potrebbe pur sempre essere immanente all’amministrazione penitenziaria, e individuabile presso centri clinici in ipotesi attrezzati per far fronte al caso de quo. Infatti, “la vantazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della conseguente incompatibilità con il regime carcerario deve essere effettuata sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto, con riferimento alla possibilità di effettiva somministrazione nel circuito penitenziario delle terapie di cui egli necessita” (Cass., Sez. VI, n. 25706 del 15/06/2011, ********, Rv 250509).
Va infine segnalato che nel caso di specie risultavano essere stati richiesti accertamenti medici in forma di perizia (che il G.i.p. procedente aveva inutilmente sollecitato per rogatoria), poi non più disposti perché lo stesso giudice aveva ritenuto sufficiente l’esame delle cartelle cliniche nel frattempo acquisite: tuttavia, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “quando la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere sia fondata, a norma dell’art. 299, comma quarto – ter, seconda parte, cod. proc. pen. sulla sussistenza di patologie particolarmente gravi che rendano le condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione, il giudice, se non accoglie la domanda sulla base degli atti, ha l’obbligo di disporre accertamenti medici da espletarsi – contrariamente a quanto è previsto dalla prima parte della medesima disposizione a proposito dell’istanza fondata su ragioni diverse – con le formalità e le garanzie previste per la perizia” (Cass., Sez. I, n. 16547 del 14/03/2010, ****, Rv 246934; v. anche Cass., Sez. IV, n. 16524 del 15/02/2013, *******).
Vero è che, secondo altro indirizzo, “la previsione di cui all’art. 299, comma quarto-ter, cod. proc. pen. impone al giudice la nomina del perito solo se sussiste un apprezzabile fumus, e cioè se risulti formulata una chiara diagnosi di incompatibilità con il regime carcerario, o comunque si prospetti una situazione patologica tale da non consentire adeguate cure in carcere” (Cass., Sez. II, n. 8462 del 14/02/2013, Foraci, Rv 255236); sembra tuttavia evidente che, nel caso in esame, detta situazione patologica risulti essere stata ampiamente prospettata.
2. Si impone pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Napoli, che dovrà valutare:
– se presso l’istituto dove è attualmente ristretto il M. , od eventualmente presso altro centro clinico dell’amministrazione penitenziaria, il detenuto possa ricevere i trattamenti terapeutici necessari a tutela del suo stato di salute;
– in via preliminare, se per disporre degli elementi di valutazione necessari si renda necessario un accertamento peritale.
Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di cui al dispositivo.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale di Napoli per nuovo esame.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter, disp. att. cod. proc. pen..

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